Torniamo ancora una volta
sulla bellissima comunità di Sannicandro, questa volta con un articolo di
Mosaico, la rivista della Comunità ebraica di Milano
Dalla Puglia a Milano,
l’epopea ebraica di
Sannicandro
di Ilaria Myr
Da 23 anni lavora nella nostra scuola. È Carmela
Iannacone, un membro della Comunità ebraica di Sannicandro, vero e proprio
unicum dell’ebraismo mondiale. Una storia commovente di marranesimo e
cripto-giudaismo. Fino ad oggi, e fino al recupero della propria identità. Ecco
il racconto di un’avventura spirituale senza precedenti
Quante volte ci è capitato di ascoltare la storia avventurosa e
impensabile di qualcuno che incontriamo ogni giorno, senza in verità sapere
nulla di lui? È il caso di Carmela Iannacone, commessa nella nostra scuola da
ormai 23 anni, viso cordiale che vediamo ogni mattina salutarci con il suo
splendido sorriso, mentre entriamo a scuola a portare i nostri bambini, o ci
rechiamo in Comunità per sbrigare qualche faccenda. Di lei, però, forse pochi
sanno che è uno dei membri della comunità ebraica di Sannicandro Garganico: un
unicum nella storia ebraica non solo italiana, ma addirittura mondiale, di cui
si è già scritto e detto molto, anche sulle pagine del Bollettino. Mai, però, avevamo raccontato la
testimonianza in prima persona di qualcuno che vive a Milano, a noi vicino, che
abbia vissuto quella particolare realtà, fin da giovane. Così, con il suo
racconto, Carmela ci fa capire davvero su quale profonda fede, impegno e
dedizione alla memoria e all’identità la comunità di Sannicandro sia nata,
cresciuta e continui oggi a vivere.
La genesi
Della nascita della comunità
ebraica di Sannincandro Garganico si sa ormai molto. È infatti noto che la sua
origine va collegata a Donato Manduzio, figlio di genitori braccianti, invalido
di guerra, che negli anni Trenta del Novecento, dopo avere avuto quello che
egli definisce nel suo diario “una visione”, legge l’Antico Testamento,
rimanendone illuminato. «Subito dichiarai ai popoli il Dio Unico – scriveva – e
le parole del Sinai e come il Creatore riposa il sabato, e confermai l’unità
del Creatore che non prende consiglio da altri, perché nessuno è esistito al di
fuori di lui. E celebrai la solennità del Creatore nella distesa dei cieli».
Manduzio inizia quindi a
diffondere tra amici e vicini il messaggio dell’Antico Testamento,
nell’assoluta convinzione però che il popolo ebraico sia estinto. Quando poi
viene a sapere che in realtà esistono ancora degli ebrei, contatta le comunità
di Firenze e Torino; quest’ultima lo indirizza al rabbino capo di Roma, Angelo
Sacerdoti. Verso la fine della guerra, Manduzio e i suoi seguaci vengono in
contatto con gli ebrei della Brigata Ebraica: fra questi vi è anche Enzo
Sereni, sionista socialista, che morirà poi nel 1945 a Dachau dopo essere
stato paracadutato e catturato dai nazisti. È lui che insegna alla piccola
comunità di Sannicandro l’Hatiqvà, che diventerà in seguito l’inno nazionale
d’Israele. Il gruppo di Manduzio cresce con il tempo e dopo la guerra si
svolgono a Roma le prime conversioni di massa. Subito dopo, fra il 1948 e il
1949, hanno luogo le prime emigrazioni dei neo-ebrei verso la terra di Israele,
diventata anche per loro la “terra dei padri”.
Alle donne, la rinascita
La comunità ebraica di
Sannicandro, svuotata di molti suoi membri, viene dunque organizzata e raccolta
da un gruppo di donne attive e fortemente motivate: fra loro, Emanuela Vocino,
vedova di Manduzio (morto il 15 marzo del 1948), che svolge fino alla morte,
avvenuta nel 1974, il ruolo di depositaria della memoria storica di quella
singolare esperienza religiosa. «Se anche io fossi partita - scriveva in una
lettera -, il sabato chi avrebbe aperto, per la preghiera, questo luogo a
coloro che sono restati?». Accanto a lei, rimangono anche la nipote Maria
Vocino, tutt’oggi membro della comunità di Sannicandro, Maria Soccio,
Costantina Soccio, Lucia Giordano, Incoronata Limosani, Lidia Toma (madre di
Carmela Iannacone) e Incoronata Ariela Di Lella. Ed è qui che la macrostoria di
questo paese del Gargano comincia a incrociarsi con la microstoria di Carmela
Iannacone, allora adolescente. Nata e cresciuta a Sannicandro, Carmela si
avvicina all’ebraismo all’età di 15 anni, seguendo le orme di sua madre, vicina
alla vedova Manduzio, che già qualche anno prima aveva cominciato a rispettare
le leggi ebraiche. «Vedevo mia madre accendere le candele e osservare le mitzvot
– ricorda -, e così ho cominciato a studiare l’Antico Testamento». Ad
affiancarla in questo percorso le meravigliose donne sopra citate, che
alimentano e soddisfano la sua voglia di fare e sapere.
«Queste donne hanno saputo dare,
ciascuna con energia, sacrificio e intelligenza, un’impronta importante in
fatto di ebraismo alla nuova generazione di figli e nipoti - commenta commossa
Carmela -. Erano ricche di coraggio, fervore di fede e spirito di iniziativa.
Senza la loro opera, il gruppo della comunità ebraica, dopo la morte di
Manduzio, non sarebbe potuto esistere». In mezzo a loro, diventa centrale la
figura di Lucia Giordano, convertita e istruita direttamente da Manduzio, in
grado di guidare la preghiera. Ed è proprio Lucia ad accompagnare quasi per
mano Carmela nella via dell’ebraismo. «Lucia ha saputo assumere nel tempo il
duplice ruolo di guida democratica e di maestra responsabile dell’istruzione,
oltre che della condotta, dell’intero gruppo - continua Carmela -. La sua
figura era simile a quella di un rav premuroso, un punto di riferimento per
tutti. Aveva riorganizzato e trasmetteva tutto quello che sapeva dell’ebraismo;
inoltre, scriveva canzoni di preghiera e ne stabiliva i ritmi. Così, a 16 anni,
io già mi nutrivo di ebraismo e cercavo di riscrivere, ordinandoli e
sistemandoli, i canti di Lucia».
La meticolosa organizzazione di
queste donne fa dunque sì che la vita ebraica di Sannicandro non solo continui,
ma addirittura cominci a rafforzarsi e a prosperare. Mentre dopo la morte di
Manduzio, per pregare, il gruppo si riuniva di volta in volta nella casa di
qualcuno, dalla fine degli anni Sessanta in avanti, comincia ad affittare uno
stanzone, fino poi ad arrivare ad acquisire, 15 anni fa, due stanze, con
giardino annesso: una adibita a sinagoga e l’altra a casa di studio e di
ospitalità. «A turno, ogni mese una famiglia preparava una lampada da collocare
nella Casa di preghiera (come veniva chiamata la sinagoga a Sannicandro fino a
qualche tempo fa, ndr) - ricorda Carmel a-. E poi si ricamavano in casa le tovaglie
per ricoprire il siddur antico che ci era stato inviato dalla comunità di
Torino». Per l’inizio di Shabbat, i sannicandresi aspettavano realmente lo
spuntare delle tre stelle, mentre per Pesach preparavano il pane azzimo in
casa. «Mi ricordo come facevamo in fretta a impastarlo e a schiacciarlo
velocemente con le mani perché non lievitasse - ricorda Carmela -. E poi
festeggiavamo Pesach, Purim, Channukkà, andando, di volta in volta in una casa
diversa per festeggiare».
Radici profonde
Ma forse in questo paese
l’ebraismo non era poi una così assoluta novità: troppi, infatti, sono gli
aspetti che emergono dal racconto di Carmela che fanno pensare che le
tradizioni ebraiche, dopo l’espulsione degli ebrei e dei marrani dall’Italia
meridionale (allora Regno di Napoli), culminata nel 1541, continuarono comunque
a essere tramandate di nascosto, esattamente come accadde dopo la cacciata
dalla Spagna del 1492. Del resto, è noto come la presenza ebraica in Puglia sia
stata, fino a quella tragica data, molto fervida e attiva (la riapertura della
sinagoga di Trani e le attività legate all’ebraismo, organizzate negli ultimi
anni ne sono una chiara testimonianza). Innanzitutto, alcuni cognomi, come
Rubino e Leone, che richiamano un’origine ebraica. E poi le abitudini famigliari.
«Ancora prima di avvicinarsi all’ebraismo, mia madre era solita preparare il
pane il giovedì, in modo che fosse pronto per il venerdì sera - spiega Carmela -.
Così come, quando faceva dei brutti sogni o aveva pensieri angosciosi,
accendeva un lumino a olio e recitava un salmo. Oppure, ancora, sceglieva e
metteva la carne nell’acqua e poi sotto sale a scolare su una griglia prima di
cuocerla». Un modo inconsapevole di trasmettere e custodire tradizioni coperte
dalla polvere del tempo ma mai definitivamente sepolte.
Un ponte con Milano
Nel 1988 Carmela arriva a Milano,
e subito cerca una sinagoga: ogni sabato si reca alle 9 del mattino al Tempio
di via Guastalla. E subito rimane colpita dall’uso dell’ebraico nelle
preghiere: fino ad allora, infatti, a Sannicandro si pregava in italiano, non
essendoci nessuno che conoscesse l’ebraico. Si rivolge dunque alla scuola
ebraica di via Sally Mayer, ne accetta l’offerta di lavoro, e comincia a
studiare l’ebraico da sola. «Mi sentivo come in un deserto: volevo studiare,
ero assetata di conoscenze - dice Carmela -. Mi svegliavo all’alba per imparare
l’ebraico, e pian piano ho cominciato a leggerlo. Mi chiamavano per offrirmi
supplenze di insegnamento alle scuole statali (Carmela ha il diploma di insegnante, lavoro che svolgeva a Sannicandro,
ndr), ma rinunciavo per apprendere più ebraismo in via
Sally Mayer».
Da Milano a Sannicandro il
tragitto dell’identità è breve: Carmela comincia a portare al suo paese dei
libri di ebraico, a insegnare ciò che apprende, e a fare le traslitterazioni
delle preghiere in caratteri latini. Rav Elia Richetti le registra perfino
alcuni canti su cassetta, in modo da poterli insegnare alla comunità
sannicandrese. Porta anche in Puglia i siddurim e altri libri, in modo che
tutti possano seguire la preghiera anche in ebraico. «E poi ho cominciato a
portare da Milano il pane azzimo che, da noi, veniva ancora preparato in casa».
Una nuova stagione
Ma la vera fine dell’isolamento
della comunità di Sannicandro Garganico avviene otto anni fa, quando Rav
Scialom Bahbout - allora membro del Bet Din di Roma, ma da due anni Rabbino
Capo del Meridione -, prende a cuore la sorte delle comunità ebraiche
dell’Italia del sud (Puglia, ma anche Sicilia, Calabria, Basilicata, Molise,
Campania), che lentamente stanno rinascendo, e che passano sotto la
giurisdizione della comunità del capoluogo campano. Iniziano così le prime
attività delle comunità di questa regione, e numerose iniziative per mantenerle
attive: l’ultima in ordine di tempo è Lech
Lechà, la settimana di letteratura, arte e cultura ebraica tenutasi
dal 2 all’8 settembre scorsi (vedi articolo pagine seguenti). Frequenti sono i
contatti e gli scambi con le altre comunità d’Italia; in particolare da Roma,
dove vive la responsabile della comunità, Grazia Gualano, vengono portati la
carne kasher e tutto l’occorrente per Pesach.
«Oggi molte persone, anche
straniere, vengono a visitare la nostra comunità e a passare lo shabbat con
noi», commenta soddisfatta Carmela. E non è difficile immaginare lo stupore e
l’ammirazione che questa piccola, ma specialissima comunità ebraica suscita in
chi decide di conoscerla da vicino.
«Quello che ci unisce è una profonda emunà»
La Comunità di Sannicandro oggi
«Attualmente la Comunità conta
circa 40 persone di tutte le età - racconta al Bollettino Grazia Gualano, responsabile organizzativa
della comunità ebraica di Sannicandro -. Di queste alcune si stanno preparando
per il ghiur, la conversione, che verrà svolta da Rav Shalom Bahbout e Rav
Giuseppe Laras. Mentre altre due coppie di recente hanno fatto la conversione e
il matrimonio ebraico alla sinagoga di Ancona».
L’organizzazione metodica, che da
sempre caratterizza questa comunità, continua a essere una sua peculiarità
anche oggi. «Facciamo come possiamo - ammette Gualano -. A Shabbat, per
esempio, non abbiamo Minian e dunque recitiamo le preghiere, omettendo quelle
che richiedono la presenza dei dieci uomini; e, rispettando lo stesso
principio, studiamo la Torà. Nonostante ciò, è fondamentale per noi riunirci, perché
è così che il gruppo si mantiene unito». A turno ogni famiglia prepara la
challà e dei dolci. Non disponendo, poi, di un hazan interno, sono i membri
maschi della comunità a officiare le preghiere: di grande appoggio è anche il
hazan Marco Dell’Ariccia di Roma. Di matrimoni fra ebrei sannicandresi, come si
diceva, ne sono stati fatti due ad Ancona, mentre Brit Milà e Bar/Bat Mizvà
ancora non hanno avuto luogo. Ma sicuramente i prossimi ghiurim daranno una
spinta anche su questo fronte.
«Quello che ha permesso alla
nostra comunità di sopravvivere nel tempo e di continuare tutt’oggi a esistere -
conclude Gualano - è la profonda emunà, la fede, che da sempre la anima e la
rende unita e stabile».
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