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Shabbat 13 Shevat 5779
(19 gennaio 2019)
Parashat Beshallach: Shemot (Esodo) 13,17 - 17,16
Haftarah : Giudici 5,1-31 (rito sefardita)
Altri riti: 4,4-5,31
Derashah di rav Eitan Della Rocca,
emissario di Shavei Israel per l'Italia
emissario di Shavei Israel per l'Italia
Da Torah.it
Testo e traduzione
Da Mosaico-CEM, notiziario della Comunità ebraica di Milano - 18 Gennaio 2019Parashat Beshallach. Gli insegnamenti
dell’apertura del Mar Rosso
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
La spaccatura del mare dopo l’uscita
dall’Egitto
rappresenta un evento di assoluta importanza nel passato,
poiché ha concluso il primo esodo della storia dell’umanità. Oltre a essere il
primo evento nel suo genere, esso racchiude anche diversi insegnamenti di vita
che sono come dei grandi tesori da portare con noi in ogni momento.
Finalmente
dopo 210 anni di schiavitù pesantissima, dove il sangue degli ebrei scorreva
come il fiume del Nilo in quantità mastodontiche, arriva il grande momento
dell’uscita. Il 15 di Nissan, dell’anno 2448 dalla creazione del mondo, arriva
il grande momento: la super potenza universale del momento non riesce più a
soggiogare i suoi indispensabili schiavi per la realizzazione dei grandi progetti
dell’Egitto.
Un
popolo intero viene liberato senza che nessun cane aprisse la bocca, nonostante
che tutti i cani fossero addestrati con stregonerie ad abbaiare nella direzione
dove uno schiavo cercava di scappare. Il popolo di Israèl si ritrova davanti al
mare con gli egiziani alle loro spalle che li vogliono riportare in Egitto.
Gli
egizi erano feriti nella loro dignità, dopo che un popolo intero è scappato con
i loro tesori presi in prestito. Tutto questo succede poiché è tutto calcolato
dal Creatore del mondo e gli egiziani dovevano morire affogati proprio come
loro uccidevano i neonati, facendoli affogare nel Nilo.
Il
mare però non si apre e il popolo non sa cosa deve fare. Hashem dice al popolo
di entrare nel mare e solo, quando loro entreranno allora il mare si aprirà. Questo argomento racchiude ben cinque
grandi insegnamenti di vita fondamentali in ogni momento.
SIAMO SUPERIORI AGLI ANGELI
1°.
Buttiamoci prima noi
Spesso
si sente dire: se trovo un bel lavoro mi ci butto! Se trovo la giusta donna mi
sposo! Se mia moglie fosse più calma e comprensiva avrei pace in casa.
Questi
sono alcuni di tanti esempi di situazioni che ci possono accadere in ogni
momento. Illudersi che il mare si apre, e solo dopo entrarci, vuole dire che
non abbiamo capito niente della vita.
Questo
sarebbe come il gatto che si vuole mordere la coda che entra in un circolo
vizioso: mentre si gira per prendere la coda, nello stesso istante, si sposta
la coda di continuo.
Se
ci troviamo davanti a un mare e gli egiziani alle calcagna, vuole dire che
abbiamo una delle tante sfide che dobbiamo superare, le prove ci vengono date
per essere superate al fine di elevarci.
Gli
angeli, a differenza degli uomini, non hanno prove e perciò non sono stimolati
ad elevarsi, quindi non hanno mai delle difficoltà. Questo perché gli angeli
non hanno il merito di avere il libero arbitrio, di poter scegliere tra bene e
male, per loro superare una prova non ha nessun valore.
Come
dice lo Zohar questo è un mondo con valori al contrario (alma deshikra) ciò che
sembra un problema è un regalo, basta non fermarsi all’aspetto esterno.
2°
Come uno tsunami
Ci
si potrebbe chiedere: cosa ci vuole a entrare nel mare. Immaginiamo una delle
tante belle coste italiane fare un bel tuffo in mare nel mese di aprile è molto
piacevole. Se ci spostiamo nel sud di Israele molti fanno il bagno a Eilat in
aprile, quando sono usciti dall’Egitto a Nissan.
E
allora, perché era così complicato entrare nel mare? Perché in quel giorno il
mare era molto agitato come uno tsunami. Faceva paura solo a vederlo. Questo
perché la prova, per essere vera e darci un merito, deve essere
incomprensibile.
Per
questo nessuno osava mettere un dito nel mare in quel giorno. Come diciamo
nelle Massime dei Padri cap V, mishna 5: dieci volte Israel mise Hashem alla
prova, di cui due volte sul mare quando dissero: se il mare si apre noi ci
entriamoץ
Da
questo impariamo che solo un mare agitato come uno tsunami può darci dei
meriti, quando superiamo la prova. Se vediamo uno tsunami nella vita non
spaventiamoci, è per darci un merito.
3°
Santa pazienza
La
struttura di una prova è che fino all’ultimo non si sblocca. Lo vediamo nelle
prove di Abramo che arrivato ad un fiume che doveva superare, solo quando
l’acqua è arrivata alla bocca, solo allora il fiume è scomparso.
Anche
nel mare quei pochi che sono entrati il mare non si è aperto subito per
Nakhshòn e i suoi fedeli, ma solo dopo, quando stavano per affogare allora si è
aperto.
Se
pensiamo che le prove si annullino appena le affrontiamo facciamo un grande
errore. Bisogna avere pazienza e determinazione, occorre andare fino in fondo.
Ad
esempio: Se ci fossero delle discussioni con la futura anima gemella, non vuole
dire che non è la moglie giusta. I problemi ci arrivano per superarli ed
elevarci.
4°
Decisione giusta nel momento sbagliato?
Dopo
l’uscita dell’Egitto il popolo di Israèl si ritrova davanti al mare che
dovevano attraversare. Par’ò radunò tutti i suoi cavalieri e il suo esercito e
li raggiunse mentre erano accampati presso il mare nella località di Pi Hakhiròt.
I
figli di Israèl videro gli egizi ed ebbero una grande paura e la loro reazione
fu quella di dividersi in quattro gruppi (Shemòt cap 14, 14-15). Il primo
voleva buttarsi in mare, poiché preferiva annegare piuttosto che tornare in
Egitto; il secondo gruppo pensava che sarebbe stato meglio tornare ad essere
schiavi; Il terzo voleva combattere; il quarto gruppo voleva invocare Dio.
Hashèm
disse a Mosè: “Perché mi volgi il tuo grido? Dì ai figli di Israèl di mettersi
in cammino. (Shemòt 14, 15).
Dio
dice al popolo, tramite Mosè, che il mare si aprirà solo se si metteranno in
cammino. Le opinioni di 3 dei 4 gruppi (tranne ovviamente quella di chi voleva
tornare in schiavitù), non erano di per sé sbagliate, ma erano inopportune ed
inutili in quel momento.
In
particolare ci si può chiedere cosa vi era di sbagliato nelle intenzioni del
primo gruppo? In fondo apparentemente, ubbidivano all’ordine di Hashèm “Dì ai
figli di Israèl di mettersi in cammino”, quindi di andare verso il mare.
Al
primo gruppo, quello che voleva buttarsi in mare in maniera disperata, quasi
suicida, Mosè gli risponde “State a guardare la salvezza che Hashèm opererà per
voi oggi”. Proprio nella risposta di Mosè noi possiamo trovare la giusta chiave
di lettura di questo episodio della Torà.
Il
grave difetto delle intenzioni del primo gruppo, era che loro non volevano
buttarsi in mare con forza e speranza in Dio, ma erano spinti a questo gesto
dalla disperazione. Invece il mare si sarebbe aperto solo se il popolo di
Israèl si fosse “messo in cammino” con fiducia e fede nel fatto che Hashèm
avrebbe realizzato la sua promessa, li avrebbe salvati. Per questo Mosè gli
dice di non buttarsi ma di “guardare la salvezza che Hashèm opererà per voi
oggi”.
Da
questo episodio noi possiamo trarre un grande insegnamento nelle vita di tutti
i giorni: di fronte alle prove a cui siamo sottoposti agiamo, ma non con la
forza della disperazione, bensì con la determinazione della forza della fiducia
in Dio, nella sua salvezza. Solo così il mare si aprirà.
5°
Meglio riuscire per i nostri meriti
Dalla
parashà di Beshalach possiamo trarre un altro grande insegnamento. In Shemòt
14, 22troviamo scritto : “I figli di Israèl entrarono nel mare, all’asciutto e
l’acqua faceva loro da muro alla loro destra e alla loro sinistra”. La stessa
frase la troviamo ripetuta poco più avanti nel verso 14, 29.
È
cosa nota che ogni singola parola della Torà ha un’enorme rilevanza, anche una
sola parola in più o meno, ha un significato essenziale.
In
questo caso troviamo ripetuto un intero verso! Cosa ci vuole dire la Torà con
questo fatto? Una delle possibili interpretazioni ci viene data dal libro del
Santo Zohar che afferma come, in tutto il lungo periodo della schiavitù in
Egitto, il popolo ebraico si era contaminato con innumerevoli peccati. Era
caduto nei più bassi livelli dell’impurità, proprio come gli Egizi.
Da
questo punto di vista ebrei ed egiziani erano identici, entrambi erano
immeritevoli della misericordia di Hashèm. Continua lo Zohar dicendo, quindi
perché il mare si sarebbe dovuto aprire di fronte al popolo d’Israèl e
chiudersi di fronte agli egizi? Quale erano le differenze tra i due popoli?
Per
questo motivo Dio, per bocca di Mosè, ordina al popolo ebraico di “mettersi in
cammino”, di entrare nel mare affinché questo si apra, proprio per dare al
popolo ebraico, il merito di aver avuto fede in Hashèm. Questo sarebbe stato
l’atto su cui fondare l’intervento della misericordia divina. Proprio per
questo motivo Mosè voleva che il primo gruppo si buttasse in mare, non perché
mosso dalla disperazione, ma per fede in Dio, dalla certezza della sua
salvezza.
Allora
perché alla fine il mare si aprì, come riportato nei versi 22 e 29 del capitolo
14? Grazie al gesto di pochi: Nakhshòn e ai suoi seguaci che si buttarono in
mare con fede e certezza nella promessa fatta da Hashèm.
Solo
allora il mare si aprì permettendo a tutto il popolo ebraico di raggiungere la
salvezza. Tuttavia lo Zohar fa un’altra interessante osservazione, perché poi
il mare non si richiuse al passaggio della maggioranza del popolo Israèl che
non aveva creduto in Dio? La risposta, sempre secondo lo Zohar, è che Dio si
ricordò di Abramo dei suoi meriti e della promessa che Dio gli fece sulla sua
discendenza che “Sarebbe stata numerose come le stelle del cielo”.
Da
questa spiegazione troviamo il motivo della ripetizione dei due versi: in Esodo
14, 29, diversamente che nel paragrafo 22, è scritto “I figli di Israèl
entrarono nel mare, all’asciutto e l’acqua faceva loro da muro alla loro destra
e alla loro sinistra” la parola muro/Khomà della frase è scritto senza la vav.
In
questo modo si può leggere sia “muro”, sia come “rabbia”, quindi possiamo
rileggere questa parte come “I figli di Israèl entrarono nel mare, all’asciutto
e l’acqua era arrabbiata alla loro destra e alla loro sinistra”. Questo poiché
il mare era “arrabbiato” del fatto che si dovette aprire, non per i meriti del
popolo ebraico, per i meriti di Abramo.
Da
questa storia impariamo come, a volte, se Dio vuole, basta un piccolo gruppo di
persone fedeli della volontà di Hashèm per salvare anche chi è carente nella
fede.
Il
secondo insegnamento è che tutte le prove che subiamo nella vita, anche quelle
più dure e difficili, sono in fondo solo un’opportunità che ci viene offerta da
Dio per migliorarci, per elevare noi stessi e gli altri che ci circondano.
Grazie allo sforzo che mettiamo nel capire su come e cosa dobbiamo fare per
vincere la sfida che abbiamo d’innanzi.
Se
ognuno di noi, in questi giorni speciali, riuscisse a migliorare anche nel
compimento di una sola azione, aggiungeremmo una luce in questo mondo e
accelereremmo così la imminente rivelazione di Mashiakh, presto nei nostri
giorni.
Amen
(Foto:
Frederic Schopin, I figli di Israele attraversano il Mar Rosso)
Altri commenti sulla parashah settimanale sul sito ChabadRoma,
da cui traiamo questa sintesi della parashah e della haftarah
Capitolo
13, 17-22. La via che gli ebrei
presero per uscire dall’Egitto non fu la più breve, perché quella li avrebbe
posti a contatto con i filistei che li avrebbero certo attaccati. Il popolo
deviò attraverso il deserto verso il Mar rosso. Una nube durante il giorno e
una di fuoco durante la notte procedeva con loro.
Capitolo 14, 1-31. Poi il Signore fece retrocedere Israele che si accampò sulle rive
del Mar Rosso. Là fu raggiunto dall’esercito del faraone che finì, però, con
l’essere sommerso dalle onde del mare che si richiuse su di loro, dopo che gli
ebrei passarono all’asciutto in mezzo alle acque apertesi per miracolo quando
Mosè, seguendo l’ordine del Signore, alzò la sua verga. Tale evento fu
riconosciuto miracoloso dal popolo, che ripose piena fede nel Signore e in
Mosè, suo servo.
Capitolo 15, 1-27. Il prodigioso passaggio del Mar Rosso suscitò un canto da parte di
Mosè. Dopo anche Miriam, la profetessa, intonò un canto seguita da tutte le
altre donne. Poi il popolo partì e si accampò nel deserto, ma ben presto
mormorò contro Mosè a causa della sete, ancora una volta Mosè, su comando del
Signore, pose rimedio alla situazione.
Capitolo 16, 1-36. Gli ebrei si accamparono nel deserto, dove mancò loro il cibo. Per
calmare le lamentele del popolo, D-o fece scendere la manna dal cielo, mandò un
esercito di quaglie, essi potevano raccoglierne in proporzione alle proprie
necessità. La manna cadeva sull’accampamento durante sei giorni della
settimana, il sesto giorno il popolo ne riceveva una doppia razione, perché
durante il settimo, il santo Shabbat, non se ne trovava. Gli ebrei si nutrirono
con la manna per quarant’anni, fino a che non giunsero ai confini della terra
di Canaan. Il Signore comandò a Mosè di tenere un ‘omer (misura
corrispondente a circa 3-4 litri)
in deposito, affinché le generazioni seguenti potessero conoscere il pane con
cui Egli aveva nutrito gli ebrei nel deserto. E comandò che un’urna contente
tale quantità fosse posta dinanzi all’Arca della Testimonianza, quando sarebbe
stata edificata.
Capitolo 17, 1-16. Quando Israel si accampo, durante la su avanzata, a Refidim, mancò
l’acqua e ancora una volta il popolo insorse contro Mosè che, seguendo il
comando del Signore, si recò con gli anziani presso e alla presenza di tutto il
popolo batté con la verga sulla rupe da cui scaturì acqua.
Un fiera battaglia fu poi sostenuta e vinta da
Israel contro gli amaleciti, che però non furono annientati. Il Signore comandò
allora a Mosè di lasciare memoria scritta di quell’avvenimento e di
trasmetterlo oralmente a Yehoshua, poiché Egli aveva stabilito di cancellare la
memoria di ‘Amalec e perciò era necessario che di generazione in generazione
gli ebrei ricordassero di combattere il malvagio ‘Amalec e i suoi discendenti
fino ad annientarne la stirpe crudele.
Riassunto della haftarah
Giudici 4, 4-5,3 (rito italiano);
Giudici 5,1-31
(rito sefardita);
Giudici 4,4/5, 31 (rito ashkenazita).
La Haftarà narra i prodigi della vittoria sui cananei e il canto di Debora, la profetessa che esercitava la funzione di giudice in quel tempo in Israele. Questo si collega al miracoloso passaggio del Mar Rosso, al tempo dell’esodo dall’Egitto, e alla successiva cantica che Mosè intonò per rendere grazie al Signore.
Giudici 4,4/5, 31 (rito ashkenazita).
La Haftarà narra i prodigi della vittoria sui cananei e il canto di Debora, la profetessa che esercitava la funzione di giudice in quel tempo in Israele. Questo si collega al miracoloso passaggio del Mar Rosso, al tempo dell’esodo dall’Egitto, e alla successiva cantica che Mosè intonò per rendere grazie al Signore.
Dal sito Morasha.it
Una derashah di rav Shlomo Rishkin
sulla parashah di questa settimana
Una derashah di rav Shlomo Rishkin
sulla parashah di questa settimana
Gli ebrei attraversano il Mar Rosso
Affresco dell'antica sinagoga di Dura Europos
Affresco dell'antica sinagoga di Dura Europos
Immagine dal sito StudyBlue
La parashà di questa settimana include un passo
molto difficile - quasi surreale. Se lo interpretiamo simbolicamente, in
termini allegorici - come in effetti fa il midrash - otteniamo non solo un
significato più profondo del testo, ma capiamo anche il significato nascosto
delle letture della Torà di lunedì, giovedì e sabato pomeriggio, importante e
necessario aspetto del nostro servizio istituzionale di preghiera in pubblico.
Subito dopo la miracolosa apertura del mar Rosso e
la gioia, manifestata dalla canzone di Mosè e dei figli di Israele, di Miriam e
delle figlie di Israele, la Bibbia afferma che il popolo ebraico "andò per
tre giorni nel deserto e non trovò acqua. E arrivarono a Marah (il nome di un
accampamento in un'oasi), ma non furono in grado di bere le acque di Marah
perché erano amare. E si lamentarono con Mosè. E (Mosè) invocò D-o, e D-o lo
diresse (yorah) verso un albero (eitz, una corteccia di un albero). Lanciò (la
corteccia dell'albero) sulle acque e le acque diventarono dolci; là (D-o)
dispose (per Mosè) le istituzioni e le leggi e là Egli lo innalzò (o lo mise
alla prova - nisahu)"(Esodo 15:22-24).
I saggi rabbinici del Midrash stabiliscono
innanzitutto che Marah precede di sei settimane il monte Sinai e che rappresenta
una rivelazione Divina che anticipa - e forse fornisce - l'essenza della
rivelazione più completa che sarebbe arrivata poco dopo. Effettivamente, anche
se marah significa letteralmente amaro, la parola contiene sicuramente un'eco
di Moriah, la montagna sulla quale, secondo l'insegnamento della Torà, si
insedierà per l'Israele ed il mondo, il Beit Hamikdash.
Questo collegamento inoltre è ulteriormente
enfatizzato dalle parole del testo insolite e complesse:
- "e D-o lo diresse" - vayorehu, dove yrh è la forma verbale ebraica da cui proviene il nome Torà, una direzione (Divina),
- "la corteccia dell'albero", o eitz, che riecheggia l'eitz hayim il quale indica tre oggetti: l'albero della vita nel giardino dell'Eden, laTorà, che "è l'albero della vita per tutti quelli che la sostengono, "e i legni consacrati intorno ai quali viene arrolotolata la pergamena della Torà.
- "Gli statuti e le leggi (mishpat) che sono stati disposti (sam)", là a Marah, anticipano "queste sono le leggi (hamishpatim) che dovete collocare (sim) davanti a voi", introducendo le leggi e gli statuti che saranno una continuazione del Decalogo e parte della Rivelazione al Sinai (Esodo 21,1)
Il nostro Saggi vanno oltre in modo molto
significativo. Il Midrash insegna che i lamenti degli Ebrei per la sete e le
richieste d'acqua erano in realtà comprensibili, dato che gli Ebrei avevano
viaggiato per tre giorni dopo l'attravesamento del mar Rosso - ed è molto
difficile se non impossibile vivere per tre giorni senza acqua. E come un
individuo non può vivere per tre giorni senza acqua, cosi la Comunità ebraica
non può vivere per tre giorni senza Torà. (Hekhilta, Beshalach 2, B.T. Baba
Kamma 82a). Mosè ha pertanto legiferato che almeno una parte di Torà venisse
letta pubblicamente durante il minian di preghiera in pubblico ogni lunedì,
giovedì e Sabbath - in modo da eliminare la possibilità di tre giorni
consecutivi senza una lettura pubblica di Torà. Ezra lo Scriba
(approssimativamente un migliaio di anni più tardi) ha aumentato le parti di
Torà portandole a tre ed infine gli uomini della Grande Assemblea hanno reso le
parti di Torà tre, il lunedì e il giovedì, e sette la mattina di Sabbath (con
sei parti di Torah che vengono lette pubblicamente a Yom Kippur, cinque parti
di Torà nelle feste normali, quattro a Rosh Hodesh e nei giorni di Hol Hamoed e
tre nei pomeriggi di Sabbath e il lunedì e giovedì feriali).
È affascinante - ed unico dell'Ebraismo rispetto a tutte
le altre religioni - il fatto che una lettura testuale biblica venga
incorporata nel minian di preghiera in pubblico. Credo che il messaggio di ciò
sia profondo: sia la Preghiera che la Torà sono forme di comunicazione tra D-o
e Israele, virtualmente due facce della stessa moneta, anche se con una
differenza sostanziale: nella preghiera noi invochiamo in alto verso D-o mentre
nella Torà, è Dio che chiama in basso verso di noi (Kriyah è letteralmente
chiamata (Divina)).
Il contesto di questa interpretazione della nostra
parashà di Beshalach aggiunge una dimensione perfino più profonda. L'acqua è
simbolo sia di vita - "e lo spirito del Signore si è librato sopra la
superficie delle acque" proprio all'alba della creazione (Genesi 1:2) -
sia della distruzione della vita, come vediamo nella storia biblica del diluvio
ai tempi di Noè. Ricordiamo inoltre che Jonà viene quasi distrutto dalle acque
furiose del mare - ed è salvato dalla balena, pesce che è l'abitante del mare.
Le acque eccitanti e potenti della vita, le onde di emozione e di forza che
palpitano all'interno ed all'esterno delle attività umane, possono spesso
essere amaramente distruttive se nelle mani del male; sono soltanto lo zucchero
e le goccioline di rugiada rassicuranti di Torà a poter trattenere la
distruzione e a poterci innalzare di nuovo all'Eden eterno.
Il Midrash inoltre ci precisa quali delle nostre
molteplici leggi possano servire a raddolcire le acque amare: lo Shabbat, (le
sette) leggi universali della morale (dinim) e il rispetto dei propri genitori.
Lo Shabbat colloca D-o come creatore e gli esseri umani come creature - e la
paternità di D-o assicura la fratellanza dell'umanità. Chiunque interiorizzi il
messaggio dello Sabbath ha rispetto per ogni forma di vita e non potrebbe mai
giustificare nessuna forma di schiavismo o di degrado umano. ("Osserva il
giorno dello Shabbat per santificarlo, affinché il tuo servo si riposi come
te" (Deuteronomio 5:14). Rispettare i propri genitori assicura la
continuità fra le generazioni ed un tipo di vita familiare estesa - con i
relativi vantaggi così come con i relativi obblighi - che fornisce una rete di
supporto determinante quando ci si confronta con le tumultuose onde di
avversità. E le sette leggi della morale di Noè sono essenziali per
l'istituzione di una società giusta e vivibile. Questa è l'essenza della Torà
che un tempio - la voce pubblica di Yisrael Sabba in ogni Comunità ed in ogni
periodo - deve comunicare quando le acque furiose distruttrici devono essere
raddolcite nell'acqua dell'eternità generatrice di vita.
E così il nostro passo più caratteristico e più
complesso conclude: "ed ha detto, se voi interiorizzerete veramente la
voce del Signore vostro D-o, se farete ciò che è giusto ai suoi occhi, se
ascolterete i suoi ordini ed osserverete tutti i suoi statuti, tutte le piaghe
(l'alienazione, la schiavitù e l'afflizione che la società egiziana impose ai
suoi 'stranieri' e le concomitanti punizioni di cui l'Egitto di conseguenza ha
sofferto) che ho disposto sull'Egitto non disporrò su voi, dato che sono il Signore,
il vostro redentore. Ed essi arrivarono a Elim; c'erano lì dodici pozzi di
acqua e settanta alberi da dattero e si accamparono lì presso l'acqua"
(Esodo 15:26, 27).
Elim significa forza; coloro che vivono nelle leggi
dello Sabbath, nelle sette leggi della morale di Noè e nel principio di
rispetto dei genitori non potranno mai essere sopraffatti dalle onde amare
dell'oblio. Queste leggi sono una premessa necessaria per le dodici tribù
dell'Israele, paragonabili ai dodici pozzi fornitori di acqua, fonte di vita e
sono anche una condizione necessaria per le settanta nazioni del mondo -
simbolizzate dai 70 alberi di dattero - per procedere nel loro cammino verso la
redenzione. Finché tutte le nazioni del mondo - compresi i nostri vicini nel
Medio Oriente, nella Corea del Nord ed Al Qida - non capiranno l'indicazione di
D-o di raddolcire le acque, non esisterà a mai un'umanità libera.
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