Parashat Ha'azinu: Devarim (Deuteronomio) 32,1-52
Haftarah: 2Samuele 22,1-51
Come l’aquila veglia il proprio nido,
Come l’aquila veglia il proprio nido,
e svolazza d’intorno a’ suoi
pulcini, stende le sue ali,
li aiuta e li sostiene
pulcini, stende le sue ali,
li aiuta e li sostiene
Da Torah.it
Porgete orecchio,
o Cieli si riferisce a quelle mitzvòt che coinvolgono solo i cieli,
mentre l’altra parte del versetto: ascolta, o terra… si riferisce solo alla terra |
Quando un ebreo
investe le sue qualità in un attività, una parola o un pensiero negativo
(cioè pecca), “tira” con sé anche coLui che si trova all’altro lato della
fune
|
Dal sito della casa editrice LaGiuntina
© Elia Kopciowski, Invito alla
lettura della Torà.
(Deuteronomio 32,1-52)Secondo
l'ordine divino Mosè eleva un Cantico che è anche una profezia che presenta al
popolo i pericoli di un allontanamento dalla legge di Dio e di un ritorno
all'idolatria. Il ritorno a Dio, comunque, porterà loro il perdono e la
vittoria sui nemici. Infine Dio ordina a Mosè di salire sul monte Nebo per
ammirare di lassù la terra promessa a Israele e in cui, a causa del peccato
commesso alle acque di Kadesh, non potrà entrare. Qui sul monte Mosè morirà.
A proposito del Cantico di
Mosè, il Nachmanide scrive: “Questa `Shirà', questo `Cantico', ci offre una
testimonianza vera e fedele di tutte le vicissitudini che avrebbero segnato il
cammino della nostra storia nei secoli a venire. Dopo aver ricordato i benefici
di cui Dio ci ha colmati fin dal momento in cui ci ha scelto, prevede che
l'opulenza che avremmo raggiunto con l'aiuto divino ci avrebbe portato a
un'esagerata valutazione delle nostre proprie forze, a misconoscere l'aiuto
divino, all'idolatria e alla ribellione contro l'Eterno: tutto ciò avrebbe
provocato l'ira divina, l'esilio e la dispersione nei quattro angoli della
terra... Ma la `Shirà' ci annuncia che alla fine Dio, dopo aver punito i nemici
di Israele, si sarebbe dimostrato nuovamente propizio al suo popolo”.
Questa Shirà, ci fa notare il
Midrash Sifrè, abbraccia contemporaneamente il presente, il passato e il
futuro: questo mondo e il mondo a venire.
La Shirà che leggiamo in questa
Parashà è quindi una previsione di ciò che sarebbe accaduto al popolo di
Israele e un solenne richiamo all'osservanza del Patto che l'Eterno aveva
stretto con i nostri antenati, Patto che impegna Israele in tutte le
generazioni. Il fatto che questa Parashà venga letta ogni anno nello Shabbath
Teshuvà, sabato che cade nel periodo penitenziale o nel sabato che segue
immediatamente il giorno di Kippur, è particolarmente significativo.
In questo suo ultimo discorso
Mosè raggiunge le più alte vette dell'ispirazione profetica: “Porgete
orecchio, o cieli, ed io parlerò! E ascolti la terra le parole della mia bocca!”.
Il cielo e la terra, chiamati a
testimoniare della giustizia divina, fanno tremare le nostre anime e ci
riempiono di timore reverenziale. Mosè non cita le Muse, non si rivolge agli
idoli pagani pregati in quell'epoca, né ovviamente a quelli che a quell'epoca
non erano ancora conosciuti, ma che saranno conosciuti in seguito, come abbiamo
più volte ripetuto; non si riferisce a se stesso come a un ideologo di una nuova
corrente politica, così come è avvenuto più volte anche oggi in cui ideologie
politiche, sociali, religiose “fanno moda” e raccolgono seguaci ciechi alla
verità, sordi alla voce del vero Dio. Mosè chiama a testimoni il cielo e la
terra: testimoni eterni di un'eterna verità.
Del profetismo, il suo Cantico,
ha tutte le caratteristiche, a cominciare da quella dell'universalità: “Quando
l'Altissimo diede alle nazioni la loro eredità, quando separò i figli degli
uomini, fissò i confini dei popoli...” (32,8).
Nulla è lasciato al caso: gli
uomini, i popoli, fanno parte del disegno divino, ed è in tal modo ribadito il
concetto di Dio Signore della storia, che fa delle Sue creature strumento dei
propri intendimenti.
E nel piano divino Israele ha una
parte preponderante; così si conclude infatti il passo della Torà: “...
poiché la parte dell'Eterno è il suo popolo!... Lo trovò in un paese deserto...
lo circondò di cure, lo istruì e lo protesse come la pupilla del suo occhio;
come l'aquila veglia sul suo nido volando sui suoi aquilotti, tende le sue ali,
li prende, li solleva sulle sue penne...” (32,9-11).
“Lo istruì” dice la nostra
Parashà: l'importanza della trasmissione della cultura e della tradizione ai
figli e alle generazioni future, perché sappiano, perché non dimentichino, è
sempre in primo piano: “Prendete a cuore tutte le parole delle mie
esortazioni, affinché le inculchiate ai vostri figli ed essi le osservino e
mettano in pratica tutte le parole di questo insegnamento. Questo non è un
fatto di scarso valore, per voi, ma è la vostra stessa vita!” (32,46-47).
E rileggendo quanto Mosè annuncia
nel momento in cui sta per concludere la propria vita e il popolo è in procinto
di entrare nella Terra promessa, vorremmo riflettere con commozione, con
profonda riconoscenza, sulla personalità di questo uomo, unico nella storia; e
sul nostro popolo, altrettanto unico nella storia.
Mosè ha fatto uscire dall'Egitto
un popolo schiavo, oppresso e afflitto. Lo ha condotto nel deserto con la
promessa che l'Eterno gli avrebbe concesso “una terra stillante latte e
miele”, ma che gli avrebbe anche richiesto l'impegno di osservare una Legge
difficile, rivoluzionaria, così all'avanguardia socialmente da risultare quasi
inimmaginabile a quei tempi.
E nel deserto il popolo ha costruito
un Tabernacolo dedicato al Dio unico che non aveva né forma né immagine.
E ha studiato! In un'epoca in cui
lo studio era un diritto riservato a pochissimi privilegiati, ha trascorso ore,
giorni, mesi, anni ad ascoltare le parole divine che Mosè gli trasmetteva; le
spiegazioni, le interpretazioni, i chiarimenti di queste parole, dalla viva
voce di Mosè stesso, per apprendere una Legge che poco spazio lasciava alla
prepotenza, alla sete di ricchezza e di potere, alla conquista di privilegi e
di premi. Una Legge assolutamente al di fuori degli usi, della mentalità di
quell'epoca. E, se ci guardiamo attorno, forse anche della nostra epoca!
Nella speranza di poter attuare
un giorno, nella sua Terra, questa Legge, ha sopportato di vivere nel deserto
quaranta anni; gli anziani sono morti e sono stati sepolti nella sabbia, senza
vedere la Terra promessa, ma dopo aver ascoltato, ed accettato, la nuova Legge.
Perché, se non l'avessero voluta
accettare, non sarebbe stato loro difficile abbandonare Mosè. Avrebbero potuto
farlo in qualsiasi momento, andando a dimorare in una delle città che avevano
incontrato lungo la loro strada, o tornando in Egitto così come avevano
minacciato di fare, ma, all'atto pratico, senza mettere in atto la minaccia.
In quanto a Mosè: chi era?
Era un principe allevato alla
corte del Faraone. Un uomo avvezzo alla vita di corte, alle comodità e ai lussi
cui un `figlio' del Faraone, e tale veniva considerato in Egitto, aveva
diritto.
E anche se era caduto in
disgrazia per venire in aiuto a un fratello schiavo maltrattato da un aguzzino
egiziano, se veramente lo avesse voluto, con l'aiuto della madre adottiva,
figlia del Faraone, e dello stesso Faraone che, secondo il Midrash, amava Mosè
come un figlio, in uno stato in cui il potere era detenuto unicamente dal
Faraone, avrebbe potuto assai facilmente essere reintegrato nel suo rango
primitivo!
Ma non era ciò che Mosè voleva,
ed egli fuggì alla ricerca di una strada e di un ruolo.
Il ruolo di Guida e di Maestro
che Dio affida a Mosè gli si attaglia perfettamente.
Per quaranta anni si prende cura,
difende, incoraggia, aiuta un popolo spesso disorientato, spesso sofferente a
causa della difficoltà della situazione contingente, della precarietà della
vita nel deserto in cui non si sa mai quando e quanto ci si fermerà, quando e
per quanto tempo ci si rimetterà in cammino.
Molti grandi uomini abbiamo
incontrato nella storia: uomini forti, intelligenti, potenti. Abbiamo
incontrato esploratori che hanno scoperto nuovi mondi e conquistatori che hanno
assoggettato terre e popoli fino a fondare immensi imperi.
Mai, però, abbiamo incontrato un
uomo che abbia preso in mano, forse sarebbe più esatto dire “foggiato”,
“creato” un popolo, per volontà del Signore e con il Suo costante aiuto: un
popolo che già possedeva un ideale monoteistico, ma che era ancora privo di una
sua precisa forma; un uomo che abbia dedicato un'intera vita a formarlo, a
educarlo, a condurlo su una strada che non era mai stata percorsa prima.
E senza che la sua opera
prevedesse alcun interesse personale, perché alla fine del suo cammino non
avrebbe trovato, né gli erano stati promessi, gloria o ricchezze, conquiste
territoriali o potere, perché era solo a Dio che il popolo doveva gratitudine e
onori. L'unico scopo della missione di Mosè era quello di porre le basi per
attuare il compito affidato alla stirpe di Abramo: l'ideale umanitario che
prevedeva “benedizione per tutte le famiglie della terra” e che avrebbe
incontrato nella sua attuazione difficoltà, sacrifici e sofferenze, così come è
messo in evidenza nel Cantico della nostra Parashà.
Un ideale che purtroppo ancora
oggi non è stato realizzato.
Ma neppure dimenticato!
Il popolo e la Legge, immutati e
immutabili, sono infatti sopravvissuti ai secoli, ai cambiamenti, all'evolversi
degli eventi, al susseguirsi dei personaggi e dei popoli sul palcoscenico della
storia.
Le tragiche conseguenze degli
errori commessi dal popolo non sono mancate: la profezia di Mosè si è spesso,
troppo spesso avverata.
Ma Dio non ha abbandonato il suo
popolo ed esso vive, e intende vivere, per portare l'opera a compimento.
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