Calabria judaica - Sud ebraico

Calabria judaica ~ Sud ebraico
Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria
con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione

Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé.
La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu.
Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta.
Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne).
Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; a
ttraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.

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giovedì 21 febbraio 2013

Tetzavvè: Quando è l'abito che fa il monaco




Riflessione di rav Scialom Bahbout,
Rabbino capo di Napoli e del Meridione,
sulla parashah del prossimo Shabbat

Immagine dal blog "Corsobiblico


"Tu poi avvicina a te Aron tuo fratello insieme ai suoi figli di mezzo ai figli d'Israele, perché esercitino il sacerdozio in mio nome .... Farai confezionare per Aron tuo fratello vestimenti sacri, segno di dignità e magnificenza .... Faranno i vestiti sacri per Aron tuo fratello per consacrarlo perché eserciti il sacerdozio per me. Farai rivestire Aron tuo fratello e i suoi figli con lui degli indumenti, li ungerai, li inizierai, li consacrerai ed eserciteranno il sacerdozio per me ... e saranno su Aron e sui suoi figli quando entreranno nella tenda della radunanza o quando si avvicineranno all'altare per officiare nel luogo santo, in modo da non incorrere in colpa e quindi morire...
(Esodo 28: 1-3, 41, 43)

Quando indossano i propri abiti - portano con sé il sacerdozio; quando non indossano i propri abiti - non portano con sé il sacerdozio.
(TB Zevachim 17a)

"Perché la parashà dei vestiti del sacerdozio è stata posta vicino a quella dei sacrifici? Per insegnarti che come i sacrifici espiano, anche i vestiti sacerdotali espiano: la tunica espia l'omicidio .... I pantaloni espiano gli atti incestuosi ... la cintura espia i pensieri (peccaminosi) della mente.... il dorsale espia l'idolatria ... il manto espia la maldicenza ecc.
(TB Arachin 16).

La Torà dedica uno spazio notevole agli abiti sacerdotali, descrivendoli nei minimi particolari. Se "l'abito non fa il monaco", che importanza può avere usare un abito speciale per dare maggiore dignità alla funzione che una persona ricopre?
Proviamo a seguire come viene sviluppato il discorso sul vestiario nella Torà.
Dio crea l'uomo nudo e dopo che Adamo ed Eva disobbediscono, mangiando dell'albero della conoscenza, dona loro dei vestiti e li caccia dal giardino dell'Eden: "Il Signore Dio fece all'uomo e a sua moglie tuniche di pelle ('OR) e li vestì" (Genesi 3: 21). Questo intervento divino sembra contraddire l'ordine che Dio stesso dà all'uomo: "Prolificate e moltiplicatevi, riempite la terra e conquistatela": infatti, mentre, da una parte, il Signore dà all'uomo l'ordine di conquistare la terra e lo incita a modificare l'ambiente e migliorare le sue condizioni di vita, dall'altra, è lui stesso a confezionare il primo vestito per la prima coppia: Dio eleva così l'uomo dal suo status di "animale" tra gli altri animali a essere capace di dare un significato morale superiore in tutti gli aspetti del suo comportamento. L'abito confezionato da Dio non è solo un fatto convenzionale, ma rappresenta quindi molto di più, è un'aggiunta alla creazione, una seconda pelle creata e donata da Dio all'uomo, per conferirgli una corporeità superiore.
Questo vale per Adamo che, con i vestiti confezionatigli da Dio, viene elevato e, mediante tikkun (restauro), diventa un certo senso sacerdote dell'umanità. Ma che senso hanno i vestiti che Mosè fa cucire per i sacerdoti del popolo d'Israele?


Immagine da "Vincitori fino in fondo

L'uomo tende a mascherarsi e a non apparire per quello che è veramente: se questo è consentito una volta all'anno - sfogandosi a Purim - per il resto dell'anno è proibito: bisogna avere un habitus esterno che corrisponda veramente a quello interno. In ebraico luce OR, con la alef, e pelle 'OR, con la 'ain, hanno quasi lo stesso suono: ognuno ha un habitus interno, una luce interiore che lo illumina, e un habitus esterno, un comportamento che illumina la persona stessa e l'ambiente che lo circonda. Ognuno ha un suo proprio abito e i sacerdoti sono tali solo se indossano i loro veri abiti: non è un caso che in ebraico il termine beghed, vestito, deriva dalla radice bagad, tradire; così come me'il, manto, deriva dalla radice ma'al, usare illecitamente beni sacri. La persona è un bene sacro e solo se i vestiti che porta sono veramente sacerdotali, egli porta su di sé il sacerdozio.
L'abito quindi fa il sacerdote, ma solo se c'è un sacerdote al suo interno.
Ognuno, nel proprio ambito, quindi, può essere sacerdote: basta che la sua pelle interna illumini quella esterna.

Appunti sugli ebrei nella Calabria medievale



Minoranze etniche nella Calabria medievale
Appunti di Francesco A. Cuteri

Già tempo fa avevo pubblicato un articolo di Francesco Cuteri dallo stesso titolo, ora lo ripubblico (per la sola parte riguardante gli ebrei) con gli ampiamenti e le modifiche che l’autore ha fatto per il sito del Ministero dei beniculturali.
Resta (credo sia un problema di redazione) la confusione tra il Roscianum e il commento alla Torah di Rashì.




Messina: iscrizione del 1454 che ricorda una donazione annuale perpetua
di olio di Mesiano(antica località del Vibonese)

a favore della Sinagoga di Taormina

Se la presenza araba compare nel panorama calabrese all’esordio dell’altomedioevo e quella arbërëshe alla fine del Medioevo, ben più antica e radicata si mostra quella ebraica.
A ripensare, anche per uno solo istante, allo stato d’animo in cui si dovettero trovare gli Ebrei nel momento in cui in tutto il Viceregno, di paese in paese e di contrada in contrada, si diffuse la notizia della loro imminente espulsione, non si può che provare un senso di disorientamento, di paura e disperazione.
Era il 1541 e, per volere di Carlo V s’interrompeva, d’autorità e seppur senza altre pretese, come era successo in Sicilia al tempo di Ferdinando il Cattolico quando gli Ebrei furono costretti a pagare pesanti tributi, una storia più che millenaria che aveva avuto inizio con le prime frequentazioni giudaiche, soprattutto nell’area di Reggio, tra l’età romana e la tarda antichità.
Di questa lunga presenza si conservano ancora oggi in Calabria poche ma importanti testimonianze.
Infatti, oltre a quanto lentamente sta emergendo attraverso l’analisi, ad opera di specialisti del settore, della documentazione archivistica e archeologica, alcuni toponimi che, se compiutamente analizzati e spiegati, potranno aprire importanti spiragli su questa significativa pagina della nostra storia: Judeca, Judea, Giudecca, Iudeo, etc.
Le testimonianze archeologiche riguardanti la presenza ebraica in Calabria fra Tarda Antichità e Proto Medioevo son divenute, negli anni a noi più vicini, numericamente più consistenti. Ciò per il fatto che la ricerca ha toccato ambiti culturali e cronologici prima scarsamente investigati. Tuttavia, nonostante il progredire delle ricerche archeologiche, anche nel caso di Vibo, così come per molti antichi centri calabresi, non si è in grado di definire l’origine degli stanziamenti giudaici e la strutturazione delle comunità nelle più antiche fasi di vita, sebbene nella nostra regione l’insediamento delle collettività ebraiche è stato messo in relazione con il riordino delle manifatture imperiali della provincia. Tale assenza di indicazioni precise non deve eccessivamente sorprendere.
Del resto, per cogliere le reali diffcoltà della ricerca, basti pensare che in riferimento alla comunità giudaica di Reggio, probabilmente la più antica e la più popolosa, le testimonianze materiali relative alle prime fasi di vita si riducono ad un piccolo frammento marmoreo, recuperato fuori contesto dopo il terremoto del 1908 e con la scritta in greco: (t)on Iudaion, «sinagoga dei Giudei»
I vecchi ritrovamenti, quello della lucerna di Lazzaro di tipo africano, datata al V secolo e decorata con la menorah ebraica, e le più recenti acquisizioni, quali quella di Bova Marina, consentono in ogni caso di sottolineare che, nella tarda antichità, la presenza ebraica era principalmente raggruppata nelle stationes, ed in particolare in quelle presenti lungo la via jonica e nei centri portuali; in zone, dunque, dotate di una maggiore stabilità insediativa e fortemente legate alla produzione, al commercio e, più in generale, alla circolazione di uomini e merci.
Vibo Valentia:
ansa con impressa la menorah ebraica
Qualche anno fa, studiando le produzioni ceramiche di età medievale di Vibo Valentia ho potuto recuperare, nei magazzini del Museo Archeologico, due anse frammentarie recanti impresse la menorah ebraica. Del ritrovamento si è data sommaria notizia nel convegno sulle ceramiche tardo-antiche tenutosi in Provenza nel 2005 ipotizzando che nell’area di rinvenimento, via XXV Aprile, potesse essere localizzato l’insediamento degli ebrei di Vibo in età tardo-antica, senza approfondire l’eventuale grado di mescolanze, in ambito urbano, fra le diverse etnie.
I bolli con la menorah sono presenti su due anse appartenenti a recipienti forse di diversa forma e provenienza. Infatti, se in un caso appare certo il rimando alla nota produzione di anfore del Bruzio classificata come Keay LII, nell’altro, per la maggiore irregolarità dell’impasto, che ricorda altre produzioni definite “vibonesi”, si è pensato che l’ansa potesse appartenere ad una piccola anfora o brocca in ceramica comune di produzione locale. Tuttavia, visto che, come è stato più volte annotato dagli esperti del settore, le Keay LII sono spesso caratterizzate da un’esecuzione non molto accurata e dalla presenza di molte varianti, non si può del tutto escludere che anche questo esemplare sia da riferire alla stessa tipologia di anfore. Anche la qualità dei bolli appare di poco differente, e ciò può essere solo in parte imputato al diverso stato di conservazione dei reperti ed alla diversa qualità dell’argilla utilizzata. Nel caso della prima ansa, accanto al bollo, è presente un segno circolare ottenuto mediante una leggera pressione del polpastrello. Il bollo è caratterizzato da un cartiglio quadrangolare al cui interno troviamo la menorah rappresentata, secondo l’iconografia più tradizionale, con le braccia ricurve. Le caratteristiche del bollo non permettono, per la forma del candelabro e del cartiglio, di associarlo agli altri noti in Calabria, anche se le braccia ricurve sono presenti nel più schematico bollo ellittico rinvenuto a Bova. Nella seconda ansa il bollo è caratterizzato da un cartiglio grosso modo circolare e le braccia del candelabro si dispongono quasi a formare angoli retti. In questo caso il candelabro appare realizzato in maniera poco più sommaria e nell’insieme ricorda i bolli presenti sulle due opposte anse dell’anfora Keay LII rinvenuta nel teatro romano di Scolacium a Roccelletta di Borgia ed il bollo rinvenuto a Roma.
L’uso di marchiare i vasi con il simbolo ebraico sembra essere una peculiarità quasi esclusiva della terra dei Bruttii e al momento, se escludiamo le segnalazioni di Arthur e Colicelli relative a Roma, non conosco altre zone di rinvenimento di tali bolli fuori dalla Calabria. La presenza nell’Urbe di questi e di altri manufatti provenienti dalla Calabria evidenzia, in ogni caso, gli stretti rapporti esistenti, grazie anche alla presenza nella regione dei ricchi patrimoni ecclesiastici, tra i mercati di Roma e quelli calabresi. Più nello specifico lascia intravedere il ruolo svolto dalle comunità calabresi nella fornitura di vino alle comunità ebraiche romane.
Le ricerche archeologiche condotte tra il 1983 ed il 1987 nell’area di San Pasquale, a Bova Marina, si sono rivelate di straordinario interesse grazie al rinvenimento di una sinagoga di età tardo imperiale. L’insediamento in origine era una villa e nel tempo svolse anche la funzione di statio, tant’è che la località potrebbe essere identificata con l’antico insediamento di Scyle. Nell’articolato complesso della sinagoga sono state identificate due fasi edilizie. La costruzione del complesso è stata riferita al pieno IV secolo, quando una comunità ebraica si stabilì ai margini di una villa sorta nel II secolo.
Le dimensioni e l’articolazione della sinagoga dimostrano che fin dalle origini la comunità ebraica dovette essere numerosa. Il primo nucleo è caratterizzato dalla presenza di un edificio monumentale i cui ambienti principali si trovano inscritti in un quadrato quasi regolare dai lati pari a metri 13, 50 per 14, 50. Le strutture sono orientate 18° a est, in modo da disporre verso Gerusalemme l’aula della preghiera. Il nucleo principale della sinagoga è suddiviso in cinque vani organizzati tra loro in rapporto gerarchico. I tre vani comunicanti posti a sud sono stati interpretati come la sede della scuola o come ambienti in cui, in occasione di alcune festività, venivano consumavano i pasti in comune. Adiacente a questi, lungo il lato nord, troviamo un grande ambiente aperto affiancato ad oriente dall’aula della preghiera. Questa era pavimentata con un mosaico organizzato in sedici riquadri e oltre al motivo del “nodo di Salomone” troviamo rappresentato il candelabro ebraico (menorah) con sette bracci costituiti da melograni inseriti in un ramo che si dipartono dallo stelo centrale; alla sommità troviamo lucerne accese. Ai lati del candelabro sono posti, a destra, il ramo di palme (lulav) con il cedro (ethrog) e a sinistra il corno (shofar).
La prima fase di vita della sinagoga durò fino agli inizi del VI secolo, quando il complesso subì una importante trasformazione planimetrica con l’abbattimento di tutte le strutture poste a sud delle due grandi aule quadrate, che rimasero invece in uso per motivi cultuali.
E’ evidente che con questa ristrutturazione si intendeva distinguere nettamente il nucleo principale della sinagoga, ora più articolato dal punto di vista planimetrico e di tipo basilicale, dagli altri ambienti destinati a funzioni diverse e accessorie. L’aula della preghiera subì importanti modifiche, con un prolungamento verso sud della parte di ingresso laterale e la realizzazione, in un ambiente stretto e allungato, di due piccoli vani quadrati. Quello più meridionale venne utilizzato come deposito di anfore e al suo interno, nel corso dello scavo, furono trovati moltissimi frammenti di anfore Keay LII. Altri frammenti della stessa tipologia recanti impresso il bollo raffigurante il candelabro ebraico furono trovati in altri settori di scavo. Un’altra importante modifica della sinagoga portò alla monumentalizzazione del prospetto orientale. Infatti, al centro di questa parete e in asse con l’ingresso principale posto ad occidente, venne costruita una piccola abside semicircolare destinata probabilmente a contenere i rotoli della Torah. Nell’angolo est dell’aula venne posto, con un parziale interramento, un grande dolio usato come contenitore dei sacri arredi (genizah), mentre la pavimentazione a mosaico venne integrata riprendendo il motivo del nodo di Salomone.
La sinagoga subì una distruzione violenta tra il VI ed il VII secolo e successivamente l’area risultò del tutto abbandonata. Di questa distruzione rimangono testimonianze nel parziale danneggiamento del dolio posto nell’aula della preghiera, dalle tante tracce di incendio rinvenute in più parti e dal recupero, all’interno del grande ambiente-atrio, di una brocca in ceramica acroma contenente un ripostiglio composto da 3079 monete in bronzo. Tali monete sono state interpretate come la raccolta delle elemosine utili alle opere di carità o da inviare al Tempio di Gerusalemme. Tuttavia, vista la presenza del tesoretto in un ambiente utilizzato anche per la conservazione delle derrate alimentari, non è da escludere che le monete siano da riferire ad un ambito più strettamente commerciale.
Per quel che riguarda l’età medievale, se si esclude quanto riportato da una cronaca, forse composta a Cassano Jonio, che ricorda la forzata conversione al cristianesimo dei giudei presenti nei territori bizantini dell’Italia meridionale in seguito alla campagne di proselitismo promossa nell’874 da Basilio il Macedone, ben poco conosciamo della storia degli Ebrei in Calabria fra la tarda antichità ed il X secolo.

Parigi: la Fisica di Aristotele ricopiata a Crotone nel 1472
da Salomone Ben Isacco Laban
A partire da quest’ultimo periodo, invece, quella dei giudei appare come una realtà ben integrata nel contesto storico-culturale regionale e il sentimento di antisemitismo spesse volte richiamato appare, come ha precisato Cesare Colafemmina, eminente studiose delle realtà ebraiche dell’Italia meridionale, “più un prodotto di cultura ecclesiastica che un fatto spontaneo”. E’ noto, infatti, che in Calabria l’avversione nei confronti dei giudei era sostanzialmente alimentata dalla tradizione teologica bizantina e lo stesso San Nilo riteneva, in merito a questioni di giustizia, che ci sarebbero voluti sette ebrei per eguagliare un cristiano; gli Ebrei, inoltre, erano considerati “miserabili”, senza religione” e “uccisori di Dio”.
I primi dati sulla presenza ebraica nel X secolo di cui disponiamo sono relativi alla città di Rossano e, nello specifico, si riferiscono a Donnolo Shabbetai, medico nativo di Oria, in Puglia, considerato una delle più grandi e ricche personalità del mondo giudeo-bizantino del tempo. A lui si deve la composizione, nel 970, del Libro delle Misture (Sefer Mirqahot), il più antico trattato di medicina dell’Occidente medievale, dove è anche documentata la particolare bontà del miele calabrese prodotto a Mirto.
Altre notizie sugli ebrei di Calabria compaiono nell’XI secolo quando viene ricordato, in una raccolta di poesie del poeta ebreo Anatoli di Marsiglia, Mosè, hazan e cioè cantore della Sinagoga di Reggio.
Per l’età pienamente normanna è stato recentemente attribuito a Rossano, ed in particolare al cantore della sua sinagoga, mentre prima era riferito ad uno scrittore russo, un commento alla Torah ritenuto di grande interesse in quanto presenta termini greci traslitterati in ebraico ed anche parole in volgare, il calabrese del tempo, sempre scritte in ebraico.
Questo commento, scritto anteriormente al Pantateuco di Rashì del 1040-1105, verrà poi stampato a Reggio nel 1475, in un’edizione che rappresenta il primo libro ebraico fornito di data che si conosca.
Altre indicazioni compaiono successivamente negli scritti di Gioacchino da Fiore, autore anche di un trattato dedicato ai Giudei con l’intento di convertirli: Adversus Iudeos.
A partire dall’età angioina, e per tutta l’età aragonese, la documentazione disponibile per ricostruire la storia degli ebrei nella nostra regione è di gran lunga più numerosa e consente, grazie soprattutto ai registri delle tasse, di conoscere in maniera più dettagliata non solo le comunità in cui i giudei si erano insediati ma anche le loro attività economiche e commerciali.
Tra i principali centri ricordati troviamo Monteleone (ora Vibo V.), Nicotera, Reggio, Seminara, Gerace, Placanica, Crotone, Castelvetere (ora Caulonia) e Oppido.
A Castelvetere/Caulonia, nella parte inferiore dell’abitato, in uno degli ultimi slarghi, si conservano i resti della chiesa di San Zaccaria, un edificio di culto, probabilmente di matrice funeraria o privata, ad unica navata e monoabsidato. L’edificio conserva all’interno dell’abside, che rappresenta l’unica porzione del luogo di culto ancora rimasta in piedi dopo i terremoti del 1783 e 1908, una delle più interessanti espressioni pittoriche di matrice bizantina esistenti in Calabria. Si tratta della raffigurazione di una Deèsis che occupa l’intero catino absidale e la cui datazione va riferita, soprattutto alla luce delle nuove acquisizioni archeologiche, alla seconda metà del XIII secolo. L’affresco è dominato centralmente dalla figura del Cristo, assiso in trono, è accompagnato dall’inconsueto epiteto di “filantropo”; alla sua destra troviamo la Santa Vergine mentre alla sua sinistra, come di consueto, è raffigurato San Giovanni Prodromo; ai piedi della Madonna è presente una iscrizione che riporta il nome del committente: “Ricordati o Signore del tuo servo Nikolaos Pere prete e perdona a lui il peccato”. Il Cristo, come si è già annotato, è definito “Philantropos” e l’inconsueto epiteto è attestato anche a Trebisonda nella chiesa di Santa Sofia, al Monte Athos nel monastero dei Georgiani e a Naxos nella chiesa dei Santi Nicola e Giorgio. Secondo la tradizione, la piccola chiesa venne eretta da un giudeo di nome Simone, che si era convertito al Cristianesimo e non è forse un caso che l’edificio sorga proprio nel quartiere dell’antica Giudecca.
Per quanto riguarda i principali mestieri esercitati dagli ebrei i documenti ricordano: medici e speziali; mercanti di tessuti, abiti, pettini e gioielli; tintori di panni; banchieri; commercianti di zafferano, olio, frumento e bestiame; orafi e, infine, maestri nell’arte scrittoria, coltivata non solo per finalità religiose e spirituali ma anche scientifiche.
Dopo le alterne vicende che caratterizzarono l’età aragonese, una prima cacciata degli Ebrei dal Regno di Napoli ci fu nel 1510-11 e dopo questo atto la Calabria meridionale venne del tutto privata di questa presenza; l’espulsione definitiva avvenne, come già ricordato, nel 1541.
Crotone: lapide sepolcrale ebraica del 1475/76
che ricorda il defunto Ioshua ben Shamuel Gallico
A distanza di quasi cinque secoli, cosa rimane oggi in Calabria di questa straordinaria esperienza di vita, di religione, di cultura? Concludiamo utilizzando, ancora una volta, le parole di Colafemmina: “Ci rimangono dei manoscritti copiati a Reggio, Cosenza, Catanzaro, Crotone, Strongoli nei secoli XV-XVI; ci rimangono alcune epigrafi, come la lastrina di Reggio, la lucerna di Capo d’Armi, alcuni frammenti di terracotta con stampigliata la menorah ; un’iscrizione ebraica del 1440-41 incisa su un mattone a Strongoli, un altro frammento di iscrizione datata 1475-76 a Crotone...”.
Ci rimangono, infine, l’importantissima Sinagoga di Bova Marina, unica nel Mezzogiorno e la consapevolezza che, in questo ambito, la strada da compiere è ancora lunga, complessa e, per molti versi, essenziale.

Isabella di Castiglia, sei stata sconfitta!



Riproduco l'articolo di rav Pierpaolo Pinchas Punturello, pubblicato su Roma Ebraica,
il sito della Comunità ebraica di Roma: emozionanti testimonianze di anusim, che attraverso il tempo, le generazioni e le migrazioni hanno ricevuto e conservato la fede che i padri hanno loro trasmesso, fino al ritorno a casa, in senso geografico e spirituale.

La testimonianza di tanti tornati all’Ebraismo, sotto la guida di rav Birnbaum e di Michael Freund di Shavè Israel
“Isabella di Castiglia sei stata sconfitta”. Questo pensiero mi è tornato più volta in mente mentre incontravo, nei corridoi dell’Ulpan ghiur per gli studenti di lingua spagnola, alcune delle persone che ho intervistato.
I protagonisti di queste interviste sono i discendenti dell’Ebraismo sefardita: 600 anni di fughe, di nascondigli, di tradizioni sussurrate di generazione in generazione.
Sono i nipoti degli anusim, i “costretti”, che sono tornati all’Ebraismo in Israele. Non ho fatto domande, mi sono seduto ad ascoltare, come fossi in uno dei porti del mediterraneo che, dopo il luglio del 1492, ha accolto i profughi ebrei spagnoli in fuga dalla reyna Isabella.
La prima a parlare è Batya. “Sono nata a Valencia, ho sempre cercato la spiritualità e venendo da una famiglia non cristiana dove non si andava mai in Chiesa, cercando Dio, ho cominciato ad andarci io da sola all’età di sette anni. A diciotto anni ho incontrato mio marito Yosef ed abbiamo cominciato a studiare insieme attraverso Internet che ha aperto per noi una finestra sul mondo ebraico. L’ebraismo era per noi il luogo dell’essenza di tutto e studiando ho cominciato a comprendere tutte le tradizioni della mia famiglia: le candele di shabbat, la separazione dei cibi a base di carne e latte, la famiglia che si riuniva il Sabato e non la Domenica e mia nonna con le sue manie di pulizie della casa di Venerdì! A Valencia esiste una comunità ed è ortodossa ma non era pronta a comprendere nè i gherim né la nostra osservanza, mentre la nostra famiglia di origine ci ha molto aiutato. Ad un certo punto abbiamo deciso di partire per Israele e di vivere in Gerusalemme: i primi tempi abbiamo abitato in una casa di 20 metri quadrati in quattro, con il permesso turistico. Abbiamo cominciato a chiedere alle persone di lingua spagnola che incontravamo a chi rivolgerci per il ghiur e tutti ci indirizzavano dalla rabbanit Renana Birnbaum, a Shavè Israel, le organizzazioni ortodosse che si occupano del ritorno degli ebrei lontani e dei discendenti di anusim in qualunque parte del mondo: dal Sud America all’India. I primi tempi sono stati difficili ma anche pieni di miracoli quotidiani come quella volta che un meccanico di origine turca che parlava ladino ci ha aiutato ad iscrivere i ragazzi a scuola senza nemmeno chiedere se eravamo ebrei ! Siamo arrivati da Renana, ma non avevamo un rabbino di origine e quindi era difficile entrare nel programma di studio e conversione. Nonostante tutto questo Renana ci ha aiutato: abbiamo iniziato a studiare nel novembre 2008 e ci aspettavano in teoria solo tre mesi di studio per poter anche risolvere la nostra situazione con il visto turistico: eravamo illegali nel paese e quindi senza lavoro e copertura sanitaria. Solo dopo nove mesi ricevemmo una autorizzazione dalla Rabbanut a studiare e che quindi tutto l’anno di studio già trascorso era nullo Renana ci disse: “Mi imbarazzo ma devo dirti che dovrete studiare ancora un anno. Sarà difficile ma ce la faremo.” Decidemmo di rimanere: non avevamo altra vita se non questa, anche se avevamo in Spagna casa, soldi e famiglia. Israele era la nostra realtà, l’ebraismo la nostra vita. Per mantenerci abbiamo fatto tanti lavori: pulizia nelle case, camerieri. Sono stata invitata anche a parlare davanti ad una commissione della Knesset che si occupa dei problemi burocratici degli anusim, ho recitato loro questa poesia: “Dicono che l’amore è forte ed anche molto paziente, io posso testimoniarlo. Hanno provato a cancellare il mio nome, mi hanno rubato molte cose, però quello che non sapevano e che l’anima ha memoria e non ha smesso di gridare dicendomi: “Tu sei ebrea e mai lo dimenticherai finchè sei in vita”. Senza paura e vergogna essere ebrea è la mia gioia, la gioia dei miei antenati senza nascondersi più, nè bugie. Nella mia terra mi sono ritrovata, mi sono connessa alla mia vita, al mio passato, al mio presente fino alla fine dei miei giorni.”
Ghila ed Ariel sono invece due distinti nonni colombiani di nipoti ebrei israeliani e la loro storia si perde nella memoria delle navi che scappando dopo Colombo hanno provato a portare gli anusim lontano dai roghi.

Dona Gracia Nasì, da un sito a lei dedicato
Sono nata in Colombia, a Chocontà, un villaggio non lontano da Bogotà, luogo di reale presenza di anusim. In casa si accendavano le candele al venerdì al tramonto, non si mischiava la carne con il latte ed io vivevo tutti questi rituali familiari come realtà quotidiana e non come elemento distintivo. Mia madre e mia nonna ci raccontavano da bambini le storie della Torà e le altre famiglie amiche della mia erano i Castro ed i Costa e con loro ci vedevamo per Shabbat. Da ragazza lasciai il mio villaggio per andare a studiare a Bogotà, lì incontrai mio marito e quando decisi di portarlo a casa per presentarlo ai miei genitori mio padre oppose un netto rifiuto. Non mi arresi, sapevo che a mio padre lui sarebbe piaciuto e quando finalmente andammo a pranzo dai miei, mio padre, osservando come lui si lavava le mani, come lui pregava prima di mangiare capì quello che io già sapevo e disse: “Credo proprio che con lui ci intenderemo”. Avevamo la stessa origine spagnola e marrana. Ci sposammo avemmo una figlia, Rosita, e lei da piccolissima cominciò ad interessarsi all’ebraismo e fare domande sugli usi di famiglia: perchè per il lutto siamo seduti su sgabelli bassi? Perchè le candele accese il venerdì sera? Quando era al liceo mia figlia scrisse un articolo di argomento ebraico sul giornale della scuola persino El Tiempo, il principale giornale di Bogotà ne parlò. Mio cognato, che era un magistrato chiamò Rosita nel suo ufficio e le disse: “Hai ragione, noi siamo ebrei.” Fu una conferma per la sua vita: tutti gli amici di Rosita erano ebrei ed allora lei decise di partire per Israele e di andare a vivere ad Efrat do ve fu accolta da molti rabbini di lingua spagnola. Mio figlio Itamar dopo un po’ ha raggiunto la sorella per seguire anche lui un percorso di ghiur ed ha anche servito l’esercito dell’Onu sul Sinai. Noi volevamo raggiungere presto i nostri figli ma non sapevamo come: mia madre sapeva che lei non sarebbe mai potuta venire in Israele però pregava che qualcuno di noi potesse farlo ed io sono stata la fortunata che ha compiuto questo passo. La mia famiglia prima di arrivare in Colombia ha viaggiato tanto cercando un rifugio: siamo originari di Avila, in Spagna, siamo scappati ovunque, anche a Venezia come Dona GraciaNasi, ma solo in Israele sono davvero a casa.”
“Anche io sono di origine spagnola”, mi dice Ariel. “Mi chiamo Ardilla, noi siamo della regione occidentale della Spagna di un villaggio che si chiama Badajos al confine con il Portogallo dove si trova un fiume che si Ardilla ed un altro villaggio di Ardilla. In Colombia siamo andati a vivere in un posto di montagna che si chiama Sapatoca, poi ci siamo avvicinati con i secoli alla capitale, Bogotà: ai tempi della Inqusizione per quelli come noi era più sicuro vivere lontani dalle città. Siamo sempre stati contadini: in casa nostra eravamo nove figli e tutti i maschi hanno avuto il brit milà. Le nostre terre riposavano ogni sette anni, non mietevamo l’angolo del campo e toglievamo la decima dai prodotti della terra. Da bambino ho imparato a suonare lo shofar che usavamo come richiamo tra i campi. Tutto questo per me era normale, come i matrimoni tra cugini, tra parenti: mio padre e suo fratello avevano, infatti, sposato due sorelle di una famiglia con usi uguali ai nostri. La mia famiglia ha sempre abitato in villaggi che avevano il giorno di mercato la Domenica o il Lunedì, mai ovviamente di Sabato. Quando mia figlia ha aperto gli occhi con consapevolezza sul mondo ebraico per me è stata una gioia: finalmente sapevamo chi eravamo e cosa volevamo essere in futuro e studiando di fatto ci connettiamo alla ragione del nostro essere. Qui stiamo ritrovando la nostra identità piena, in casa nostra infatti le feste sopravvissute erano solo Shabbat, Shavuot e Pesach, quando preparavamo il pane solo con il mais e senza lievito. Riuscivamo a calcolare anche il giorno di Kippur guardando la luna: essendo contadini conoscevamo tutte le sue fasi.”
Batya ha aggiunto un racconto finale che esprime al meglio la forza identitaria degli anusim:
“Un’aquila depone uova in molti posti del mondo lasciandoli abbandonati. Altre aquile li prendono e decidono che sono le loro uova. I pulcini crescono nell’uovo come figli delle aquile adottive, solo dopo che hanno rotto il guscio si rendono conto di essere figli di un’altra aquila ed in quel momento quella stessa aquila vola sopra di loro e loro la riconoscono. A qual punto la scelta dei pulcini è di abbandonare il nido sicuro per seguire il nido insicuro della propria vera identità. Non è stato facile, ma lo abbiamo fatto abbiamo seguito: le ali della aquila madre e siamo tornati a casa.” E vi ho portato su ali d’aquile. (Shemot 19,4).
Questo versetto mai prima del racconto di Batya mi è sembrato così vero.

giovedì 14 febbraio 2013

Terumà: La Torah non è dei rabbini





Il consueto commento di rav Scialom Bahbout, Rabbino capo di Napoli e del Meridione,
alla parashah settimanale
(immagini da The Temple Institute)

Faranno un'arca di legno di acacia, la cui lunghezza sarà di due cubiti e mezzo, la cui larghezza sarà di un cubito e mezzo e la cui altezza sarà di un cubito e mezzo.
La rivestirai di oro puro, la rivestirai all'interno e all'esterno (...) farai delle stanghe di legno di acacia.
Introdurrai le stanghe negli anelli che sono sui lati dell'arca, così da poter trasportare l'arca con esse.
Le stanghe dovranno rimanere dentro gli anelli dell'arca, non dovranno mai essere tolte da essa.

Poi, dentro l'arca, metterai la Testimonianza che Io ti darò"
(Esodo 24: 10 - 16)
"Faranno un'arca di legno di acacia": cosa c'è scritto prima? "Prenderanno per me un'offerta", e subito dopo "faranno un'arca di legno di acacia".
Così, come la Torà ha preceduto tutto, allo stesso modo nella costruzione del Tabernacolo l'arca ha preceduto tutti gli oggetti.
Come la luce (OR) ha preceduto tutta l'opera della creazione - com'è scritto: "Dio disse sia la luce" - così anche nel Tabernacolo, per la Torà - che è chiamata luce (OR), com'è scritto "Poiché il lume è una mitzvà, e la Torà è luce" (Proverbi 7: 23)
- le opere ch la riguardano hanno preceduto quella di tutti gli altri oggetti.

Un'altra spiegazione: "Perché per la costruzione di tutti gli oggetti è scritto "Farai", mentre per l'arca è scritto "Faranno"?
Ha detto rav Jehudà, figlio di Shalom: "ha detto il Santo, benedetto sia, che vengano tutti a occuparsi dell'arca, affinché tutti meritino la Torà".
(Shemot rabbà 34: 1)

Ognuno degli oggetti del Santuario, oltre alla funzione che ha nel Tabernacolo, ha anche un significato simbolico: tra questi, l'Arca santa, costruita per conservarvi le tavole della legge, è caratterizzata da alcuni elementi che pongono altrettante domande:
• è la prima di cui viene ordinata la costruzione;
• per la sua costruzione, la Torà usa il verbo fare al plurale (faranno) e non al singolare (farai), usato per gli altri oggetti, e il numero di versi usati per descriverla è superiore a quello dedicato agli altri (candelabro, tavolo, ecc.) ;
• le misure dell'Arca sono tutte "spezzate" (due cubiti e mezzo ...), mentre quelle degli altri arredi sono "intere";
• le stanghe, adibite al trasporto dell'Arca, rimanevano sempre negli anelli disposti ai lati.

Il Midràsh afferma che il ma'asè bereshit (l'opera dell'inizio della creazione) è stato preceduto dalla creazione della Torà, chiamata reshith, inizio e primizia del Signore: Dio crea il mondo ispirandosi alla Torà. ARON (arca) e OR (luce) contengono entrambe le lettere di OR, luce. Ora, ci saremmo aspettati che, a rappresentare la spiritualità, sarebbe stato scelto il Candelabro; invece, la luce di cui si parla qui è la luce primordiale creata all'inizio e che è stata poi nascosta per i giusti.
Il secondo Midràsh ci spiega perché alla costruzione dell'Arca santa dovessero partecipare tutti gli ebrei: la Torà non è dei rabbini, ma di ogni ebreo. Non può essere retaggio di poche persone: tutti devono partecipare alla sua costruzione e al suo studio. Ma c'è di più: nessun ebreo, anche volendolo, può mettere in pratica tutta la Torà da solo. Ognuno deve fare la sua parte: ci sono precetti che riguardano tutti, altri solo gli uomini, altri ancora solo le donne, altri i sacerdoti, i leviti, i giudici ecc. Soltanto la partecipazione di tutti garantisce l'applicazione completa della Torà che riguarda il klal Israel, la comunità di Israele. E' ovvio che a un oggetto come l'Arca santa, che riguarda tutti, devono essere dedicati più versetti.
Quindi, se nessuno può osservare da solo tutta la Torà, allora ha bisogno degli altri, almeno di un compagno con cui studiare e crescere nella Torà: uno studioso della Torà che voglia contenere la Torà, non può mai sentirsi completo, ma sempre a metà strada, mancante di qualcosa. Come suggerisce lo stesso testo della Torà, un vero Maestro deve essere puro come l'oro, dentro e fuori.

Veniamo infine a una mitzvà davvero strana: quella che stabilisce che le stanghe, destinate al trasporto dell'Arca, non dovevano mai essere tolte dagli anelli che si trovavano ai lati. A questa mitzvà sono stati dati vari significati.

Rabbì Shlomo Efraim di Lunshiz, nel commento Kelì Jakar, afferma che la mizvà è il simbolo del rapporto stretto che esiste tra la Torà e Israele: secondo il patto stabilito con il Signore, "la Torà non si allontanerà mai dalla tua bocca e dalla bocca della discendenza d'Israele" (Isaia 59: 21).
Rabbi Naftali Zvì Berlin (Naziv) nel commento A'amek davàr sostiene che la mitzvà simboleggia il fatto che la Torà è destinata a essere trasportata in qualsiasi paese gli ebrei avessero dovuto andare in esilio: la norma non valeva per il tavolo e il candelabro perché sono due oggetti che rappresentano rispettivamente l'autorità statale e quella sacerdotale ch hanno valore solo in Erez Israel.
Jeshaià Leibovitz, in E'aroth leparashat hashavua, scrive che l'Arca che simboleggia la Torà, proprio per la sua essenza, è destinata a essere trasportata da un luogo all'altro: per questo le stanghe sono sempre infilate negli anelli, perché la Torà non è legata a un solo luogo, ma in ogni luogo in cui si trova l'uomo. Perciò, anche simbolicamente, essa deve essere pronta al trasporto, mentre gli altri oggetti, come il tavolo e la menorà, devono essere preparati per essere trasportati.

Sappiamo quanto questo rappresenti la realtà dell'ebreo, che ha potuto sempre portare con sé - dentro di sé - la Torà, quasi l'uomo stesso fosse un'Arca santa, oro puro dentro e fuori.
L'Arca santa, con le tavole della legge, era il cuore del Santuario, il punto di riferimento del popolo d'Israele. Come si pone allora l'Arca santa rispetto alla storia d'Israele, all'esperienza di ogni ebreo? Ricevuto il Decalogo, gli ebrei si allontanarono dal Monte Sinai per raggiungere la Terra promessa: cosa ne sarebbe stato dell'esperienza del Sinai? Come sarebbe stato possibile portare con sé questa esperienza, per continuare a viverla con la medesima intensità sperimentata nella prima rivelazione da ogni membro del popolo, senza l'aiuto di alcun profeta come tramite?
Bisognava costruire un Tabernacolo per trasformarlo in un Sinai mobile, che camminasse nella storia, generazione dopo generazione, arricchendosi dell'esperienza, dello studio e dello sviluppo della Torà orale del popolo. In ogni momento l'orientamento deve rimanere, in senso metaforico, il Sinai. Quali punti di riferimento ha oggi l'uomo moderno, quello occidentale in particolare? Mi sembra che i riferimenti oggi siano i centri commerciali e gli outlet affollati da molti avventori alla ricerca non dell'esperienza che può cambiare la storia personale di ognuno, ma di qualcosa che possa riempire un vuoto che spesso rimane tale, anche se riempito con acquisti spesso inutili.
Per ognuno di noi tornare all'esperienza del Sinai è ancora possibile. Basta aprire i cuori e le menti.

mercoledì 13 febbraio 2013

Ebraismo e shoah in 500 libri




Emeroteca-Biblioteca Tucci

MOSTRA
Ebraismo e Shoah
in 500 libri di quattro secoli
Inaugurata mercoledì 13 febbraio 2013 alle ore 11,30
dall’Arcivescovo di Napoli, Cardinale Crescenzio Sepe
Interverrà il Rabbino Capo dell’Italia meridionale
Scialom Bahbout

Napoli - Piazza Matteotti Palazzo delle Poste - 2° piano



Vincenzo Esposito dal Corriere del Mezzogiorno

Tesoro Tucci, una mostra sulla shoah con 500 libri rari

Un’esposizione d’eccezione

Il «taglio» del nastro col cardinale Sepe e il rabbino Shalom Bahbout

Sarà la più grande biblioteca ebraica d'Italia, con testi rari e antichi. La si potrebbe immaginare in uno dei «ghetti» storici d'Europa, chissà, magari quello di Roma. E invece no. E' stata allestita nell'Emeroteca Tucci, uno dei più importanti motori culturali di Napoli (forse per questo lasciata sola dalle istituzioni) che con questa raccolta, unica, dona un altro prezioso tesoro alla città. Cinquecento libri tra cui il rarissimo originale della «Historia ilustrada del Pueblo judìo» di Nathan Ausubel o la «De republica hebraeorum» di Petrus Cunaeus pubblicata nel 1632. La Tucci diventerà così punto d'incontro tra due grandi religioni. Con la visita del rabbino capo dell'Italia meridionale Shalom Bahbout alla Diocesi e la successiva visita del cardinale Sepe alla Sinagoga, i rappresentanti delle due Chiese hanno iniziato un dialogo interreligioso ed ecumenico che si rafforza ogni giorno che passa.
L’INCONTRO - Sepe e Shalom Bahbout si incontreranno nuovamente mercoledì 13 febbraio nella sede dell'Emeroteca nel Palazzo delle Poste per l'inaugurazione della mostra «Ebraismo e Shoah in cinquecento libri di quattro secoli». Un contributo importante della Tucci sia alla cultura che alla memoria dei sei milioni di ebrei sterminati dalla follìa nazista. I cinquecento libri della mostra sono solo una selezione della più ampia collezione che l'Emeroteca, aiutata da Annamaria Cirillo della Libreria Neapolis, ha cominciato ad acquistare in Italia, Francia e Stati Uniti soltanto da qualche anno. Nell'ambizioso progetto dei giornalisti che gestiscono l'ente culturale vecchio di 106 anni, con il presidente Salvatore Maffei, la raccolta potrebbe diventare, nel volgere di poche stagioni, la più importante biblioteca italiana del settore. Già da fine febbraio i visitatori potranno consultare alcuni libri antichi posseduti soltanto da poche biblioteche nel mondo. Eppure la Tucci può contare per andare avanti solo sul volontariato di un pugno di giornalisti, del presidente Salvatore Maffei e dell'Ordine della Campania. Una battaglia per la sopravvivenza difficile tra fondi promessi e mai concessi, o addirittura deliberati e mai stanziati, di Comune e Regione.
LA COLLEZIONE - L'Emeroteca ogni anno accoglie migliaia di studenti e docenti provenienti da tutto il mondo in cerca di pubblicazioni rarissime che sanno di poter trovare soltanto lì. Dei novemilacinquecento titoli, più di duemila non sono posseduti da alcun'altra biblioteca della Campania e duecento sono unici. Collezioni di quotidiani, riviste, annuari, almanacchi e strenne italiane, francesi, inglesi, tedesche, austriache, russe, spagnole, svizzere, statunitensi, svedesi, neozelandesi e sudamericane. E oltre 35 mila libri dagli incunaboli ai giorni nostri. Però il Comune, per fare un banale esempio, preferisce affidare l'immagine di Napoli investendo sull'America's Cup piuttosto che dare una mano a un grande patrimonio della città. Ma anche questa è una questione culturale.
SEPE E LA SHOAH - Il cardinale Sepe spiega: «Sono stato felice dell'opportunità concessami dal presidente Maffei perché la mostra sulla Shoah è un modo per riaffermare la dignità dell'uomo sulla barbarie. Significa dare testimonianza alla memoria perché simili orrori siano da monito nel cuore e nell'anima degli uomini tutti». Ma non solo per questo. «No, anche per testimoniare che l'Emeroteca Tucci è un patrimonio della città e dei napoletani che lo offrono al mondo e che non può andare distrutto per il mancato sostegno delle istituzioni. Io sono pronto, come ho già annunciato all'Ordine dei giornalisti, di promuovere un'asta in favore della Tucci mettendo a disposizione anche oggetti miei. Non è possibile che una biblioteca che ogni anno accoglie migliaia di studenti e ricercatori possa andare perduta. Sarebbe inconcepibile, un peccato commesso nei confronti di Napoli e della cultura mondiale tutta». Ultimamente anche la prestigiosa università di Oxford ha chiesto aiuto all'Emeroteca per il completamente di un libro di un suo docente sulla «Nave di D'Annunzio» così come un professore di un ateneo di Kyoto è stato ospite della Tucci per una ricerca sulla famiglia Scarpetta.
LA CRISI - L' Emeroteca Tucci non è ancora uscita dalla crisi causata nel 2002 dall'abrogazione di fatto della legge regionale 12/96 (tutt'ora vigente e mai più finanziata). Sopravvive grazie a tre soci sostenitori: l'Ordine dei giornalisti della Campania, il Banco di Napoli e la Camera di Commercio. Ha potuto realizzare questa nuova iniziativa grazie a un contributo straordinario (una tantum) della Giunta regionale, visto che i modesti contributi ex art.11 della legge 7/2003 per gli anni 2010, 2011 e 2012 non sono stati erogati.
LA MOSTRA - I cinquecento libri selezionati per la mostra di mercoledì sono in sette lingue: italiana, francese, inglese, tedesca, ebriaca, spagnola e ungherese. In prevalenza sono i testi che riguardano il progetto di genocidio degli ebrei, le singole storie dei criminali nazisti che l'idearono e di quelli che l'attuarono nei campi di sterminio, gli sconcertanti silenzi, i processi. I libri più antichi, quelli sull'ebraismo, partono, appunto, dal «De republica Haebraeorumn» scritto da Petrus Cunaeus nel Seicento. Ne viene che l'arco temporale della mostra è di cinque secoli e non quattro. La spiegazione è da cercare in un errore del tipografo, scoperto dagli allestitori dopo la stampa e l'invio dei cartoncini d'invito.

venerdì 8 febbraio 2013

Mishpatim 5773


שבת שלום!
SHABBAT SHALOM!

Shabbat 29 Shevat 5773
(9 febbraio 2013)


Dal sito Jessy Judaica




Parashat Mishpatim: Shemot (Esodo) 21,1 - 24,18
Haftarah: II Re 11,17 - 12,17 (rito sefardita)
Altri riti: II Re 12,1-17
 
Questo Shabbat, in preparazione di Purim,
ha anche un'altra Parashah con la sua haftarah:
Parashat Shekalim: Shemot (Esodo) 30,11-16
Haftarah: I Samuele 20,18 e 42
 
Per il commento alla parashah settimanale rinviamo principalmente al commento pubblicato su questo stesso blog, di Rav Scialom Bahbout, Rabbino Capo di Napoli e del meridione:
 
Mishpatim: Riempire il vuoto del mondo

 
Da Torah.it


Il commento alla parashah settimanale di rav Pierpaolo Pin'chas Punturello,
già Rabbino di Napoli




Una riflessione di rav Jonathan Pacifici su questo Shabbat particolare,
l’ultimo prima del mese di Adar, in preparazione di Purim

Shabbat Shekalim

Questo Shabbat, lo Shabbat che precede il Rosh Chodesh di Adar, è chiamato Shabbat Shekalim.
Iniziamo un percorso di Shabbatot "particolari" che ci condurranno prima a Purim e poi alla festa della redenzione - Pesach. Segnaleremo questi Sabati particolari con la lettura di un brano inerente al concetto che si sottolinea in ciascun Sabato, con una Haftarà speciale ed in alcuni riti, tra cui quello italiano, con pjutim - composizioni poetiche.
I nostri Maestri hanno preparato per noi un percorso di crescita spirituale che è speculare al percorso che facciamo nel corso delle feste di Tishrì. Iniziamo un mese prima - come per Rosh Chodesh Elul - preparandoci. Il concetto chiave di questo periodo è la avodà, il culto e la gioia e l'amore che lo debbono accompagnare.
Cominciamo allora con gli Shekalim: i sicli con i quali ogni anno vengono acquistate le offerte pubbliche per il Santuario. Il Sefer HaChinuch codifica come precetto positivo 105 per ogni maschio ebreo adulto, il partecipare annualmente nella misura di mezzo siclo a questa raccolta. [Il brano che descrive la prima raccolta dei mezzi sicli - Esodo XXX,11 è appunto il brano che leggiamo questo Shabbat]
I Saggi capiscono da uno dei versi che descrivono il Musaf di Rosh Chodesh (Numeri XXVIII,14) che la 'cassa' dalla quale si acquistano le offerte pubbliche vada rinnovata annualmente. Visto che l'anno, per quanto concerne le feste ed il Santuario comincia da Nissan, hanno stabilito che questa raccolta vada fatta ad Adar. E per questo hanno stabilito che il Sabato che precede il Capomese di Adar venga dedicato a ricordare il precetto.
La mizvà del mezzo shekel è il primo concetto che dobbiamo imparare nell'avvicinarci al culto. Ognuno ha la sua parte nel culto pubblico e questa parte è uguale per tutti - dal Re d'Israele fino alla più umile delle persone. Questa partecipazione è per definizione parziale (mezzo siclo) ma al contempo deve essere tangibile.
E' nelle azioni dei singoli che si completano nel culto del pubblico che un insieme di individui diviene un popolo di sacerdoti al servizio del Signore.



Altri commenti sulla parashah settimanale sul sito ChabadRoma,
da cui traiamo questa sintesi della parashah e della haftarah



Riassunto della Parashà
Marc Chagall: Moses
Immagine dal sito Fine Art America


In seguito alla rivelazione al Monte Sinai, il Sign-re comanda una serie di leggi al Popolo d’Israele che includono le leggi dello schiavo, le pene per omicidi, rapimenti, assalti e furti; le leggi civili riguardanti le indennità, l’allocazione di prestiti, le responsabilità di quattro tipi di guardiani e le leggi concernenti il sistema giudiziario.
Vi sono anche leggi concernenti la condotta da adottare con gli stranieri, l’osservanza delle festività e i doni di cibo portati al Bet Hamikdàsh, il Tempio di Gerusalemme. La parashà tratta inoltre del divieto di cucinare carne e latte insieme e del precetto della preghiera. In totale la parashà di Mishpatìm include ventitré comandamenti positivi e trenta divieti.
Il Sign-re promette di portare i figli d’Israele nella Terra Santa avvertendoli di non adottare le vie degli abitanti pagani della terra. Il popolo d’Israele proclama “faremo e ascolteremo” tutto ciò che il Sign-re ci comanderà. Moshè, per ricevere la Torà, sale sul Monte Sinai dove rimane per quaranta giorni e quaranta notti, affidando la direzione dell’accampamento ad Aharòn e Chur.

Capitolo 21, 1-37. Come corollario ai Dieci Comandamenti, vengono promulgate alcune leggi che riguardano: il servo ebreo e la sua emancipazione, la condizione dell’ancella ebrea, l’omicidio, le lesioni personali, i danni prodotti dalle bestie e alle bestie.
Capitolo 22, 1-30. Il furto e la sua sanzione penale, l’incendio, il deposito e il prestito, il peccato di seduzione, i doveri verso lo straniero, l’orfano e la vedova…
Capitolo 23 1-33. La falsa testimonianza, i doveri verso il nemico, la giustizia, l’anno di Shemittà (anno Sabbatico) e lo Shabbat (il Sabato), le tre feste, le primizie.
Quali clausole del patto tra D-o e il popolo di Israele si pone da una parte l’impegno del popolo all’obbedienza delle leggi rivelate, dall’altra la promessa di sostenerlo e proteggerlo nella conquista della sua terra, la Terra Promessa ai Padri di Israele, che sarebbe rimasta in retaggio alle future generazioni del popolo ebraico.
Dopo che Moshé ebbe riferito al popolo e posto per iscritto le leggi sopra elencate, fu celebrata la conclusione del patto con una solenne cerimonia.
Capitolo 24, 1-18. D-o comandò ancora al profeta di risalire il monte per rimanervi quaranta giorni e quaranta notti.


Sempre da ChabadRoma , a cui rimando per altre riflessioni, leggiamo un piccolo testo su Shekalim: Come può un uomo espiare una colpa dando solo una moneta

Quando Moshé rimase sorpreso
Questa settimana si legge un brano speciale della Torà: la parashat Shekalim. Tale brano riguarda l’ordine secondo il quale ogni ebreo doveva contribuire con mezzo shekel alla costruzione del Mishkan, il Santuario nel deserto.
I Maestri ci dicono (Tossafot, Talmud Chullin 42a) che quando Moshé ricevette il comando Divino di imporre una tassa di mezzo shekel ad ogni uomo adulto, rimase molto perplesso; quella moneta doveva servire per espiare il peccato commesso adorando il vitello d’oro.
«Come mai poteva un uomo espiare una colpa dando solo una moneta?» si chiese Moshé.
Ora ci viene fatto di chiederci: Moshé aveva già ricevuto altre volte l’ordine di fare sacrifici ed offerte per l’espiazione di peccati e mai aveva manifestato la sua sorpresa per il fatto che una persona potesse espiare le proprie colpe con una semplice offerta. Perché, allora, questa perplessità sulla tassa di mezzo shekel?
La Torà vuole che ogni ebreo adempia a 613 precetti. Queste mitzvot sono divise in due grandi categorie: 365 precetti negativi, o proibizioni, e 248 precetti positivi.
I Maestri spiegano (Tiqquné Zohar 30, p. 74; Tanya 23) che le 613 mitzvot corrispondono ai 613 organi del corpo. Alcuni hanno una funzione limitata e specifica, l’occhio serve per vedere, l’orecchio per udire, mentre altri, come il cervello e il cuore, non hanno solo una funzione specifica, ma sono così importanti che l’intera forza vitale del corpo si concentra in essi (Tanya 9).
Se il funzionamento di questi organi è in qualche modo difettoso o se sono colpiti da qualche malattia, è proprio il centro della vitalità di tutto l’organismo a venire gravemente compromesso.
Parimenti le mitzvot: alcune sono precetti specifici, mentre altre sono precetti generali. I primi due tra i Dieci Comandamenti - Io sono il Signore D-o tuo e Non avrai altri dei al Mio cospetto – sono precetti che riguardano la vera essenza dell’anima ebraica. Perciò qualsiasi trasgressione contro questi due Comandamenti – e tale è l’idolatria – inciderà sulla spiritualità umana nel suo complesso e sui vincoli che uniscono l’ebreo al Creatore.
Si può quindi comprendere la sorpresa di Moshé per quella tassa di mezzo shekel. Non gli sembrava inconsueto che si potesse espiare una colpa speciale con un sacrificio e un’offerta, ma come mai mezzo shekel poteva bastare per espiare l’adorazione del vitello d’oro, una colpa che aveva corrotto l’essenza stessa dell’anima?
E tuttavia le parole della Torà definiscono l’obolo di mezzo shekel: …un’espiazione delle loro anime.
Ma se anche un uomo offrisse a D-o tutte le sue ricchezze, basterebbe questo a riscattare la sua Nefesh (anima)? È forse possibile che con l’offerta di una qualsiasi somma di denaro l’uomo redima la propria anima?
Il dubbio di Moshé trova il suo chiarimento nella particolare natura della mitzvà del mezzo shekel.
(Saggio basato su Likuté Sichòt, vol III, 923;
tradotta in Il Pensiero della Settimana, a cura del rabbino Shmuel Rodal).