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Parashat Shemot: Shemot (Esodo) 6,2 - 9,35
Rosh Chodesh: Bamidbar (Numeri) 28,9-15
Haftarah : Isaia 66,1-24
Per il commento alla parashah settimanale rinviamo principalmente al commento pubblicato su questo stesso blog, di Rav Scialom Bahbout, Rabbino Capo di Napoli e del meridione:
Vaerà: Il male e il boomerang
Da Torah.it
Il commento alla parashah settimanale di rav Pierpaolo Pin'chas Punturello
Altri commenti sulla parashah settimanale sul sito ChabadRoma, da cui traiamo queste sintesi della parashah e della haftarah
Riassunto della Parashà
Immagine da Kosher Spirit
Capitolo 6, 2-30. Il Signore si rivolge a Moshè innanzi tutto dichiarando che Egli, D-o
di Abramo, Isacco e Giacobbe, non si fece mai conoscere da loro con il suo
Nome, ma fece con loro un patto: avrebbe dato al popolo la terra di Canaan.
Quindi ora Egli annuncia a Moshe che, di fronte alle sofferenze di Israel, Egli
ha ormai deciso di intervenire con misure energiche contro l’Egitto per
liberare gli ebrei dalla schiavitù al fine di condurli nella terra promessa ai
padri. La parola di D-o sarà portata al faraone da Moshe, che però ancora una
volta tenta di sottrarsi al compito e ancora una volta si ribadisce che, al
fianco di Moshe, vi sarà il fratello Aron.
Capitolo 7, 1-29. Moshe e Aron sono dunque incaricati di presentarsi dinanzi al faraone
e – al fine di convincerlo – di mostrargli la verga che si tramuta in serpe:
anche i maghi fanno lo stesso, ma la verga di Moshe inghiottì le altre. Ma – il
Signore li aveva avvisati –il re d’Egitto rifiuta di cedere alla richiesta
perché il Santo Benedetto ha reso duro il suo cuore perché non acconsenta a
lasciar partire gli ebrei. Così si abbatté sul paese la prima piaga: seguendo
le istruzioni del Signore, Moshe si reca sulle sponde del Nilo – dove sa di
incontrare il faraone – che avverte di ciò che accadrà. Le acque del Nilo si
tramutano in sangue, se a Israel non sarà permesso partire Il faraone rifiuta
ed ecco che le acque del Nilo si tramutano in sangue. Anche i maghi, però,
ottengono il medesimo risultato, dunque il faraone non si preoccupa della
minaccia di Moshe. Dopo sette giorni, il Signore invia ancora Moshe dal faraone
per rinnovare la richiesta di lasciare partire il popolo ebraico, affinché
possa prestare culto a D-o, minacciando, in caso di rifiuto, un brulicare di
rane che avrebbe infestato tutto il paese, penetrando in ogni angolo, in ogni
abitazione.
Capitolo 8, 1-28. A causa del ripetuto rifiuto, Moshe, per ordine del
Signore, disse ad Aron di stendere la sua mano con la verga sulle acque
dell’Egitto, ed ecco che le rane uscirono e invasero il paese. Ancora, però, i
maghi riuscirono nella medesima impresa: si ebbe un’invasione di rane in tutto
il paese. A quel punto il faraone chiamò Moshe chiedendogli di pregare il
Signore affinché mandasse via le rane, allora egli avrebbe permesso al popolo
ebraico di partire. Il Signore esaudì la preghiera, ma, cessato il pericolo
immediato, il faraone tornò indietro nei suoi propositi.
Ancora una volta Moshe, per ordine del Signore,
disse ad Aron di stendere la verga sulla polvere che si sarebbe mutata in
insetti alati e così accadde. I maghi tentarono di far sparire gli insetti, ma
senza risultato. Essi riconobbero dinanzi al faraone che senza dubbio quel
prodigio era opera di D-o, ma egli non dette loro ascolto. Allora il Signore
comandò a Moshe di avvisare il faraone che, se non avesse lasciato partire il
popolo, avrebbe mandato un’invasione [miscuglio] di animali dannosi e così
avvenne, a causa dell’ennesimo rifiuto da parte del re. Il faraone chiamò Moshe
proponendogli di fare sacrifici al Signore, ma senza abbandonare la terra
d’Egitto. Il profeta rifiutò e il re cedette, permettendo che i sacrifici del
popolo ebraico fossero fatti nel deserto. Allorché Moshe, ottenuta finalmente
una risposta favorevole, pregò il Signore di allontanare le bestie dannose, il
cuore del faraone si indurì ed egli non permise più la partenza.
Capitolo 9, 1-35. Sull’Egitto si abbatté allora una terribile pestilenza che attaccò
tutto il bestiame grosso e minuto. La piaga, però non colpì il popolo ebraico.
Poi il Signore ordinò a Moshe e ad Aron di riempire i loro pugni di fuliggine
di fornace, per poi gettarla verso il cielo alla presenza del faraone. Tale
gesto fece coprire di bubboni e ulcere su uomini e bestie; anche i maghi furono
afflitti da questa piaga e pregarono il re di cedere alla richiesta di Moshe,
ma il cuore del faraone rimase chiuso. Allora Moshe stese la sua verga e una
grandinata potentissima si abbatté su tutto il territorio dell’Egitto. I
fulmini e i tuoni erano terribili. Solo sulla terra di Goshen non accadde
nulla. Il faraone chiamò Moshe dicendogli di aver riconosciuto il suo peccato,
asserendo che il Signore è giusto, mentre lui e il suo popolo erano colpevoli.
Dunque pregasse Moshe il Signore affinché facesse cessare quel turbine di
grandine ed egli avrebbe permesso al popolo ebraico di partire. Ma, cessato il
flagello, il faraone ritornò sulla sua decisione e il suo cuore si fece ancora
ostinato e chiuso. Questa parashà descrive le prime otto piaghe che il
Signore mandò sulla terra d’Egitto.
Rashì ha commentato
Il
Signore rivolse la parola a Moshe
(Esodo 6, 2). Parlò con lui severamente, perché egli si era espresso con
termini duri quando gli aveva detto: «Perché hai fatto del male a questo
popolo?».
Io
sono il Signore (Esodo 6,
2). Che non manca di ricompensare adeguatamente coloro che procedono dinanzi a
me. Non ti ho inviato senza motivo, ma per mantenere la promessa che feci ai
primi patriarchi. In questo senso troviamo che l’espressione : «Io sono il
Signore» è stata oggetto di interpretazioni midrashiche in diversi passi e
cioè: Io sono il Signore fedele nel comminare la punizione, quando si riferisce
ad argomenti che implicano la punizione, come per esempio: «Tu hai profanato il
Nome di D-o, Io sono il Signore»…
Non
mi feci conoscere da loro (Esodo
6, 3). Qui non è scritto: «Non feci conoscere», ma: «Non mi feci conoscere»,
cioè non mi feci conoscere con l’attributo della mia verità per il quale il mio
nome è Ha-Shem (l’Eterno, vale a dire fedele nell’attuare e dimostrare che le
mie parole sono vere, perché Io ho fatto loro delle promesse, ma non le ho
ancora mantenute.
Essi
non lo ascoltarono (Esodo
6, 9). Non accolsero le sue parole di consolazione.
Per
la depressione dello spirito (Esodo
6, 9). Chiunque sia addolorato ha l’alito corto e respira faticosamente. In
maniera analoga a questa, ho udito una spiegazione del brano data da rabbi
Baruch, figlio di Eli’ezer che cita questo versetto come prova: «Questa volta
farò loro conoscere la mia mano e la mia potenza, in modo che essi conosceranno
che il mio Nome è il Signore» (cf Bereshit 16, 21). Noi apprendiamo che
il Santo Benedetto Egli sia mantiene la sua parola. Quando si tratta di
punizione, fa conoscere che il suo Nome è il Signore; a maggior ragione Egli
adempie alla sua parola quando si tratta di ricompensa. I Nostri Maestri hanno
spiegato questo brano con riferimento a quanto precede, e cioè quando Moshe
disse: «Perché hai fatto del male al popolo?»(cf Esodo 5, 22). Il Santo
Benedetto gli rispose: «Peccato che essi sono scomparsi e non si ritrovano più
(riferito ai patriarchi). Io ho motivo di rammaricarmi della scomparsa dei
patriarchi, molte volte mi sono rivelato loro come il Signore Onnipotente ed
essi non mi hanno mai chiesto: “Come ti chiami?”, mentre tu hai detto: “Se mi
chiederanno qual è il tuo Nome, che cosa dirò loro?» (Shemot Raba
6; Talmud Sanhedrin 111a).
Feci
con loro un patto (Esodo 6,
4). Quando Abramo voleva seppellire Sara e non trovava una tomba, finché non ne
acquistò a caro prezzo. Così pure, nel caso di Yitchaq, lo contestarono per i
pozzi che aveva scavato. Così Giacobbe che acquistò una parte del campo per
piantare la sua tenda. Essi non criticarono il mio modo di agire, mentre tu mi
dici: «Perché hai fatto del male?». L’interpretazione midrashica, però, per
diverse ragioni non si accorda con il testo. Prima perché non è scritto: «Ed
essi non mi hanno domandato nulla riguardo al mio Nome, il Signore». Se poi tu
obietti che non fece loro conoscere il suo Nome, ecco ti dico che per prima
cosa quando si rivelò ad Abramo durante il sacrificio degli animali squartati,
è detto: Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei (cf Bereshit
15, 7). Inoltre, come si concilia il testo con le parole che seguono: Ed
anche Io ho ascoltato… pertanto di’ ai figli di Israele? Perciò io dico che
la Scrittura va spiegata secondo il senso letterale, cioè ogni parola va intesa
così come è detta. Quanto all’interpretazione midrashica, può anche essere
lecita, in quanto è detto: «Non è la mia parola come un fuoco, dice il Signore,
e come un martello che frantuma la roccia (cf Bereshit 23, 29), e
sprizzano tante scintille?» (Talmud Sanhedrin 34a; Talmud Shabbat
88b).
Come
il faraone ascolterebbe me… (Esodo
6, 12). Questa è una delle dieci deduzioni a minori ad maius che si
trovano nella Torà (cf Baraita di rabbi Yishma’el; si tratta di una
delle dieci regole esegetiche che i maestri del Talmud elaborarono. Secondo
quella che qui si applica, da un ragionamento a fortiori si stabilisce
una certa norma. Cf Bereshit Raba 92, 7).
Io
sono il Signore (Esodo 6,
29). È lo stesso ordine detto sopra: Vieni, parla al faraone…, ma poiché il
testo ha interrotto la narrazione per riferire le genealogie, qui riprende da
capo.
Moshe
disse al Signore (Esodo 6,
30). Questa è la stessa obiezione citata sopra: I figli di Israel non mi
hanno ascoltato. Il testo si ripete perché avevano interrotto la
narrazione. Questo è un modo di fare abituale per intendere: «Ma torniamo a
quanto dicevamo prima».
Da Torah.it
Hilchot
Bechirot, le regole delle elezioni
Jonathan Pacifici
“E disse il Signore a Moshè ed Aron dicendo: ‘Se il
Faraone vi parlerà dicendo ‘Date un
prodigio’, e dirai ad Aron ‘prendi
la tua verga e gettala dinanzi al Faraone’; diverrà
un
serpente.’” (Esodo VII, 8-9).
Negli ultimi anni ci siamo soffermati più volte su questo verso
che rappresenta in qualche modo il contesto di tutta l’uscita dall’Egitto. Il prodigio
della verga che diviene serpente è incastonato tra i primi contatti di Moshè con
il Faraone circa la liberazione di Israele e le piaghe. Non è ancora infatti una
piaga, ma serve senz’altro a dimostrare la potenza del Signore. Secondo il principio
che non c’è studio senza chidush, innovazione, vorrei provare
a riflettere ancora su questo verso soprattutto in funzione del periodo pre-elettorale
che stiamo vivendo in Israele. In realtà c’è una certa tendenza a tracciare una
sostanziale dicotomia tra la democrazia ed il sistema legale ebraico. Ciò è quantomeno
discutibile. Rav Shlomò Goren in Torat Hamedinà, sostiene che
la fonte per le elezioni democratiche secondo la Torà si trova in nel Talmud (Beracot
55a) laddove vengono elencate alcune delle incredibili qualità di Bezalel, il costruttore
del Santuario, tra le quali quella di conoscere il senso profondo delle Lettere
dell’alfabeto ebraico con le quali è stato costruito il modo e quella di capire
l’ordine esatto della costruzione dei vari arredi. Eppure è proprio la qualità di
Bezalel che non dipende strettamente da questi a rendere straordinaria la sua opera:
‘Disse
Rabbì Izchak: ‘Non si mette un gestore sul pubblico altro che se viene
eletto dal pubblico come è detto: ‘Guardate! Ha chiamato il
Signore per nome Bezalel’. (Esodo XXXI, 1) Disse il Santo Benedetto Egli Sia a
Moshè: ‘Moshè,
è adatto secondo te Bezalel?’ Gli disse: ‘Padrone
del Mondo se davanti a Te è adatto, davanti a me non a maggior ragione?’ Gli disse:
‘Nonostante
ciò vallo a dire loro [ai figli d’Israele]. Andò e disse loro
ai figli d’Israele: ‘E adatto secondo voi Bezalel?’ Gli dissero:
‘Se davanti
al Santo Benedetto Egli Sia e davanti a te è adatto, davanti a noi non a maggior
ragione.’
Dunque la grandezza di Bezalel è non solo quella di essere un personaggio oggettivamente
straordinario, ma piuttosto quella di essere eletto dal popolo di Israele. In tal
senso è notevole che non basta né l’indicazione del Santo Benedetto Egli sia, né
l’opinione di Moshè: è il popolo che rende Bezalel e la sua opera adatti a ricevere
la Presenza Divina. L’idea di fondo è, come abbiamo visto in diverse occasioni,
che la Santità deriva dalla capacità di Israele di attaccarsi alla Torà ed essa
è indipendente dalla materia. Non il Santuario è santo ma l’atto costruttivo d’Israele.
Non il Sefer Torà ma la scrittura del Sofer, lo scriba. E visto che Israele, essi
stessi, sono il Santuario di D-o, ne deriva che la Presenza Divina è funzione delle
azioni di questi ed in primis della loro capacità di scegliere dei leader che siano
degni. Rav Goren ricorda un altra fonte classica per il potere che il leader d’Israele
ha: le decisioni del pubblico e le regole che questo stabilisce. Queste regole non
sono necessariamente le regole della Torà ma possono essere delle disposizioni tecniche
legate al momento o alle necessità. L’esempio classico è Jeoshua al quale il popolo
assegna la facoltà di vita e morte. È il pubblico che decide. Questa possibilità
sopravvive e persiste sia a livello nazionale che comunitario ed è la base di ogni
ordinamento corretto delle nostre Comunità fino ad oggi. La possibilità ad esempio
di gestire un budget comunitario, di regolare la vita delle nostre collettività
secondo le esigenze, le norme dell’epoca e via dicendo. In particolare in Italia,
la tradizione delle nostre Comunità prevede da ‘sempre’ un consiglio di persone
del pubblico che gestisce le necessità della collettività. Rav Goren z”l prende
talmente seriamente la cosa da dedicare un intera sichà,
al
sistema elettorale alla luce degli insegnamenti dei Maestri. Egli era scontento
del sistema proporzionale perché a suo avviso veniva meno il legame diretto tra
lo shaliach e coloro che lo mandano. Il parlamentare è un inviato del pubblico e
quando il pubblico delega una persona, delega una persona e non una lista. Secondo
Rav Goren è da preferire il sistema uninominale anche perché l’idea del collegio
si sposa molto bene con il valore della rappresentanza regionale e territoriale
che è secondo i Maestri una delle caratteristiche della Terra d’Israele. Eppure
anche l’uninominale non è un sistema perfetto perché in presenza di molteplici candidati
per il singolo collegio è plausibile che l’eletto abbia raccolto la minoranza assoluta
dei voti. Pertanto secondo Rav Goren sarebbe auspicabile un doppio turno che consenta
il ballottaggio e garantisca che l’eletto sia il messo della maggioranza dei suoi
elettori. Da questi ‘tecnicismi’ assai moderni possiamo tornare alla nostra Parashà
per capire da dove partono queste idee. Abbiamo visto in passato che lo Sfat Emet
ragiona sui versi della verga-serpente in funzione dell’insegnamento del Talmud
circa il divieto di muoversi durante la preghiera: persino se il re saluta o se
si ha un serpente attorcigliato al calcagno. Il Tanchumà si chiede come mai la regola
del serpente che si attorciglia mentre si prega venga associata dalla Mishnà al
caso in cui il re saluti. Che nesso c’è tra il re ed il serpente? Risponde il Midrash
a nome di Rabbì Jeoshua ben Pazì che il regno, il potere, ha la stessa voce del
serpente ed uccide come il serpente. Ossia ha la capacità di uccidere attraverso
la lechishà, il sussurro. Il sussurro del serpente, con il suo veleno uccide. Le
parole, soprattutto le parole del potere corrotto, uccidono. Alternativamente il
nesso è legato al percorso. Il serpente procede in maniera non lineare. Serpeggiando
appunto. Così il regno ‘contorce le vie’. Non è lineare. Fa quello che gli è comodo.
Il Midrash ci spiega cosa c’entra tutto ciò con il Faraone: ‘Così come
il serpente è contorto, così il malvagio Faraone è contorto. E quando verrà ad essere
contorto, dì ad Aron ‘prendi la tua verga’. Che
esponga la verga dinanzi a lui, come a dire: da questa verrai punito.’ (Midrash Tanchumà
in loco). Il miracolo del serpente diviene allora il documento programmatico dell’uscita
dall’Egitto. Il Faraone è contorto, il potere è contorto, il suo regno è contorto.
Il Faraone è lui stesso il Tanin HaGadol, il Grande rettile, che se ne sta nel suo
Nilo. Ebbene, dinanzi al modello di un potere corrotto che serpeggia in un paese
che si fonda sul dio Nilo che a sua volta serpeggia nella sua terra, Iddio benedetto
spiega al Faraone, prima ancora che tutto cominci, il concetto di verga. La verga
di Aron diviene prima serpente, poi torna ad essere verga. E da verga divora i falsi
serpenti creati dai ciarlatani di corte. Sforno sostiene che questi avevano solo
la forma del serpente ma non la vita. Proseguendo sulla stessa parabola diremmo
che il sistema Egitto è ormai divenuto la caricatura di se stesso. Contorto per
abitudine, senza neanche la vitalità dell’istinto del male. La verga, simbolo di
rettitudine, è l’esatto opposto del Faraone-Serpente e dell’Egitto. È la semplicità.
L’essere yashar. Retto. La leadership di Moshè diviene allora l’alternativa al serpente.
La verga che diverrà poi il simbolo di questa leadership, ed anche dei suoi errori
come a Mè
Merivà,
diviene l’epicentro del pensiero ebraico tanto da essere accostata nel Santissimo
alla stessa Torà. Moshè è un leader del tutto umano, con i suoi difetti e le sue
imperfezioni ma è profondamente diverso dal Faraone e da ogni leader di quell’epoca
in quanto assolutamente radicato nell’idea di Shlichut. Quando Moshè
termina di assemblare l’opera di Bezalel la Torà ci dice: “E non
poté Moshè venire alla Tenda della Radunanza poiché risiedeva su di essa la nube,
e la Gloria del Signore riempiva il Santuario”. (Esodo XL, 35). Ma come non poteva?
Colui davanti al quale si è piegato l’Egitto, si è aperto il mare, è scesa la Manna!
Colui che è salito sul Sinai ed è stato quaranta giorni e quaranta notti senza mangiare
né bere! Per tutto il libro di Shemot non abbiamo fatto che parlare di Moshè e delle
sue prodezze! Ed ora che il Santuario è pronto “E non potè Moshè”!? La grandezza
di Moshè spiega Rav Elon è quella di non montarsi mai la testa. Ha ricevuto l’ordine
di far uscire Israele dall’Egitto. L’ha fatto. Di ricevere la Torà. L’ha fatto.
Ha ricevuto l’ordine di costruire il Santuario e lo ha fatto. Il Santuario è pronto,
e Moshè consegna la chiavi ad Israele. Torna in cuor suo ad essere un ebreo come
gli altri. Perché dovrebbe entrare lui? Il Santuario è veramente pronto perché solo
se faccio piccolo il mio io, posso fare spazio per il Signore! Solo quando Moshè
torna in cuor suo ad essere uno qualsiasi, nonostante tutto quanto fatto fino ad
ora, “e completò Moshè l’opera”. Moshè non sarebbe entrato se non fosse stato chiamato
da D-o nel primo verso della successiva Parashà, nel primo verso del libro di Vajkrà.
In questo senso prende una luce particolare tutta la discussione su quella piccola
lettera ‘alef’ di ‘Vajkrà’
che è un po’ il chiedesi di Moshè: ‘chi, io?’ Per Moshè è poco più di un caso, per
il Signore, proprio per via di questa umiltà, una consacrazione a sommo profeta
d’Israele. In un mondo di politici di professione il modello Moshè scardina tutti
i modelli. Aron era il politico. Rashì commenta il “manda
per mano di cui sei solito mandare”, l’ultima disperata protesta di un Moshè
che non vuole l’incarico, come: manda Aron che è solito di queste cose. E invece
no. La Torà ci propone a tutti i costi un leader che viene veramente dal popolo
e che si percepisce come assolutamente a termine. Non è un caso che è Aron che deve
gettare la verga. Aron che sarebbe il candidato più ovvio è colui che, prova nella
prova, va dal Faraone a dire che la leadership vera è un altra. E lo fa con gioia,
dice il Testo. C’è nella rinuncia di Aron una prova forse superiore a quella di
Moshè: Moshè
ed Aron nel suo sacerdozio, dice il salmista.
Non si può scindere Moshè da Aron. Lo Shem MiShmuel ricorda che nel Talmud (TB Bavà
Kammà 16a) è detto che la colonna vertebrale dell’uomo dopo sette anni dalla morte
diviene un serpente ma questo solo nel caso in cui la persona in vita non si inchinava
per la benedizione di Modim, nella quale per il Talmud in Berachot è necessario
chinarsi fino a che le vertebre non siano completamente distaccate. Il serpente
è allora il simbolo della morte (e possiamo aggiungere che il suo ruolo nel primo
peccato introduce la morte nel mondo) che è caratterizzata dalla separazione. Al
contrario il compito dell’uomo nella sua vitalità, nel suo servizio Divino, è quello
di congiungere, ma anche di piegarsi davanti al Signore. E Moshè fa proprio questo.
Con pazienza e abnegazione costruisce un popolo di shlichim
che
sanno essere anche mandanti. Quando la sua figura profetica viene affiancata dalla
profezia di Eldad e Medad e Jeoshua prova ad asserire l’unicità di Moshè è lo stesso
Moshè che protesta dicendo ‘magari tutta la Congrega fossero
profeti!’
La sfida delle elezioni è allora anche un occasione per tornare al concetto stesso
di ‘cosa pubblica’, di shaliach ed in definitiva di tzibbur
di
pubblico.
Alla ricerca,
non semplice, di shlichim che possano essere degni di questo nome.
Shabbat Shalom
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