Calabria judaica - Sud ebraico

Calabria judaica ~ Sud ebraico
Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria
con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione

Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé.
La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu.
Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta.
Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne).
Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; a
ttraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.

IN PRIMO PIANO: eventi e appuntamenti

27 gennaio 2019: Giorno della memoria

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venerdì 28 ottobre 2016

Ritorno a Scyle - Bova Marina

La settimana scorsa abbiamo vissuto uno splendido Shabbat di fraternità e condivisione a Bova Marina, alloggiando in una bella struttura sul mare a 200 metri dall’antica sinagoga del IV-VI secolo, nell’antica statio romana di Scyle. Si tratta della più antica sinagoga d’Occidente (dopo quella di Ostia Antica) di cui restano tracce, in primo luogo del bellissimo mosaico con raffigurazione della menorah (purtroppo lesionato dal passaggio di un aratro), del nodo di Salomone e di altri motivi ornamentali.
Erano presenti uomini e donne, giovani e meno giovani: oltre ai calabresi provenienti da tutta la Calabria e da fuori, amici di tutta Italia, dal Nord… alle isole. Roberto, Ettore e suo figlio Emanuel di Milano, David, Daniel e David di Roma, Carlo e Giuseppe da Catania e Palermo, e naturalmente rav Eliyasaf Shayer, rav yemenita da Israele, che ha condotto le tefillot e “cantato” la Torah.
Italkim, sefarditi, temanim (yemeniti), askenaziti, un piccolo concentrato dell’universo ebraico ha fatto per un giorno (speriamo sia solo il primo di molti altri) rivivere dopo 1500 anni l’antica sinagoga, che il Santo Benedetto ci conceda di vederla rinascere a nuova vita!

Nel pomeriggio di venerdì ci siamo recati vicino alla spiaggia, e guardando il mare verso Yerushalayim abbiamo recitato minchah e arvit e accolto la Sposa Shabbat in tutto il suo splendore: nonostante il buio e la difficoltà di leggere, devo dire che è stata una kabbalat Shabbat tra le più belle vissute, e come per me per molti altri.
Quindi la cena, con i dolci della nostra cuoca preferita (ci hanno accompagnato anche per la colazione e tutti i pasti successivi, nonché per una imprevista distribuzione: kol haKavod a lei per il lavoro che ha svolto con gioia e con amore!) e i conversari notturni.

La mattina di Shabbat abbiamo vissuto il momento più intenso e commovente, qualcuno ha anche pianto e in tanti avevamo il groppo in gola: abbiamo svolto la prima preghiera pubblica dopo 1500 anni sul suolo che avevano calcato con fede e devozione i nostri padri. I ragazzi di Roma sono stati fantastici nella conduzione di Shachrit e Mussaf ed il canto della Torah di rav Shayer ci ha fatto vivere in pieno la nostra situazione e la nostra memoria, il nostro presente e il nostro passato: “Il Signore, il Signore è Dio clemente e benigno, longanime, e grandemente benevolo e verace. Egli conserva la benevolenza anche ai millesimi discendenti”.
Quindi, prima di tornare a “casa” per il pranzo abbiamo visitato il piccolo ma prezioso museo che ospita, tra gli altri reperti, essenzialmente il bellissimo mosaico di cui ho parlato precedentemente.
Pranzo, poi Daniele di Cittanova, giovane archeologo, ci ha parlato ampiamente della sinagoga dal punto di vista storico e artistico; oneg Shabbat, una leggera seudah shelishit, Minchah e Arvit, e siamo giunti alla havdalah che ha concluso il nostro Shabbat.
A seudah reviit (ebbene sì!) ad inaugurare degnamente la nuova settimana, un piacevole ed imprevisto incontro… interreligioso.
Mentre stavamo mangiando entra un numeroso gruppo guidato da un prete cattolico. Da questo gruppo si stacca un signore anziano, che viene da noi che avevamo la kippah, ci dà la mano e ci saluta con grande calore e con grande affetto, e dopo di lui anche altri. Abbiamo ricambiato il loro saluto offrendo loro una bottiglia del nostro vino kasher ed un ampio assortimento dei nostri dolci, ed il rabbino ha condotto P. Angelo Battaglia, parroco di Brancaleone, a visitare la Sukkah che era stata costruita il giorno precedente.
Poi, tra di noi, conversazioni fino a tardi, scambi di email, telefoni e contatti Facebook hanno preceduto il meritato riposo prima della sveglia che per molti era alle 4 del mattino. Che dire? Banalmente, stanchi ma felici!

Un grazie alle forze dell’ordine che hanno vegliato sulla nostra sicurezza, e che hanno assistito anche alla nostra tefillah: io credevo che ci prendessero per pazzi, con quelle 3 ore e mezza di canti e preghiere in una strana ed incomprensibile lingua, mentre invece ci è stato assicurato da altri che avevano molto apprezzato la nostra serietà e l’impegno.
Ed un grazie affettuoso anche agli amici di Roma e di Milano, “convocati” con brevissimo anticipo per venire ad aiutare questa piccola realtà ebraica calabrese che muove, con qualche difficoltà ma con grande entusiasmo, i suoi primi passi in questa storia che ha quasi 2000 anni.


(le foto sono mie, di Roque Pugliese, Pietro Calabrese, Raffaella Turano e di Giovanni, un amico di Bova Marina)

giovedì 27 ottobre 2016

Bereshit 5777

שבת שלום!
SHABBAT SHALOM!

Shabbat 27 Tishri 5777 (29 ottobre 2016)

Parashat Bereshit: Bereshit (Genesi) 1,1-6,8
Haftarah: Isaia 42-5,21

Dio completò il cielo e la terra
e ciò che vi si trova:
tutto era in ordine.
Il settimo giorno,
terminata la sua opera,
Dio si riposò.
Il settimo giorno
aveva finito il suo lavoro.
Dio benedisse il settimo giorno
e disse: 'È mio!'.
Quel giorno si riposò dal suo lavoro:
tutto era creato.

Rav Pinhas Punturello
In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.”
Questi primi versetti della Genesi sono ben noti al mondo occidentale, sia esso laico che religioso e sono talmente noti da essere recepiti in maniera acritica, mentre invece dovremmo porci la domanda del perché Dio abbia scelto di iniziare la Creazione proprio con la luce.
La luce, nella sua essenza assoluta, ha valore solo se relazionata alla sua utilità: sono le creature, piante, animali e uomo, che danno un senso alla luce perché ne recepiscono l’esistenza ed i benefici.
Comprendiamo quindi che se Dio ha iniziato il mondo attraverso la luce essa non è un semplice mezzo di Creazione, ma probabilmente ne è anche lo scopo, perché se la luce fosse stata creata secondo una visione utilitaristica, non avrebbe avuto senso il suo posto all’inizio di Bereshit, della Genesi, ma avremmo dovuto incontrarla dopo la creazione di piante, animali ed esseri umani.
La luce della Creazione, la luce primordiale che noi leggiamo con il veloce passaggio: “Sia la luce!” non è uno strumento, bensì uno scopo. Per questo motivo il suo ingresso nel Creato è un presupposto alla Creazione stessa e non una sua conseguenza: Dio ha come scopo l’introduzione della luce nel mondo e la luce quindi è il progetto stesso della Creazione, il suo orizzonte più completo.
Quando Dio afferma: “Sia la luce!” Non esprime solo una volontà creativa, ma ci indica un comportamento, una strada da percorrere, la giusta via da seguire che è quella di portare luce, di essere fonti di luce e di sentire la luce come scopo della nostra esistenza e non solo come mezzo di utilità.
La sfida primordiale che Dio consegna all’uomo non è quella di non vivere al buio, di non essere complice del buio, cosa che possiamo fare in maniera passiva semplicemente non compiendo il male, la sfida posta di fronte all’umanità è quella di essere fonte di luce, di impegnarsi affinché in questo mondo vi sia luce e per fare questo la passività di un comportamento che non fa il male non basta, bisogna agire per il bene, bisogna agire portando luce.
Noi iniziamo lo Shabbat con la luce delle candele e lo concludiamo con il fuoco della cerimonia dell’Havdalà, apriamo e chiudiamo il nostro riposo settimanale con la luce, come monito di impegno per il mondo e di richiamo creativo e morale che si esprime illuminando il posto di Dio in ognuna delle nostre realtà.





RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ
BERESHIT: LA TORÀ E LA CREAZIONE 

Le prime pagine della Torà espongono la genesi del mondo e quella dell'Umanità. Sono pagine dense di significato e dense di insegnamento, sono, forse tra le più profonde di tutta la Bibbia, perché affermano e proclamano quelle idee e quelle verità che sono poi diventate le idee e le verità fondamentali dell'ebraismo. Alla mente del lettore o dello studioso attento, queste prime pagine rivelano una serie di problemi e di argomenti che ugualmente si impongono all'esame per la loro importanza: la creazione, la funzione dell'uomo nel mondo, il Sabato, il peccato, il primo omicidio, l'Umanità adamitica ecc., sono tutti argomenti che richiedono uno studio ed un commento a sé. Cominciamo dal primo argomento, ossia dal primo capitolo, da questo grande e superbo capitolo che ad ogni lettura rivela nuovi significati. E questo il vero capitolo che parla della genesi, della creazione del mondo, ma ne parla con un linguaggio così solenne ed elevato che difficilmente si riuscirebbe ad immaginare come la prima pagina della Torà potrebbe aprirsi su un quadro più solenne e maestoso. E, ho detto, il capitolo della Creazione:
"Nel principio creò Iddio il cielo e la terra". E qui occorre subito un'osservazione preliminare. Chi credesse di trovare in questo racconto l'esposizione scientifica, direi geologica, delle origini del nostro pianeta e delle sue vicende, potrebbe senz'altro chiudere il libro, subito dopo il primo verso. La Torà non è un libro scientifico; non parla cioè di verità ricercate o scoperte dagli uomini, attraverso il loro lavoro intellettuale e le loro indagini razionali: la Torà non parla di verità che oggi sono accettabili e domani sono respinte dalla stessa scienza che prima le aveva proclamate. La Torà parla di verità assolute che, come tali non temono il confronto con la scienza. Quando la Torà parla della creazione del mondo, intende soprattutto affermare verità che erano attuali ai tempi di Mosè e dei nostri padri e che sono parimenti attuali per noi: verità che non invecchiano, verità che non si superano, perché appartengono ad una sfera ove non ha interferenza il processo delle teorie dell'umana scienza. La Torà vuole dunque affermare, e lo afferma solennemente, che il mondo, questo mondo, questa terra, i cieli e i mondi che vi si aggirano sono opera della volontà creatrice di Dio. Questa verità che, forse, poteva essere enunciata anche con un solo verso, il primo verso, è invece oggetto di un intiero capitolo nel quale, in una successione meravigliosa, si espone in che ordine abbiano avuto origine le cose che ci circondano. Dalla luce, simbolo più alto di vita, creata nel primo giorno, ai cieli e alle acque, elementi primordiali, e da questi alla terra e alle germinazioni arboree in essa poste, dagli astri e dalle stelle destinate a regolare la vita, i tempi e le stagioni del nostro pianeta, agli esseri animati che popolano gli spazi acquei e aerei, fino agli esseri animati che vivono sulla terra e sino all'uomo, è tutta una meravigliosa scala di opere che dalla luce, dal cielo, scende gradatamente sino all'uomo, creatura ultima in ordine di tempo, ma prima rispetto allo scopo di tutta la creazione. E in tutti questi atti creativi, divisi armonicamente nei sei giorni, è sempre la parola di Dio, ossia la Sua volontà che domina il quadro grandioso. Ogni atto creativo è preannunciato dalla parola: Iddio disse, Iddio cioè, ordinò, volle, e la cosa fu, quasi a ricordare che ciascuno di questi esseri creati, sia delle sostanze superiori sia di quelle del mondo terreno, ciascuno di questi esseri è dominato dalla volontà suprema di Dio. Non vi sono esseri, o poteri o divinità all'infuori di Lui; non vi sono poteri o divinità nascoste nel cielo e nelle acque e con esse personificate, non vi sono divinità negli astri e nelle stelle, secondo le credenze dei popoli antichi, non vi sono infine divinità della natura e del mondo vegetale e animale, ma su tutta la natura, tutti i mondi e tutti gli esseri sovrasta l'unica divinità dominatrice di Dio, che tutto ha chiamato all'esistenza con un atto del suo volere. Tutto è stato da Lui voluto e così creato, con quelle determinate leggi, con quei determinati principi di sviluppo che giustificano la Sua approvazione; tutto ha una sua via, una sua legge, un suo "perché", tutto è così perché così doveva essere nei piani armonici della Creazione di Dio; tutto quello che esiste nel mondo e sopra il mondo, tutta questa natura, tutto questo meraviglioso creato, è così perché Egli lo volle; tutto ed anche noi, anche l'uomo così fu da Lui creato per un fine superiore anzi per un fine che giustifica tutta la Creazione. Appunto perciò l'uomo fu creato a "immagine di Dio" cioèha avuto da Dio il dono di uno spirito illuminato e immortale, il dono di una volontà libera e buona che egli deve mettere in atto nella vita del mondo: l'uomo sarà veramente la creatura eletta da Dio se manifesterà le divine virtù che in lui si nascondono, sarà signore della natura, se saprà innalzarsi dalla materia organica al mondo dei valori assoluti ed eterni, al mondo del bene che egli può creare con la sua volontà. Tutta la natura ha uno scopo, tutta la creazione ha un fine: far prevalere sulle cose create l'idea di Dio, l'idea del bene e della volontà morale che deve permeare la vita del mondo: questo fine della creazione che è poi il fine del mondo, è meravigliosamente espresso con l'idea del Sabato. Tutto è creato, tutto è preparato per il Sabato; i sei giorni formano un mondo a sé, il mondo della creazione materiale; dopo di essi il settimo giorno, che è il mondo dello spirito, dell'assoluto, nel quale l'uomo deve riconoscersi creatura di Dio che ha un limite alla sua attività, come il mondo ha avuto un limite dalla mano dell'Artefice Sommo. 
Il Sabato è dunque coronamento dell'opera, è il fuoco di tutta la creazione, è il momento in cui Dio si rivela all'uomo e l'uomoascende a Dio: il Sabato è come dissero i Maestri "la perla di tutta la Creazione".

Da ChabadRoma
La creazione del mondo
Le prime parole di Bereshit sono: In principio D-o creò il cielo e la terra
Se si considera che Adamo venne modellato dalla mano di D-o e che fu D-o stesso ad impartirgli questo precetto, come non stupirsi che egli non sia stato in grado di resistere per sole tre ore?
Conviene chiedersi: era veramente l’intenzione di D-o che Adamo ed Eva vivessero per sempre nel Giardino dell’Eden in uno stato di divina rettitudine, innocenza e immortalità?
Come un re che desidera costruire un palazzo consulta il progetto dell’architeto, così D-o guardò la Torà e creò il mondo
Così come un uomo non può realizzarsi tentando d'essere donna, una donna non può giungere a completare il proprio potenziale tentando d'imitare gli uomini






Nerot Shabbat - I lumi di shabbat
Rav R. Colombo

Introduzione
Lo shabbàt e l’uomo
"Gli ebrei si sono mantenuti in vita grazie all’osservanza dello Shabbàt". Questo insegnamento dei Maestri non è una esagerazione. Per sei giorni l’uomo deve lavorare duramente, deve compiere ogni tipo di opera creativa e questo lo porta spesso lontano dalla famiglia e gli impedisce di avere un rapporto sereno con i propri simili.
Ma di Shabbàt colui che per tutta la settimana è rimasto schiacciato dalle macchine e dalle produzioni lascia il posto ad un uomo nuovo che cessando ogni attività produttiva si libera dalla schiavitù del lavoro e può così dedicare un intero giorno a se stesso, per stare con i propri familiari, per studiare o per meditare e per riposare.
Di Shabbàt tutti sono uguali: i servi assumono gli stessi diritti dei loro padroni e nessuno può avvalersi dell’opera di un suo simile per cui, grazie ad esso, si può ricostruire quel rapporto con il prossimo che la fremente attività operativa tende sempre più a guastare. A ragione fu scritto che "il riposo dello Shabbàt è la radice di ogni progresso spirituale e sociale ed è legato ai pensieri ed alle aspirazioni più elevate dell’uomo: Dio, la dignità dell’animo umano, la libertà e l’uguaglianza di tutti gli uomini, la supremazia dello spirito sulla materia" (Grunfield).

Il lume dello Shabbàt e la gioia
Ma lo Shabbàt perde tutto il suo significato se lo si considera come un giogo, come un impedimento al divertimento e allo svago. Affinché lo Shabbàt possa realmente servire all’essere umano esso deve essere vissuto in un atmosfera di gioia e di pace soprattutto nell’ambito familiare. Per questo i nostri Maestri stabilirono che in ogni casa ebraica dovessero essere accesi alla vigilia dello Shabbàt alcuni lumi, la cui luce aiuta in modo fondamentale a trascorrere con felicità la santità di questo giorno. Il Talmùd (Shabbàt 25b) ritiene infatti che il buio rattristi l’animo umano, e la tristezza porta spesso alla rabbia e alla violenza a tal punto che in un’abitazione priva di luce non vi può regnare una vera pace e il vero rispetto tra le persone. Diversa è invece l’atmosfera che si crea in una casa luminosa, soprattutto quando la luce che si trova in essa è la luce naturale che scaturisce dai lumi accesi apposta per lo Shabbàt, una luce che emana calore e che è diversa dalla luce fornita dall’elettricità alla quale l’uomo si è ormai abituato.
I lumi dello Shabbàt ci donano così non solo la gioia della luce ma anche il modo per valorizzare la natura che spesso l’uomo, con le proprie invenzioni, non riesce veramente ad apprezzare. È dunque ovvio che il compito dell’accensione dei lumi spetti soprattutto alla donna. È la donna, infatti, che più dell’uomo, si adopera per abbellire la casa per lo Shabbàt ed è soprattutto lei che rende gioioso tale giorno preparando i cibi e gli abiti affinché i familiari vivano la sua santità nella giusta maniera, ed è perciò alla donna che viene dato l’onore di completare la sua opera attraverso l’accensione delle neròt Shabbàt.

Il lume dello Shabbàt e la creazione
L’accensione dei lumi dello Shabbàt, oltre che un motivo pratico, acquista anche un valore simbolico. Secondo la tradizione ebraica, dopo il peccato commesso da Adàm alla vigilia del primo Shabbàt della storia il Signore decise di diminuire gran parte dell’intensità della luce primordiale, e di conservare per l’epoca messianica quanto era stato da essa tolto.
Ma i Maestri del Midràsh ritengono che per amore e per rispetto dello Shabbàt la vera luce creata da Dio rimase nel mondo fino al termine di tale giorno e che solo allora il Creato conobbe la tristezza dell’oscurità.
Attraverso l’accensione dei lumi ogni venerdì sera si vuole così ricordare che fu proprio grazie allo Shabbàt che la luce continuò ad illuminare il mondo e che il creato intero può trovare la forza di esistere e di svilupparsi solo se l’uomo saprà vivere i valori fondamentali racchiusi nello Shabbàt.
Inoltre, secondo l’insegnamento dei Maestri, ancora oggi una parte del calore che emanava dalla luce che Dio tolse all’umanità ritorna nell’animo dell’ebreo ogni venerdì sera, per permettergli di assaporare almeno per un giorno alla settimana una piccola parte della vera beatitudine che il Creatore riservò per il mondo futuro. L’accensione dei lumi simboleggia così anche quella luce che si trova dentro ognuno di noi e che ci accompagna per tutto lo Shabbàt.

Il lume dello Shabbàt, il Bet Hamikdàsh e l’evento messianico
Secondo alcuni Maestri, attraverso i lumi dello Shabbàt, si vuole ricordare anche il Bet Hamikdàsh.
Nel Santuario, vi era infatti un lume perpetuo che aveva lo scopo di insegnare al popolo ebraico che la presenza divina, simboleggiata appunto da un lume il cui fuoco è sempre rivolto verso il cielo, non si sarebbe mai staccata da Israele.
Al giorno d’oggi il Santuario non è ancora stato ricostruito ma la "Shekhinà" (presenza divina) continua a restare unita al popolo ebraico proprio grazie all’osservanza dello Shabbàt e attraverso l’accensione dei lumi ogni ebreo cerca di esprimere tutto ciò in modo simbolico. Ma un noto Midràsh si spinge ancora oltre e vede nell’accensione dei lumi addirittura la promessa del futuro evento messianico. Leggiamo questo breve passo: "Se osserverete il precetto dell’accensione dei lumi io vi farò vedere i lumi di Siòn, come è detto: "In quel giorno Io cercherò Gerusalemme alla luce di un lume".
Allora non vi servirà la luce del sole per veder ma Io stesso vi illuminerò come è detto: "Il sole non sarà più per te la luce del giorno e la luna non illuminerà la tua notte ma Sarà il Signore la vera luce per il mondo"… E tutto questo grazie a che cosa? Grazie ai lumi che voi accendete per lo Shabbàt" (Yalkùt Shim’onì - Beha’alotekhà).
Il senso del Midràsh è chiaro. I valori che caratterizzano lo Shabbàt sono i soli che possono avvicinare la venuta del Messia ed è per questo che secondo un famoso insegnamento dei Maestri, il "figlio di Davìd" arriverà proprio quando gli ebrei avranno imparato a rispettare lo Shabbàt. Ma ciò non succederà mai se non sapremo gioire e onorare lo Shabbàt così come uno sposo adora la propria sposa, e i lumi dello Shabbàt, come abbiamo già detto, ci potranno aiutare in questo compito.

Le norme
(Le seguenti norme seguono l’opinione di rav ‘Ovadià Yosèf e sono state liberamente tratte dal libro "Yalkùt Yosèf" riguardante le regole dello Shabbàt)

L’accensione dei lumi dello Shabbàt
a) Accendere i lumi alla vigilia dello Shabbàt è un precetto affermativo comandato dagli antichi Maestri.
b) Di norma basta accendere un solo lume ma è d’uso accendere almeno due lumi, in rapporto alle espressioni: "Zakhòr et yom hashabbàt - Ricorda il giorno del Sabato" e "Shamòr et yom hashabbàt - Osserva il giorno del Sabato" presenti nella Torà. Alcuni usano accendere sette lumi e altri ancora accendere un numero di lumi equivalente a quello dei componenti della famiglia.
c) Chi usa accendere sette lumi (o comunque un numero superiore ai due lumi che di solito si accendono) non potrà cambiare tale usanza a meno che non si tratti di un caso di forza maggiore, come ad esempio in mancanza di un numero sufficiente di lumi o in caso di ristrettezze economiche che non permettono di affrontare la spesa per l’acquisto dei lumi bastanti. Alcuni Maestri permettono di cambiare la propria consuetudine e di accendere un minor numero di lumi dopo aver espresso la propria intenzione di fronte a tre maschi adulti (Bet Din).
d) Se i lumi si sono spenti dopo essere stati accesi (per esempio a causa del vento), e non è ancora iniziato lo Shabbàt, si può ripetere l’accensione ma senza recitare la benedizione ad essi relativa. Se la donna che ha adempiuto alla mitzvà aveva l’intenzione di accettare su di sé lo Shabbàt al momento dell’accensione, non potrà ovviamente riaccendere i lumi nel caso di un loro spegnimento, per cui dovrà chiedere ad un altro componente della famiglia di adempiere nuovamente al precetto ma senza recitare alcuna benedizione.
e) È bene vestire gli abiti dello Shabbàt prima di adempiere all’accensione, ma non è il caso di ritardare per questo l’adempimento della mitzvà, con il rischio di accendere i lumi dopo l’inizio dello Shabbàt.
f) Le donne sposate devono obbligatoriamente coprire i loro capelli al momento dell’accensione.

Chi è tenuto ad accendere
a) Sia gli uomini che le donne sono obbligati ad accendere i lumi dello Shabbàt, ma è bene che sia una donna sposata ad adempiere a questa mitzvà anche a nome del marito. È infatti la donna che di solito si occupa di abbellire la casa per lo Shabbàt e di cucinare delle pietanze particolari per deliziare questo giorno, per cui è giusto che sia lei ad accendere i lumi la cui luce aiuta la famiglia a vivere in un’atmosfera di pace e di felicità.
b) È consuetudine che sia il marito a preparare l’occorrente per l’accensione, in modo da partecipare all’adempimento del precetto.
c) Anche le donne adulte nubili che vivono per proprio conto devono adempiere al precetto dell’accensione recitando l’apposita benedizione.
d) Se una donna è impossibilitata ad accendere i lumi dello Shabbàt per qualsiasi motivo (ad esempio se ella si trova all’ospedale), dovrà essere il marito ad adempiere al precetto recitando l’apposita benedizione, anche se in casa è presente una figlia già adulta.
e) Un uomo sposato che per qualsiasi motivo è costretto a passare lo Shabbàt fuori di casa senza la propria famiglia (per esempio per motivi di lavoro), è tenuto ad accendere i lumi dello Shabbàt recitando l’apposita benedizione nel posto in cui si trova.
f) Le ragazze (adulte o ancora bambine) che si trovano in casa dei propri genitori possono accendere i lumi dello Shabbàt ma è assolutamente vietato a loro recitare la benedizione relativa a questo precetto per cui esse si devono limitare a rispondere "Amèn" alla benedizione sentita dalla madre o, all’occorrenza, dal padre.
g) Ragazzi o ragazze adulti e non ancora sposati che vivono per conto proprio (per esempio degli studenti), devono accendere i lumi dello Shabbàt e recitare l’apposita benedizione nella loro abitazione o nella loro stanza.
h) Una donna sposata che passa tutto lo Shabbàt assieme al marito nella casa della propria suocera o della propria madre, o comunque presso un’altra famiglia, dovrà accendere i lumi nella propria camera da letto e recitare l’apposita benedizione. Se la moglie e il marito (o al limite solo la donna) sono invitati per la sola cena sabbatica, la donna dovrà accendere i lumi nella propria casa prima di recarsi al posto in cui si terrà la cena (questa regola è valida solo se ella esce dalla propria abitazione entro un’ora e un quarto prima dello spuntare delle stelle, in quanto prima di tale periodo è vietato accendere i lumi dello Shabbàt).
i) Un uomo sposato (oppure celibe ma che vive per conto proprio) che è costretto a passare lo Shabbàt lontano dalla propria moglie, e viene invitato per la cena sabbatica presso un’altra famiglia, dovrà accendere i lumi nella propria abitazione (o nella propria camera d’albergo) e recitare l’apposita benedizione. Se egli non ha però l’intenzione di tornare a casa nel corso dello Shabbàt, dovrà accendere i lumi nella stanza in cui dormirà, nell’abitazione della famiglia che gli fornisce l’ospitalità. La regola qui scritta è valida anche per le donne che vengono invitate per lo Shabbàt prive del relativo consorte.
l) Una donna o un uomo che si trovano all’ospedale devono, se possibile, accendere i lumi dello Shabbàt nella stanza in cui sono ricoverati e recitare l’apposita benedizione.

La benedizione
a) La benedizione per l’accensione dei lumi è la seguente:
Barùkh attà Adon-i Eloh-nu mèlekh ha’olàm ashèr kiddeshànu bemitzvotàv vetzivànu lehadlìk ner shel Shabbàt.
(È dunque sbagliato concludere la benedizione dicendo "Shel Shabbàt Kòdesh" come molti usano fare)
b) I sefarditi e gli ebrei di rito italiano usano recitare la benedizione prima di accendere i lumi, mentre gli ashkenaziti usano pronunciarla dopo l’accensione.
c) Una donna (o un uomo) sefardita che si è dimenticata di recitare la benedizione prima di accendere tutti i lumi, non potrà più recitarla dopo l’accensione, neppure mettendo le mano sul volto per non vedere la luce dei lumi (come usano fare gli ebrei ashkenaziti). Se ella si accorge della dimenticanza durante l’accensione, potrà però recitare la benedizione prima di accendere l’ultimo lume di quelli che ella usa accendere di solito.
d) Non si può discorrere di argomenti non inerenti all’accensione dei lumi tra la benedizione e l’inizio della mitzvà (ed è bene non parlare affatto fino alla fine dell’accensione), per cui, se ci si fosse interrotti parlando sarà necessario ripetere la benedizione.

Il tempo dell’accensione
a) L’accensione dei lumi va fatta di norma venti minuti prima del tramonto del sole e in caso di necessità, dieci minuti prima del tramonto. Abbiamo già visto che l’accensione può, all’occorrenza, essere anticipata, ma non può per nessun motivo essere fatta prima di un’ora e un quarto dal momento dello spuntare delle stelle.
b) Secondo l’usanza degli ebrei sefarditi, la donna (o l’uomo) non è obbligata a iniziare l’osservanza dello Shabbàt fin dal momento dell’accensione dei lumi (ed è bene che ella affermi esplicitamente — o almeno pensi — di non voler iniziare lo Shabbàt al momento dell’accensione).
Gli ashkenaziti, però, accettano lo Shabbàt nell’istante stesso dell’accensione per cui una donna che segue tale usanza non può spegnere il cerino o lo stoppino adoperato per l’accensione dei lumi e deve limitarsi ad appoggiare tali oggetti ancora accesi con cura su di un vassoio in modo che essi si consumino totalmente.
c) La donna (o l’uomo) non deve ritardare il momento dell’accensione con il rischio di adempiere alla mitzvà quando lo Shabbàt è ormai iniziato per cui, se ha il dubbio che il sole sia già tramontato è preferibile non accendere i lumi oppure chiedere ad un non ebreo di accenderli senza ovviamente recitare alcuna benedizione.
Se si è certi che lo Shabbàt ha già avuto inizio, è assolutamente vietato chiedere ad un non ebreo di accendere i lumi o di fare qualsiasi altro lavoro vietato ad un ebreo.
d) Dopo aver acceso i lumi (se non si è accettato lo Shabbàt) è possibile bere fino al tramonto del sole.

Il luogo dell’accensione
a) È bene accendere i lumi nel luogo in cui avverrà il pasto sabbatico ma questo non è strettamente obbligatorio, per cui è permesso cenare in terrazza o in una stanza diversa da quella in cui sono posti i lumi.
b) Alcuni usano accendere dei lumi in ogni stanza dell’abitazione, ma anche chi segue tale consuetudine dovrà limitarsi a recitare la benedizione solo sui lumi che si accendono nella sala da pranzo.
c) Dopo l’accensione, i lumi non possono più essere spostati a meno che non vi sia una reale necessità. Per cui, non è possibile accendere i lumi in una stanza dell’abitazione e poi trasportarli nella sala da pranzo, ma è permesso, ad esempio, portare dei lumi spenti nella camera di una donna ammalata affinché ella possa accenderli, e poi trasportarli nel posto in cui la famiglia si riunirà alla sera per desinare.

I lumi
a) È bene adoperare dei lumi ad olio ma in loro mancanza si possono adoperare delle candele di cera. I lumi vanno posti preferibilmente in fila (alcuni però usano disporli a cerchio) e distanti l’uno dall’altro, in modo che le loro fiamme non si possano toccare.
b) Non si possono toccare i lumi o porre sotto di essi dei recipienti per raccogliere la cera o l’olio che cola da essi se lo Shabbàt è già iniziato.

L’accensione dei lumi di Yom Tov
a) È un precetto positivo accendere dei lumi prima dell’inizio di ogni festa solenne e recitare, prima dell’accensione (come per lo Shabbàt), la seguente benedizione:
Barùkh attà Adon-i Eloh-nu mèlekh ha’olàm ashèr kiddeshànu bemitzvotàv vetzivànu lehadlìk ner shel Yom Tov.
Se il Yom Tov capita invece di Shabbàt, si dovrà recitare la seguente benedizione.
Barùkh attà Adon-i Eloh-nu mèlekh ha’olàm ashèr kiddeshànu bemitzvotàv vetzivànu lehadlìk ner shel Shabbàt veshèl Yom Tov.
b) È bene non recitare la benedizione di "Shehecheyànu" dopo l’accensione dei lumi poiché tale usanza non ha nessuna base nella Halakhà, per cui, è preferibile che le donne (o gli uomini) che usano recitare tale benedizione interrompano questa consuetudine e recitino la sola benedizione di "Shehecheyànu" che si trova dopo il Kiddùsh (chi usa recitare la benedizione di "Shehecheyànu" dopo l’accensione dei lumi di Yom Tov, e non vuole interrompere tale consuetudine, non dovrà rispondere Amèn alla benedizione di Shehecheyànu che sentirà dopo il Kiddùsh).
c) Riguardo al tempo dell’accensione dei lumi del Yom Tov, vi sono due diverse usanze. Molti hanno la consuetudine di accendere tali lumi dopo lo spuntare delle stelle, prima del Kiddùsh. Altri, invece, accendono i lumi del Yom Tov prima del tramonto. Se possibile, si segua questa seconda opinione.

Il testo della Hadlkakàt Neròt
Barùkh attà Adon-i Eloh-nu mèlekh ha’olàm ashèr kiddeshànu bemitzvotàv vetzivànu lehadlìk ner shel Shabbàt.
Barùkh attà Adon-i Eloh-nu mèlekh ha’olàm ashèr kiddeshànu bemitzvotàv vetzivànu lehadlìk ner shel Yom Tov.
Barùkh attà Adon-i Eloh-nu mèlekh ha’olàm ashèr kiddeshànu bemitzvotàv vetzivànu lehadlìk ner shel Shabbàt veshèl Yom Tov.

Tefillàt em ’al habbanìm
Ribbonò shel ’olàm. Zakkènu sheyihyù banènu meirìm battorà veyihyù beriìm begufàm vesikhlàm, ba’alè midòt tovòt ve’osekìm battorà lishmà vetèn lahèm chayìm arukìm vetovìm veyihyù memulaìm battorà uvachokhmà uviràt shamàyim veyihyù ahuvìm lemà’la venechmadìm lemàta vetatzilèm me’àin harà’ umiyètzer harà’ umikòl minè pur’ànuiòt veyihyù lahèm chushìm beriìm la’avodatèkha vezakkènu berachamèkha harabbìm shetemalè mispàr yamènu baarikhùt yamìm veshanìm. Betùv uvne’imùt veahavà veshalòm, venizkè legaddèl kol echàd mibbanènu vekhòl achàt mibbenotènu lattorà velachuppà ulma’asìm tovìm; vetazmìn lekhòl echàd mibbanènu et bat zivugò ulkhòl achàt mibbenotènu et ben zivugà. Velò yidachù lifnè acherìm chas veshalòm, uvarèkh ma’asè yadènu littèn lahèm mohàr umatàn be’àin yaffà venukhàl lekayèm ma sheànu mavtichìm littèn lahèm, ulhasiàm ’im zivugàm bimè hanne’urìm benàchat uvrùach uvsimchà umehèm yetzeù peròt tovìm uvanìm tzaddikìm zokhìm umezakkìm lekhòl Israèl, velò yitchallèl shimkhà haggadòl ’al yadènu, velò ’al yedè zar’ènu, chas veshalòm umalè kòl mishalòt libbènu letovà bivriùt behatzlachà vekhòl tuv vehitgadàl kevòd shimkhà haggadòl ukhvòd toratèkha, ’al yadènu ve’àl yedè zar’ènu.
Amèn ken yehì ratzòn yihyù leratzòn imrè fi vehegyòn libbì lefanèkha Adon-i tzurì vegoalì.
*Tale formula segue l’opinione del "Kaf Hachayìm". Altri concludono "shel Shabbàt veyòm Tov".

Accensione dei lumi
Benedetto, Tu o Signore, Re del Mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comandato di accendere i lumi di Shabbàt.
Benedetto, Tu o Signore, Re del Mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comandato di accendere i lumi di Yom Tov.
Benedetto, Tu o Signore, Re del Mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comandato di accendere i lumi di Shabbàt e di Yom Tov.
È uso che la madre benedica i propri figli subito dopo l’accensione dei lumi dello Shabbàt poiché, secondo una tradizione rabbinica, questo è il momento in cui il Signore ascolta maggiormente le preghiere dei figli d’Israele.

Preghiera della madre per i figli
Padrone del mondo. Dacci il merito di avere figli che illuminano il creato con la Torà e fa che essi siano sani nel corpo e nella mente, che abbiano buone qualità e che si occupino di Torà per amore di essa e senza secondi fini. Dà loro una vita lunga e buona e fa che siano sempre pieni di Torà, di sapienza e di timore di Dio. Fa’ che siano amati in cielo e apprezzati in terra. Preservali dall’invidia, dall’istinto cattivo e da ogni punizione. Dà loro una giusta inclinazione affinché Ti possano servire nel modo desiderato. Concedi a noi, in grazia della Tua misericordia, di avere una lunga e felice vita e che in ogni giorno e in ogni anno di essa vi sia del bene, della felicità, vi sia amore e pace. Fa’ che possiamo avere il merito di crescere ogni nostro figlio e ogni nostra figlia nella strada della Torà, che possano essi creare una famiglia ed essere pieni di buone azioni. Fa’ sì che ognuno di essi trovi il giusto compagno, che non vengano mai rifiutati dai loro simili, ciò non sia mai, e benedici l’opera delle nostre mani affinché possiamo noi avere la possibilità di fornire loro con letizia il necessario, e anche più di ciò che essi realmente necessitano. Fa’ si che possiamo sempre mantenere le promesse che noi facciamo loro. Fa’ in modo che ognuno di noi possa far sposare i propri figli quando essi sono ancora giovani e che essi diano dei buoni frutti. Fa’ che anche loro possano avere dei figli giusti, pieni di merito e capaci di dedicarsi al bene del popolo ebraico. Fa’ sì che il Tuo nome non venga mai profanato per causa nostra o dei nostri figli, ciò non sia mai, ed esaudisci le nostre richieste di salute di felicità e di bontà. Possa l’onore del grande Tuo nome e l’onore della Tua Torà divenire sempre più immenso grazie a noi e all’opera dei nostri figli.
Questa sia dunque la Tua volontà. Possano le mie parole esser grate e così pure l’espressione dei sentimenti del mio cuore davanti a Te, o Signore, mia rupe e mio redentore.
"Molto ho imparato dai miei maestri, ancora di più dai miei compagni, ma più di tutto ho imparato dai miei allievi". (Talmùd)
Scrivere con te questo piccolo lavoro per me è stato molto importante. Assieme a te ho scoperto motivi e regole che non conoscevo su una mitzvà che da sempre ha caratterizzato l’osservanza dello Shabbàt.

Voglia Iddio che in futuro anche altri Benè Israèl, come me, possano godere dei tuoi insegnamenti e delle tue parole e possa tu diventare una vera Èshet Chàyil e una grande madre per il popolo ebraico.

Palermo, XVII Giornata europea della cultura ebraica

Palermo, 18 settembre 2016
Antico quartiere ebraico
Archivio Storico Comunale - Aula Damiani Almeyda

XVII Giornata europea della cultura ebraica

Per il terzo anno consecutivo a Palermo, l’Istituto Siciliano di Studi Ebraici ha dato vita alla Giornata Europea della Cultura Ebraica organizzando la visita guidata dell’antico quartiere ebraico e il convegno sul tema “Lingue e dialetti ebraici”.
Di mattina, accompagnato dalla guida turistica qualificata Chiara Utro, un nutrito gruppo di cittadini ha percorso i vicoli e le piazze dell’antica Giudecca di Palermo.
La visita ha avuto inizio nelle vicinanze di quella che fu la Porta Giudaica e si è snodata lungo le vicine vie del centro storico che fino al 1492 furono abitate dalla più numerosa comunità ebraica siciliana. L’itinerario ha compreso il Palazzo Cusenza-Marchesi, dove è stato possibile visitare l’ipogeo posto a 10 metri di profondità (da alcuni studiosi ritenuto un mikveh), e si è concluso nell’Archivio Storico Comunale, la cui Aula Damiani Almeyda ripropone le proporzioni e le suggestioni dell’antica Sinagoga.
Durante una sosta fatta in Piazza Meschita, nei pressi della non più esistente Sinagoga di Palermo, l’attrice palermitana Stefania Galatolo ha letto alcuni brani tratti dalla lettera Obadiah di Bertinoro, risalente al 1488 (appena quattro anni prima dell'espulsione degli Ebrei dai territori spagnoli), che dà una descrizione particolareggiata della Sinagoga di Palermo, definendola senza «pari in tutto il mondo».
Nel pomeriggio, all’interno dell’Aula Damiani Almeyda dell’Archivio Storico Comunale, si è svolto l’incontro sul tema Lingue e dialetti ebraici .
Grande interesse hanno suscitato gli argomenti trattati dal rav Pierpaolo Pinhas Punturello, rappresentante per l’Italia di Shavei Israel (con la sua introduzione ricca di spunti) e gli interventi di Angela Scandaliato, docente di Storia e Filosofia ("Il giudeo-arabo e le lingue degli Ebrei di Sicilia: studi e ricerche"), e di Rita Calabrese, docente di Letteratura Tedesca ("Parlo tedesco perché sono ebreo").
L’incontro è stato moderato da Luciana Pepi, docente di Filosofia Medievale Ebraica.
Gli onori di casa sono stati fatti da Eliana Calandra, dirigente responsabile del Servizio Sistema Bibliotecario e Archivio Cittadino. All’incontro hanno partecipato con loro interventi Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, Andrea Cusumano, assessore comunale alla Cultura, Adham Darawsha, presidente della Consulta delle Culture del Comune di Palermo, e l’imam Ahmad Abd al Majid Francesco Macaluso, della Co.Re.Is.

Per tutta la durata della manifestazione nell’Aula Damiani Almeyda sono stati tenuti esposti due importanti documenti che fanno parte del patrimonio archivistico del comune di Palermo: il Registro contenente la promulgazione dell’Editto di Granata del 1492, scritta in volgare siciliano e in lingua spagnola, e la deliberazione n. 707 del 18 febbraio 1939 con cui il podestà di Palermo deliberò di “dispensare dal servizio” un ingegnere di I classe perché appartenente alla “razza ebraica”, in attuazione delle leggi razziste del 1938.
Al termine dell’incontro, l’“Ensemble Tahev Shir” , composto da Alejandra Bertolino Garcia (voce e percussioni) e Silvio Natoli (chitarra e oud), ha eseguito brani di musica ebraica sefardita e ashkenazita.
I lavori sono stati conclusi da un breve saluto di Evelyne Aouate, presidente dell’Istituto Siciliano di Studi Ebraici.
Sandro Riotta

[tutte le foto sono dell’autore]