Parashat Vayelech: Devarim (Deuteronomio) 31,1-30
Haftarah: Osea 14,2-10; Michea 7,18-20
Torna al Signore tuo Dio,
popolo d'Israele!
Da Torah.it
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Poiché Vayelech viene letta quasi sempre con Nizzavim,
molti commenti su quest’ultima si riferiscono anche ai contenuti di Vayelech
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Da ChabadRoma
Molti giovani non si fermano semplicemente a
raccogliere una sfida che riguardi una teoria o una filosofia profonda, ma
vogliono pure conoscerne l’applicazione pratica e non come esperienza
occasionale, ma quotidiana
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Se si accetta che la Torà è stata data da D-o non
si può dire, allora, che “i tempi sono cambiati” e che la Torà non può venire
applicata nella sua forma originaria
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Un commento alla Parasha
settimanale Vaielech & Yom Kipur,
di Rav Pinchas Punturello, emissario di
Shavei Israel in Italia
Da ChabadIT
Shabbat Shuvà
[Riferimenti alla parashah Haazinu]
Lo shabbàt fra Rosh Hashanàe Kippùr: si
chiama Shabbàt Teshuvà, ovvero lo Shabbàt del Pentimento.
La ragione di tale denominazione
è molto semplice: questo shabbàt cade nei Dieci Giorni di Penitenza. Tuttavia,
poiché ogni aspetto della Torà è estremamente preciso, bisogna intendere che il
nome Shabbàt Teshuvà vuole indicare che lo shabbàt intensifica il
pentimento e quindi la teshuvà di questo sabato è superiore a quella
degli altri Dieci Giorni di Penitenza.
Qual è la connessione fra lo
shabbàt e una forma superiore di teshuvà?
L’Alter Rebbe spiega che la teshuvà
di questi giorni coinvolge l’essenza dell’anima, mentre quella che si fa
durante il resto dell’anno ne coinvolge solo i poteri interni. Perciò, la prima
forma di teshuvà è di gran lunga superiore alla seconda.
I due tempi della teshuvà corrispondono
inoltre ai due livelli generali di pentimento: il livello inferiore, il cui
scopo è di rettificare i peccati, e il livello superiore in cui l’anima ritorna
e aderisce alla sua Fonte.
In generale, le due forme di teshuvà
si rispecchiano nella differenza fra servizio spirituale durante la settimana e
servizio spirituale dello shabbàt: durante la settimana l’uomo è impegnato
dagli affari terreni e cerca di elevare la sfera fisica verso la santità.
Questo sforzo corrisponde al livello inferiore di pentimento, in cui il compito
è di congiungere i poteri interni dell’anima con la Divinità.
Di shabbàt, tuttavia, il lavoro è
proibito per cui la sacralità del giorno è tale che l’uomo trascende la
fisicità; il suo compito in questo giorno comporta il raggiungimento di livelli
sempre più elevati di santità.
Perciò la teshuvà dello
shabbàt corrisponde al livello più alto di teshuvà, attraverso cui
l’anima s’innalza e aderisce alla sua Fonte.
La superiorità relativa alla teshuvà
di Shabbàt Teshuvà rispetto al pentimento che avviene durante gli altri
Dieci Giorni di Penitenza deve essere intesa di conseguenza.
I sette giorni compresi fra Rosh
Hashanà e Kippùr corrispondono ai sette giorni della settimana di
tutto l’anno passato; ognuno di questi rettifica le cattive azioni commesse nel
giorno della settimana corrispondente dell’anno passato, per cui la domenica
rettificherà quelle di tutte le domeniche, il lunedì quelle di tutti i lunedì e
così via.
Quindi, anche se l’intero periodo
dei Dieci Giorni di Penitenza implica una forma superiore di teshuvà,
dal momento in cui i giorni della settimana ivi compresi hanno la prerogativa
di riparare ciò che è stato fatto nei giorni corrispettivi dell’anno passato ne
consegue che la teshuvà della settimana non è la forma più elevata di teshuvà.
Di Shabbàt invece, avviene
la teshuvà per gli shabbatòt passati che sono già intrinsecamente
superiori sia rispetto al servizio spirituale sia alla teshuvà. Lateshuvà
di Shabbàt Teshuvà raggiunge il livello più alto di tutti i Dieci Giorni
di Penitenza. È questo livello che mette ogni ebreo nelle condizioni di essere
come Moshé: vicino al cielo e distante dalla terra.
SHABBAT
TESHUVA’ Di Rav Alberto Sermoneta
“Va
jelekh Moshè – e andò Mosè e disse tutte queste cose ai figli di Israel”
La
prima domanda che si pongono i Maestri del midrash è: “dove
andò Mosè?” In effetti non troviamo scritto nulla riguardo il luogo dove si
diresse.
Secondo
un midrash, Mosè sapendo che i suoi giorni stavano per completarsi, si recò da
ognuno dei componenti del popolo ebraico a salutarli, uno ad uno ed a chiedere
perdono per le offese (eventuali) che aveva arrecato loro.
E’
molto bella questa spiegazione ed anche molto commovente, se pensiamo che un
uomo della grandezza di Mosè, il quale aveva parlato con D-o “faccia a faccia”
ed aveva saputo mettere a repentaglio la propria vita, per salvare quella del
popolo, abbia potuto fare un gesto così terreno. Eppure
questa è la grandezza degli uomini: avere la forza di chiedere scusa a chi si è
arrecato offesa.
Molte
volte sentiamo dire da grandi personaggi che hanno la presunzione di dire: “Non
ho niente di che scusarmi con nessuno!”. Eppure Mosè che è considerato fra i
più grandi uomini della storia, lo ha fatto.
Questo
shabbat prende il nome dalla Haftarà che leggeremo in esso, che inizia con le
parole “Shuva Israel – torna Israel” ed è per questo motivo che viene chiamato
“shabbat shuva” o “shabbat teshuvà”. Il
significato è il medesimo, ma trovandosi fra Rosh ha shanà e Jom Kippur, si
esorta ancora una volta l’ebreo a pensare al suo comportamento sbagliato e a
pentirsi, chiedendo perdono al prossimo.
La
teshuvà è la cosa più grande che un ebreo possa fare; i Rabbini sostengono che
tanto più è grande la colpa, tanto più, nel momento della teshuvà il merito
sarà grande per coloro che la fanno.
Tornando
al senso della Haftarà, essa continua dicendo: “’ad A’ Elohekha – fino al
Signore Iddio tuo”; la teshuvà ha un potere talmente alto che ha la forza di far
arrivare direttamente al Signore. Nelle
tefillot di Rosh ha shanà, in quelle di Kippur e anche in quelle di Hoshaanà
rabbà, reciteremo un verso che dice:
“la
teshuvà, la tefillà, la zedakà fanno cambiare il cattivo decreto” (divino su di
noi).
Mosè
attraverso la sua preghiera, durata quaranta giorni e quaranta notti sul Monte
Sinai, fece sì che il disegno divino di distruggere totalmente il popolo
ebraico che si era macchiato della grave colpa di idolatria, fosse annullato e
il popolo salvato dalla distruzione totale.
La
preghiera del Profeta Elia sul Monte Carmelo, portò alla salvezza del popolo,
ritenuto ormai condannato a causa del suo comportamento da idolatra. E così
in ogni occasione in cui c’è stata una completa teshuvà, arricchita dalla
tefillà il decreto cattivo si è tramutato in buono.
Possa
così avvenire con tutti noi anche quest’anno e portare selichà e kapparà in
mezzo al nostro popolo.
Preparativi per una nuova realtà - Parashat Vaielech
Rav Eliahu Birnbaum
“E
Moshé disse queste parole a tutto Israele: oggi ho cento e venti anni e non
posso più uscire ed entrare. Inoltre Dio mi ha detto: “Tu non passerai il
Giordano (…) Yehoshua mi sostituirà e continuerà a guidare il popolo…” In
questo modo Moshé dà il suo addio al popolo di Israele a metà del cammino che
aveva sognato e per il quale aveva loro insegnato a camminare. Moshé vive in
questo momento una delle più grandi frustrazioni che può sperimentare un uomo,
come il padre che prepara i suoi figli per la vita però è assente nel vedere i
risultati dei loro sforzi.
Ogni
situazione di rinuncia è traumatica per quanto sia stata attesa e programmata.
La perdita di Moshé non giunge improvvisa ma è stata minuziosamente preparata
in ogni dettaglio; ciò non attenua per il popolo la traumaticità e la
difficoltà della situazione.
La
condotta di Moshé nel momento in cui prende commiato dal popolo è esemplare.
Moshé non intendeva pronunciare il suo addio da “pulpiti e balconi” né con
grandi discorsi, bensì cercando una volta ancora il contatto personale con il
popolo che aveva guidato. Non era il leader che ai nostri giorni sarebbe
apparso nei comizi in epoca elettorale, per trasmettere ai posteri una immagine
attraverso i flash ed i microfoni: per lui, il contatto quotidiano con la sua
gente non era un mezzo carismatico per ottenere l’adesione delle moltitudini,
ma un cammino sincero per comprendere ed occuparsi delle necessità del suo
popolo.
Esiste
una seconda lettura dell’attitudine di Moshé, la cui franchezza non nasconde il
suo carattere genuinamente pessimista rispetto alla relazione tra governante e
governato. Moshé si rivolge al suo popolo, probabilmente anche perché il suo
popolo non si rivolge a lui. Moshé stava concludendo la sua funzione di
dirigente e il popolo si preparava ad elaborare la sua relazione con il “nuovo
governo” che avrebbe assunto la responsabilità di guidarlo.
A
nulla valevano, in questo frangente, i quaranta anni di storia che erano
trascorsi: essi avrebbero avuto un loro valore, in tutta la loro grandezza,
molto più avanti.
Anche
nella società dei nostri giorni accade qualcosa di simile, giustamente o
ingiustamente, per molti dirigenti quando giungono al termine della loro
missione. A volte sono essi stessi che si ritirano, in altre occasioni è la
stessa società che li consacra o li dimentica, modi entrambi per prendere le
distanze da loro e dalla loro realtà.
Questo
è il caso, nello Stato di Israele, di Ben Gurion, di Menachem Begin, che si
ritirarono a vita privata una volta compiuta la loro funzione pubblica o quello
di Aba Eban, nei cui confronti l’opinione pubblica, a un certo momento ritirò
la fiducia. Dovremmo chiederci la ragione di tali fenomeni formalmente identici
dai tempi di Moshe fino ai nostri giorni.
Perde valore il messaggio di un leader quando questo abbandona l’orbita del potere? O non sarà che la società orienta le sue relazioni in base alla convenienza della congiuntura e tanto l’oblio quanto la “totemizzazione” di un leader, permettono di gestire la nuova realtà senza la sua interferenza?
Perde valore il messaggio di un leader quando questo abbandona l’orbita del potere? O non sarà che la società orienta le sue relazioni in base alla convenienza della congiuntura e tanto l’oblio quanto la “totemizzazione” di un leader, permettono di gestire la nuova realtà senza la sua interferenza?
Da Torah.it
Rav Riccardo Pacifici - Discorsi sulla Torà
Breve Parashà quella di
oggi, come oramai le rimanenti di questo ultimo libro della Torà, brevi
Parashoth, perché oramai, come abbiamo accennato, Mosè ha esaurito il suo
insegnamento, ha ultimato i suoi solenni discorsi ammonitori ed egli si prepara
oramai a quell'ora che diviene sempre più imminente e che sarà l'ora del suo
estremo distacco da questa terra. Prima che questo distacco sia un fatto
compiuto, Mosè compie alcuni atti che sono destinati in certo modo a continuare
parzialmente la sua opera anche dopo la sua scomparsa. Il primo di questi atti
è la solenne consegna fatta al suo successore Giosuè già precedentemente
designato ad essere la guida del popolo nella conquista della terra. Giosuè
deve sapere che egli d'ora in ora diventerà il capo di questo popolo e dovrà
condurlo alla conquista della terra di Canaan. Giosuè non deve sgomentarsi
dinnanzi a questo compito; le prove sono lì a dimostrare che Iddio protegge il
popolo. Già i re della terra al di là del Giordano sono stati vinti,
altrettanto accadrà per quelli che sono al di qua del Giordano. Giosuè deve
essere quindi sicuro della propria missione, per trasmettere a sua volta questa
sicurezza al popolo: Sii forte e saldo!... Sappi che il Signore procede innanzi
a te, Lui ti accompagnerà non ti lascerà e non ti abbandonerà, non temere,
dunque, e non paventare! (Deut., XXXI, 7 e seg.).
Assicurata così al popolo
la guida nella persona del giovane e sapiente condottiero, Mosè compie un
secondo atto, per certi aspetti molto più importante del primo: egli procede
alla scritturazione di tutta la Torà, di quella Torà che da lui prenderà il nome.
Finita la trascrizione egli consegna solennemente ai Leviti ed agli anziani la
copia di questa Torà, e raccomanda che sia posta a fianco dell'Arca, vicino
alle Tavole del patto, perché sia una perpetua testimonianza di quell'alleanza
con Dio che il popolo purtroppo potrà facilmente dimenticare; raccomanda
inoltre che ogni sette anni in occasione dell'anno sabbatico, in una solenne
convocazione di popolo, simile forse a quella tenuta poco fa da Mosè stesso,
sia fatta una pubblica lettura della Torà, affinché il popolo da questa solenne
radunanza impari a conoscere e a ricordare il suo Dio e tutti i divini comandi.
Sublime esempio, questo del
grande profeta, il quale si preoccupa che anche dopo la sua scomparsa, il
popolo che pure tanta ingratitudine gli ha dimostrata, abbia ancora un'eco del
suo divino insegnamento e fatto sapiente dalla vita e dalla storia, cerchi di
attuarlo sempre più perfettamente. Sublime esempio, dicevo, di questo principe
della Torà che tutta la sua vita ha dato al sublime scopo di elevazione del
popolo, ma che nulla ha ricevuto in premio. Neppure quello che sarebbe apparso
il più naturale e il più giustificato: l'ingresso in quella terra che era stato
il sogno e il sospiro di tutta la sua vita. Sublime esempio di dedizione e di supremo
idealismo. Mosè ormai non vive per una ricompensa terrena, Mosè ormai è sulla
terra ancora, ma il suo spirito è già nell'alto dei cieli, Mosè vuole e aspira
che la Torà di Dio, che il supremo insegnamento viva e continui dopo di lui e
oltre lui, viva e sia perenne testimonianza di quella verità che egli ha
proclamata e che egli spera possa diventare ragione di vita eterna, modello di
santità per quel popolo cui fu destinata.
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