Dal numero 110 di Sullam, notiziario della Comunità di
Napoli,una riflessione di rav
Bahbout su Yom haAtzma’ut,
la festa dell’indipendenza di Israele,
che ricorre
quest’anno lunedì 15 aprile
Quando il tempo delle lacrime incontra quello della gioia
Ogni Stato stabilisce le
sue feste nazionali e Israele ha stabilito il 5 di Iyar come Giorno
dell’Indipendenza, così come l’Italia ha fissato come giorni festivi il 25
aprile e il 2 giugno, feste della Liberazione e della Repubblica.
La festa della Liberazione e
quella dell’Indipendenza cadono sempre nello stesso periodo dell’anno e hanno
in comune elementi simili, ma sono tra loro profondamente diverse. Uno degli
aspetti che fanno la differenza tra questi due giorni è il fatto che Yom
‘Azmaùt viene festeggiato tanto in Israele (cosa del tutto naturale) quanto nei
paesi della Diaspora. È questo un fatto anomalo: infatti è come se gli
americani di origine italiana, oltre a festeggiare il 4 Luglio, volessero
celebrare anche il 2 giugno e il 25 aprile, un giorno quest’ultimo che ha certo
segnato una svolta, ma solo per gli italiani che vivevano in Italia durante il
Fascismo o che vi hanno fatto ritorno dopo essere andati in esilio. Questa
dicotomia dell’ebreo che afferma di essere interamente italiano, ma anche
completamente ebreo, ha dato adito in passato all’accusa della doppia lealtà
ebraica.
La diversità del modo con
cui gli ebrei - ovunque essi si trovino - hanno vissuto e vivono gli eventi
impone una domanda: Yom ‘Azmaùt è una festa “nazionale”, “laica” o “religiosa”?
Anche se l’esperienza ebraica non può essere limitata a un fatto meramente
“religioso” o “nazionale”, non si può negare che nel mondo
moderno, e in quello occidentale in particolare in cui la “fede” nazionale è
così labile, festeggiare, e per di più “religiosamente”, una festa “nazionale”
di un altro Stato è un fatto estremamente contraddittorio.
Qual
è quindi il significato che l’ebreo contemporaneo e le generazioni future
dovranno dare a questa giornata? In altre parole, Yom ‘Azmaùt non ha niente a
che fare con le altre feste dell’anno ebraico, oppure si alimenta della
medesima loro linfa e contiene qualcosa che lo lega intimamente a esse?
Qualcosa possiamo imparare dalla storia di Israele, dove non sono mancate
polemiche tra i Maestri circa l’opportunità di istituire nuove feste, come nel
caso di Purim e Chanukkà. Nonostante
siano trascorsi sessantacinque anni, il processo di accettazione di Yom ‘Azmaùt
non è ancora ultimato, anzi in certi ambienti “ortodossi” esso non è mai
iniziato. Ora, comunque si voglia
guardare all’evento della nascita del terzo Stato ebraico, è innegabile che si
tratta di un fatto di per sé rivoluzionario, prodotto forse dall’unica
rivoluzione veramente riuscita nel nostro secolo, quella sionista.
Ma
quali saranno gli strumenti che faranno sì che la festa potrà essere trasmessa
e accettata anche dalle future generazioni? Come per il passato, lo strumento
sarà sempre quello di riempirla di contenuti riconducibili alla Halakhà e alla
Aggadà, alla legge ebraica e al pensiero che la sottende. Per quanto riguarda la Legge, si dovrà rispondere alle
molte domande che impone l’istituzione di una festa: Chi ha il potere di
istituirla? Quali sono le norme che la caratterizzeranno? Si devono dire, come
per Chanukkà e Purim, le benedizioni Shehecheyanu , “che ci ha mantenuto in
vita fino a questo tempo” e She’asà nissìm “che ha operato miracoli”. E ancora: è opportuno dire l’Hallèl come a Chanukkà per
un “miracolo” accaduto in terra d’Israele, apportare le modifiche alla
preghiera (per esempio “Al hanissìm, per i miracoli), scegliere un brano
appropriato per la lettura pubblica della Torà o dei Profeti (haftarà),
interrompere il periodo di “lutto” dell’òmer etc? L’introduzione di Yom ‘Azmaùt
come festa comporta quindi da una parte dei cambiamenti nella sfera del Beth
hakeneseth, ma dall’altra dei cambiamenti in quella che è la vita pubblica e
politica che trova la sua espressione nella Keneseth, il parlamento israeliano.
Yom Azmaut e le altre feste ebraiche
Per quanto riguarda
l’elaborazione filosofica, non mancano certamente gli agganci per “dimostrare”
come l’avvento di questa giornata non sia un fatto casuale.
Intanto, i Maestri avevano
rilevato fin da tempi immemorabili che, una volta noto il giorno in cui cadeva
Pesach, esisteva un sistema semplice per poter individuare il giorno della
settimana in cui cadono le altre feste: infatti bastava applicare il sistema
mnemotecnico dell’Atbash (l’alfabeto ebraico al contrario) ai giorni di Pesach.
Il giorno in cui cade il primo giorno (alef) di Pesach, corrisponde al giorno
della settimana in cui cade Tishà beav (tav); il secondo (bet) quello in cui
cade Shavuoth (shin); etc. In questo schema mancava una qualche corrispondenza
tra il settimo giorno (zain) e la ‘ain. Con l’introduzione di Yom Atzmaùt anche
il settimo giorno di Pesach ha un suo partner, appunto ‘Atzmauth che inizia con
la ‘ain.
Ma v’è molto di più.
Le feste date dalla Torà
(Pèsach, Shavu’òt e Sukkòt) sono un’espressione di quello che secondo la
mistica ebraica è chiamato “il risveglio dall’alto” (hit’arutà del’èla); mentre
Chanukkà e Purim sono un’espressione del “risveglio dal basso” (hit’arutà
diltatà).
Come è scritto nel libro
dei Maccabei, Chanukkà fu istituita in corrispondenza di Sukkòt (“fecero otto
giorni di festa come a Sukkòt”); Purìm completa Shavu’òt, perché è scritto che
“a Purim gli ebrei accettarono volontariamente la Torà che avevano accettato
sotto costrizione a Shavuòt”; per completare il quadro, mancava una festa che
corrispondesse a Pèsach.
In effetti “la festa della Liberazione
” e “la festa dell’Indipendenza” sono tra loro simili. La differenza sta
proprio nel fatto che la seconda è una conseguenza del “risveglio dal basso” e
richiede una partecipazione attiva del popolo.
Uno degli elementi basilari
del pensiero della Torà, infatti, resta quello secondo cui non è tanto importante
la teoria o l’interpretazione, quanto l’azione.
La libertà - come ogni
altra grande idea - non può quindi essere un’affermazione astratta, ma qualcosa
che viene accompagnato da atti concreti da compiere, sia individualmente che
nell’ambito della società.
Ogni cinquanta anni, nel
Giubileo, accadevano due fatti importanti strettamente collegati tra loro: da
una parte, la Liberazione di tutti gli schiavi, dall’altra il ritorno della
terra al padrone originario, cioè a colui che l’aveva ricevuta al tempo della
conquista di èretz Israèl da parte di Giosuè, ma l’aveva poi venduta in seguito
a difficoltà di natura economica.
Se con la festa di Pésach
l’ebreo raggiunge la libertà dalla schiavitù, solo l’ingresso in èretz Israèl e
il possesso dei mezzi di produzione sono la garanzia dell’indipendenza.
La redenzione delle osse secche
Per capire appieno l’importanza di questa festa dobbiamo però fare ancora un passo.
La vita ebraica si è svolta
tra due poli: quello della Diaspora (Golà ) e quello della Redenzione (Gheullà).
La differenza tra le due parole sta solo nell’aggiunta di una Àlef, che è la
prima lettera di El-okìm (Dio), l’unità irraggiungibile nel mondo della
dualità, rappresentato dalla lettera bet con cui comincia la Torà.
La Àlef è anche quella
lettera che ha trasformato le ‘Atzamòt, (le ossa secche della visione di
Ezechiele), in ‘Atzmaùt: quando oramai “la speranza era persa” - avdà tikvatènu,
proprio così dicevano le ossa secche di Ezechiele e questo facevano pensare le
ossa secche degli ebrei assassinati nei Campi - lo Spirito ha soffiato nelle
ossa e queste ossa sono tornate a rivivere, trasformando la golà in gheullà e
le ‘atzamòt in ‘atzmaùt.
Nonostante i tentativi di
“rianimazione”, tutte le feste nazionali corrono il rischio di perdere il loro
significato con il passare del tempo e si trasformano in una semplice giornata
di vacanza. Gli eventi che hanno caratterizzato la storia ebraica dalla Shoà in
poi, vanno visti come un processo che non può terminare con Yom Azmaut. Secondo
la definizione che noi troviamo nella preghiera per “la pace dello Stato”, Yom
‘Atzmaùt è “l’inizio della fioritura della nostra redenzione”, inizio che dovrà
portare al cambiamento vero e proprio e che è tuttora in corso.
Tuttavia, come per ogni
cosa o evento nuovo, rav Maimon - tra i firmatari della Carta d’Indipendenza -
ha riyenuto giusto pronunciare la benedizione di Sheecheyànu. Così fin
dall’inizio della fondazione Yom ‘Atzmaùt ha assunto un significato in cui è
difficile distinguere il momento “laico” da quello “religioso”.
La partecipazione degli
ebrei della Diaspora (ma anche di molti amici non ebrei) non può essere
ricondotta alla volontà di esprimere uno spirito nazionalistico di mera
identificazione con lo Stato d’Israele; essa rappresenta piuttosto un momento
di sintesi religiosa, che come tale viene intesa, magari solo sul piano
dell’inconscio, anche dai “laici”.
Yom ‘Atzmaut rappresenta
dunque un punto di incontro del destino del popolo ebraico, dove la storia
incrocia lo spirito, l’immanente il trascendente, e il “tempo delle lacrime”,
“il tempo delle risa”.
Con i miei migliori auguri
di una redenzione completa, presto ai nostri giorni.
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