Parashat Nitzavim: Devarim (Deuteronomio) 29,9-30,20
Haftarah: Yeshayahu (Isaia) 61,10-63,9 (sefarditi)
Yehoshua (Giosuè) 24,1-11 (italiani)
Da Torah.it
Teshuvà permanente
“E tornerai fino al Signore tuo D. ed ascolterai la Sua Voce come tutto ciò
che io ti comando oggi, tu e tuo figlio, con tutto il tuo cuore e con tutta la
tua anima” (Deuteronomio 29,2)
Esiste una nota disputa tra il Rambam (Maimonide) ed il Ramban (Nachmanide)
circa la Teshuvà. Mentre il Nachmanide ritiene che la Teshuvà sia una delle
seicentotredici mizvot, la cui fonte è proprio nel verso appena citato,
Maimonide non inserisce la Teshuvà nel proprio computo dei seicentotredici
precetti.
Senza entrare nel merito della loro disputa diremo che il Maimonide esclude
numerosi ‘grandi principi’ dell’ebraismo dal computo delle mizvot ritenendoli
una sorta di linee guida, ad esempio l’invito ‘Siate Santi’.
Questa divergenza di opinione, e soprattutto l’opinione del Nachmanide, ci
dà la possibilità di approfondire il concetto della Teshuvà.
Rav Mordechai Elon shlita espone un interessante quesito che pone il Chidà
e la relativa risposta del Rav Kook. Il Chidà, Rabbi Chajm Josef David Azulai
z’l, grande Maestro livornese, si interroga a fondo su una particolarità
halachica. La trasgressione di molti precetti negativi della Torà comporta la
pena della fustigazione che viene imposta dal Tribunale. Non la trasgressione di
ogni precetto negativo però: per grandi linee ci sono due categorie di precetti
negativi la cui trasgressione non comporta fustigazione: 1. Precetti la cui
trasgressione non è tangibile, ad esempio ‘Non desiderare’. Nessun tribunale può
misurare i sentimenti. 2. Precetti negativi per la cui trasgressione la Torà
prevede una mizvà positiva riparatrice. Ad esempio il furto. È proibito il
furto, ma una volta commessa la trasgressione il ladro ha la mizvà di
restituire la refurtiva. Non è prevista fustigazione di sorta. C’è una chiara
mizvà riparatrice.
Se allora la Teshuvà è una mizvà positiva come sostiene il Nachmanide,
allora per ogni trasgressione di un precetto negativo esiste una mizvà positiva
riparatrice (la Teshuvà) e non c’è spazio per la fustigazione, in nessun caso.
Non è evidentemente così, lo sappiamo, ma come mai? Rav Elon espone la
risposta che da il grande Rav Kook e che ci fa luce sul concetto di Teshuvà.
La spiegazione del quesito del Chidà è che la Teshuvà, anche per il
Nachmanide, non è una mizvà legata alla trasgressione. Non è conseguenziale. Se
uno ruba ha la mizvà di restituire la refurtiva. Una persona onesta che non
ruba non ha modo di mettere in pratica la mizvà ed il suo merito è ovviamente
incluso nel rispetto del divieto del furto. Non così è per la Teshuvà. Essa non
è riparazione del torto ma è piuttosto condizione esistenziale.
Abbiamo già affrontato il principio esposto in Yomà (86b) secondo il quale:
‘Grande è la Teshuvà che giunge sino al Trono della Gloria’, ma vale la pena di
tornarci su.
L’espressione classica di Teshuvà è quella di tornare sino al Signore. Lo si
impara dal verso del Profeta Hoshea (14,1) che caratterizza lo Shabbat tra Rosh
Hashanà e Kippur che dedichiamo alla Teshuvà, ma anche e soprattutto dal verso
del Deuteronomio con il quale abbiamo aperto e che secondo il Ramban è la fonte
per il precetto positivodella Teshuvà.
Come abbiamo detto l’anima dell’uomo viene prelevata dal basamento del
Trono della Gloria Divina, e quando il suo portatore decide di seguire la Via
del Signore sta nella realtà tornando alla natura (pura) della sua anima ed
allo scopo per il quale l’anima è stata creata. Si tratta del ritorno al punto
in cui l’anima proviene, la base del Trono.
Il Trono della Gloria rappresenta il Regno di D. sul mondo. Esso poggia
sulle anime d’Israel, il cui scopo esistenziale è operare la Volontà di D. e di
ingrandire il Suo dominio in questo mondo.
Ci siamo già occupati di un famosissimo passo Talmudico (TB Niddà 30) nel
quale viene descritta la formazione del feto nel ventre materno ed il modo in
cui prima studia tutta la Torà intera e poi la dimentica. Rav Friedlander
spiega che questa è anche una importante fonte per capire la Teshuvà.
La natura della nostra anima è quella di conoscere e rispettare la Torà. Ma
è una natura che noi crediamo di dimenticare completamente e che rimane però
inconsciamente scolpita in ognuno di noi.
Tornare a D. significa dunque tornare alla nostra condizione ideale e primordiale.
Si tratta di tornare a noi stessi ed a D. allo stesso tempo. Non c’è grossa
differenza tra le due cose. Non esiste un ritorno a se stessi che non sia un
ritorno a D., solo tornando alla Torà riscopriamo noi stessi.
Dunque non ha senso pensare la Teshuvà come una riparazione una tantum ad
un torto specifico, essa va piuttosto inquadrata come un’attività continua. Sia
che essa sia una mizvà o che non lo sia, è un qualche cosa che abbraccia tutta
la nostra esistenza. È un principio enorme che dà un indirizzo alle nostre
esistenze.
Si deve aver chiaro l’obbiettivo. L’obbiettivo dell’esistenza umana deve essere
quello di giungere sino al Signore, ossia di giungere ad un’osservanza
completa. Per questo motivo la Teshuvà precede la creazione, giacché la
creazione ha come scopo il fatto che Israele osservi la Torà e c’è assoluta
coincidenza tra le due cose.
Possiamo allora capire anche perché uno dei principali elementi della
Teshuvà è la Tefillà, la preghiera. Pregare significa riversare dinanzi a D. i
desideri della propria anima e così i Maestri ci hanno didatticamente fissato
un formulario preciso per pregare.
Noi non dobbiamo imparare a desiderare. L’ultimo modello della Ferrari o il
primo premio della lotteria non sono desideri ma illusioni. Quello che l’anima
deve desiderare è di compiere al meglio il proprio compito. Dunque nella
Tefillà noi asseriamo dinanzi a D. quello che vogliamo ed il nostro formulario
è impostato per metterci sulla buona strada. Riscoprire la preghiera nei
‘giorni terribili’ che ci apprestiamo ad affrontare significa riscoprire ciò
che dobbiamo volere da noi e la nostra vita ed è un elemento indispensabile per
ritrovarela corretta rotta.
È qui un altro elemento fondamentale del nostro puzzle. La Teshuvà non si
riferisce al passato. Per questo non traduciamo Teshuvà come pentimento:
pentimento è per il passato, La Teshuvà è per il futuro. Il giudizio che
sosterremo nei prossimi giorni non è infatti come spesso si pensa erroneamente
un giudizio per l’anno passato. Si tratta piuttosto di un giudizio per l’anno a
venire. Quello che Iddio deve stabilire è quali prospettive ci sono per noi nel
prossimo anno e di quali mezzi potremo disporre. Questo dipende evidentemente
da noi.
Il giudizio è legato al passato nel senso che nessun anno è totalmente
scollegato dal precedente. Ossia, non possiamo sperare in un giudizio
favorevole se nell’anno trascorso non ci siamo comportati correttamente.
Quello che conta è però la direzione. Il giudizio dell’anno passato non è
un esame punitivo delle trasgressioni commesse ma piuttosto un esame esplorativo
per capire l’anno che ci apprestiamo ad affrontare. Il Rav Dessler paragona ciò
ad un inventario di magazzino il cui scopo non è mai un mero esame della stagione
passata ma piuttosto uno strumento per programmare il futuro.
Dunque la Tefillà è un po’ la bussola in direzione del ritorno. Essa ci
insegna a riversare la nostra anima al Signore, a capire ciò che è giusto
desiderare. La Teshuvà, lo abbiamo appena detto, precede la creazione e ne è un
po’ il motivo.
C’è un precetto di cui abbiamo parlato molte volte (l’ultima, la scorsa
settimana), che è anche considerato il motivo della creazione: la presentazione
delle primizie al Santuario. Non ci deve stupire allora che secondo un midrash
poco noto (Tanchumà su KiTavò) la fonte del precetto rabbinico della preghiera
è proprio il precetto delle primizie e non le offerte quotidiane come in genere
pensiamo.
Secondo il Midrash, Moshè ha previsto la distruzione del Tempio e
l’interruzione della presentazione delle primizie ed ha stabilito per Israele
le tre Tefillot giornaliere in sostituzione. Dunque i tempi delle preghiere sono
corrispondenti agli olocausti quotidiani, ma il motivo delle preghiere sono le
primizie.
Vediamo di capire meglio. Due sono essenzialmente le mizvot collegate alla
presentazione delle primizie. La prima, in Levitico, è il precetto di presentare
le primizie al Santuario, la seconda, in Deuteronomio - Ki Tavò, è il precetto
di narrare l’apposito passo previsto per l’occasione. Ci sono quaranta anni di
distanza tra le due regole, come mai?
Rav Mordechai Elon ne spiega il motivo. Chi riceve il precetto di narrare
l’Esodo nel portare le primizie non è mai stato fisicamente in Egitto, (tranne
Moshè, Jeoshua e Calev). Il precetto di narrare quanto è accaduto in
Egitto è inerente proprio per chi in Egitto non c’è stato mai. Il reduce non ha
il minimo problema a narrare la schiavitù egiziana e anzi può condire il
racconto con gli inevitabili ricordi personali. Ma non è questo che conta.
È chi in Egitto non ha mai messo piede che deve imparare la grande lezione racchiusa
nel passo della presentazione delle primizie. Si tratta della comprensione del
fatto che l’uomo è limitato, che i beni materiali possono essere un’illusione e
che ‘Non c’è altro all’infuori di Lui’.
È la differenza sostanziale che esiste tra Evel e Kain. Evel offriva a D. ‘dai
primogeniti del suo bestiame’, Kain ‘portò anch’egli dai frutti della terra’.
Evel è allevatore, è un nomade senza terra,che capisce che a D. si dàda ciò che
si possiede ed il meglio di quanto si possiede. Kain è un agricoltore che porta
a D. prodotti non necessariamente suoi (non c’è scritto ‘la sua terra’) e
certamente non le primizie. Evel ha capito tutto, Kain non ha capito nulla.
Kain ha una concezione sballata del Signore e pensa di dover placare la
Divinità con un contentino. Evel capisce il nocciolo della questione.
Rav Elon spiega provocatoriamente che è possibile che Kain abbia portato
vagoni di frutti e che Evel abbia invece offerto un solo pezzo di carne.
Ciononostante l’offerta di Evel è una sottomissione totale, quella di Kain no. Questa
è la sfida del contadino ebreo, non perdere mai di vista le proporzioni e il
senso storico che ci deve accompagnare. E quando noi vogliamo ricordare l’Esodo
la sera di Pesach lo dobbiamo fare attraverso gli occhi di quello stesso
contadino.
Il brano che si recita portando le primizie è dunque la fonte prima del precetto
di pregare. Pregare significa imparare. Significa capire il proprio ruolo e
così come si dovrebbe essere costantemente in uno stato di Teshuvà, allo stesso
modo si dovrebbe essere costantemente in preghiera.
I giorni che ci aspettano sono giorni nei quali la preghiera occuperà gran
parte delle nostre giornate e le musiche tradizionali ci accompagneranno nei
vari momenti di questi giorni.
Viene alla mente il fatto che la Parashà di Vajelech contiene l’ultimo
(cronologicamente) dei precetti: quello di scriversi un Sefer Torà. Si impara
dal fatto che Iddio comanda a Moshè di scrivere la cantica di Hazinu. I Maestri
interpretano la parola Shirà, canto, cantica, come un riferimento alla Torà
intera. Dunque in qualche modo il canto della preghiera e la Torà coincidono.
E viene alla mente il Midrash che racconta di come un uomo ignorante non
sapeva pregare e conosceva solamente l’alfabeto. Egli pronunziava le lettere
una ad una con una tale concentrazione che era il Signore a comporre con esse
le parole delle preghiere.
Pregare, tornare a D. e presentare le primizie, così pure come lo studio
della Torà, sono concetti che coincidono e che poggiano su un solo pilastro:
decidere di dare un senso alla nostra vita. Armarsi di buoni propositi per
l’anno a venire e dimostrare da oggi (!!!) al Signore che vogliamo seguire la
giusta via.
Si dice che c’è più di un modo di essere ebrei. Nulla di più falso. Ognuno
di noi ha il suo, e questo è evidente, ma ognuno di noi ha un solo modo per
essere ebreo: quello di trovare la sua personale strada che porta sino al
Signore. Ognuno di noi ha tante strade tra cui scegliere ed una sola che porta
al Trono:è la strada pavimentata da seicentotredici precetti e delimitata dalla
segnaletica dei Saggi.
Seicentomila strade per seicentomila anime di Israele, seicentomila lettere
delle Torà per seicentomila anime che sono uscite dall’Egitto.
‘Le Sue Vie sono vie di delizia e tutti i Suoi sentieri sono la Pace’
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