In
Rosenstrasse a Berlino si svolse un minuscolo ma enorme evento, in cui un
gruppo di donne “ariane” disarmate riuscì a far liberare i propri mariti ebrei
(ma vi erano anche degli uomini sposati con donne ebree) dalla deportazione.
Un
episodio che dimostra che, con l’amore, il coraggio e la fermezza, sarebbe
stato possibile, se non impedire la shoah, almeno diminuirne le spaventose
dimensioni; non parlo, ovviamente, dell'impegno degno di onore dei singoli e di gruppi che segretamente salvarono tantissimi ebrei, ma di quegli Stati e di quelle masse che si trinceravano e si trincerano dietro il "noi non sapevamo e se anche avessimo saputo non avremmo potuto fare niente..
Questo si è verificato in Bulgaria, in Danimarca, e a Berlino, capitale e cuore della Germania nazista.
Questo si è verificato in Bulgaria, in Danimarca, e a Berlino, capitale e cuore della Germania nazista.
Martedì 9 aprile alle 16,30
Università degli studi di Palermo
LE DONNE DI ROSENSTRASSE
Un percorso multimediale
Rosenstrasse è il nome di una strada di Berlino
dove, nel 1943,
centinaia di donne manifestarono protestando
contro la deportazione dei loro propri mariti,
contro la deportazione dei loro propri mariti,
riuscendo a farli liberare
Rosenstrasse è anche il titolo del film di
Margarethe von Trotta, che rievoca quei fatti attraverso la memoria di chi li
ha vissuti direttamente.
La Banalità del Bene: Rosenstrasse febbraio-marzo 1943
La Rosenstrasse
è una viuzza sparente, schiacciata tra i palazzoni che danno sulla Karl
Liebknecht Strasse, poco più di una scorciatoia per raggiungere Hackesher Markt
da Alex. C’è una atmosfera da “cortile sul retro”, uno di quegli spazi di
servizio dove non ti senti realmente autorizzato a stare e quindi ci passi in
fretta, quasi per non farti vedere. E di conseguenza non ti guardi intorno.
Quasi ci si dimentica che esista questa “via delle rose”. E se qualcuno vuole
cercare a Berlino luoghi dove si respiri forte il puzzo della rimozione
collettiva Rosenstrasse ne è un esempio eccellente. Perché, certo, ai tempi la
conformazione della città era ben diversa, i palazzoni anni ’60 non c’erano, né
svettava la Torre alla Tv che ruba tutti gli sguardi, né le lusinghe delle
boutique che aspettano in fondo alla via, ma qui, proprio su questa via, nel
febbraio e nel marzo 1943 si svolse l’unica protesta pubblica contro la
deportazione degli ebrei. Qui, nel 1943, si trovava l’ufficio amministrativo
della comunità ebraica di Berlino, e qui il 27 febbraio 1943
le SS rinchiusero un gruppo di uomini catturati sul posto di lavoro durante la
cosiddetta “Fabrik
Aktion”: i Nazisti avevano fino ad allora tollerato la presenza di
ebrei condannati ai lavori forzati nelle fabbriche di armamenti tedeschi, ma
già nel settembre 1942 Hitler aveva ordinato la loro eliminazione, li avrebbero
sostituiti altri prigionieri di guerra, razzialmente puri. Il 27 febbraio di 69
anni fa le SS portarono a termine quello che secondo loro sarebbe stato
l’ultimo definitivo carico di carne umana per i forni di Auschwitz. A Berlino
però un gruppo di ebrei venne separato dagli altri e rinchiuso a Rosenstrasse.
Erano ebrei imparentati con “ariani”. Ora, ci sono molte pagine di eminenti
storiografi che raccontano per bene come gli ordini di Eichmann e compagni
fossero eccezionalmente “clementi” nei confronti di queste persone e che nessun
nazista li avrebbe portati ai treni. Ma lasciamo da parte questa storiografia
ex-post e pensiamo alle persone che quel mattino del 27 febbraio ricevono la notizia
che i loro mariti, padri, figli (qualche figlia, qualche madre) erano
stati catturati sul posto di lavoro e portati a Rosenstrasse. Degli ordini
“clementi” di Eichmann non sanno niente. Sanno senz’altro che chi va a Est col
treno non torna più. Sanno benissimo che chi osa alzare la testa contro il
partito quella testa la perderà (la decapitazione era una delle pene più
scontate per i dissidenti politici). Hanno paura, non serve uno storiografo per
dirlo. Ma sono anche innamorate. Sono le mogli, le madri, le figlie di quei
prigionieri. Sono anni che resistono al loro fianco subendo ogni sorta di
ingiuria, violenze fisiche e verbali, perché loro, ariane, condividono il tetto
con un sub-umano. Hanno sempre saputo che potevano perderlo. Ma ora, quando la possibilità
diventa concretezza, cosa fare? Chissà quante volte ci hanno pensato, di giorno
e di notte, in quei due anni, vissuti sempre come se ogni giorno fosse
l’ultimo, l’ultimo non prima della morte, ma prima della deportazione, del
campo, del gas. Della morte amministrata burocraticamente ed efficientemente
dallo Stato sovrano.
A una a una,
come “galline spaventate” (dice una delle testimoni) cominciano a comparire
sulla Rosenstrasse: non si conoscono affatto, ma si prendono subito a braccetto
e cominciano a camminare insieme avanti e indietro, fissando quelle finestre
buie, quella porta chiusa. A volte una urla “ridatemi mio marito”, “ridatemi
mio figlio”. Ma soprattutto aspettano in silenzio, e sono sempre di più. Donne
(e qualche uomo) di ogni estrazione sociale, baronesse ed operaie,
intellettuali ed analfabete. Alla fine erano circa 6000. Non sollevano
striscioni, non espongono cartelli. La loro è non è una resistenza politica, ma
una resistenza del cuore. Non si sentono eroine, men che meno coraggiose: si
sentono mogli e madri e figlie normali che sono venute semplicemente a
riprendersi la loro famiglia. Sono terrorizzate dalle SS. Ma ancora di più
dall’idea di tornare a casa da sole.
Dopo due
settimane il portone di Rosenstrasse si apre e gli uomini che vi erano
rinchiusi vengono liberati (25 per errore erano già stati mandati ad Auschwitz,
ma in virtù del loro status particolare erano stati tenuti separati dagli altri
ebrei e poi rimandati sani e salvi a Berlino, purtroppo la precisione tedesca
funzionava benissimo anche al lager).
Nessuno saprà
mai se a salvarli fu la banalità del bene. Se fu il coraggio di quelle donne
tedesche che sfidavano la macchina omicida del partito. Gli storiografi dicono
che quegli uomini, essendo sposati o parenti di donne ariane sarebbero stati
comunque risparmiati ed erano trattenuti a Rosenstrasse solo per scegliere fra
loro nuove figure amministrative che avrebbero sostituito quelle che stavano
andando a morire ai campi. Sarà certo vero. Vero è anche però che le donne che
camminavano in silenzio, a braccetto, nella Rosenstrasse non vennero né fermate
né arrestate. Il partito, che stava subendo le conseguenze delle sconfitte
militari, era sempre più debole, ma proprio per questo aggressivo, come un cane
rabbioso. Per qualche giorno può sottovalutare la protesta di quelle “femmine”
(sappiamo che per i Nazisti le donne erano poco più che macchine – sforna –
soldati), ma nel tempo la loro resistenza – silenziosa e non violenta –
si fa intollerabile. Goebbels nei suoi diari la liquida con la parola
“spiacevole”. La soluzione più semplice, per evitare uno “spiacevole” contagio,
è senz’altro liberare i mariti, i padri, i figli. Eppure rimane il sospetto che
il bruto non lo si sconfigge con le botte e con le urla (che sono le sue armi
naturali) ma con il silenzio e la gentilezza del cuore. Se non altro le donne
di Rosenstrasse hanno dimostrato che il partito non aveva ancora lavato il
cervello di tutti i tedeschi.
Eppure la loro
resistenza è stata per molto tempo sottaciuta, relegata a uno degli episodi
minori della storia della seconda guerra mondiale. Forse perché gli ebrei che
vennero salvati erano solo pochi privilegiati e ben più tragica fu la sorte di
chi non aveva parenti ariani dietro cui proteggersi. Forse perché, come
suggerisce arguto Gad Beck, testimone diretto di quegli eventi, “nessuno si è
occupato di quella vicenda perché la stessa possibilità di una protesta avrebbe
finito per privare i tedeschi della loro pace interiore”. Forse non era vero
che protestare non era possibile. Forse era solo pericoloso, scomodo, “non –
preferibile”.
Oggi a ricordare
gli eventi di quei giorni rimangono un pilastro rosa – del tutto simile a
quelli per le affissioni teatrali/cinematografiche/pubblicitarie – che segna il
luogo fisico dove si trovava l’edificio utilizzato come prigione temporanea
dalle SS. E una scultura, un po’ lugubre a dire il vero, che Honecker fece
collocare in un parchetto da lì poco distante. La scultrice, Ingeborg Hunziger,
ci presenta il “Blocco delle Donne” con toni marziali, volti guerreschi, corpi
massicci, perché, ancora una volta, non è semplice ammettere che delle “galline
spaventate” riuscirono a strappare una piccola vittoria contro il Reich. Dietro
però una incisione: “la forza della disobbedienza civile, il vigore dell’amore
sconfigge la violenza della dittatura”.
In occasione dei
69 anni dagli eventi di Rosenstrasse, domani, 28 febbraio 2012, a partire dalle
17:00, si svolgeranno presso il “Blocco delle Donne” e il Museo “Blinderwerkstatt Otto
Weidt” cerimonie di ricordo, con canti, preghiere e testimonianze
dirette di chi vide – con i suoi occhi di bambino – le donne di Rosenstrasse. Perché
le rimozioni non fanno quasi mai bene. E prima o poi vanno curate. Che
significa, letteralmente, prestarci un po’ più di attenzione. Perché chi “se ne
frega” alla fine non vince mai.
Da
FilmUp
Valerio Salvi
Rosenstrasse, il nome della via in cui nel '43, quando le sorti della guerra erano ormai segnate, furono rinchiusi centinaia di ebrei provenienti dai matrimoni misti con ariani.
Di fronte all'edificio, trasformato in prigione, i loro coniugi hanno dimostrato finché non sono riusciti ad ottenere la scarcerazione dei loro cari, o almeno dei sopravvissuti (incredibile!).
Per rivivere questa drammatica pagina della storia,
la regista, ci presenta Ruth Weinstein (Jutta Lampe) ormai settantenne che a
New York, dove si è trasferita al termine della guerra, ha appena seppellito il
marito. L'evento la riavvicina in maniera traumatica alla sua religione e per
prima cosa decide di opporsi alle nozze della figlia, Hannah (Maria Schrader),
con un uomo di religione non ebraica.
Questo improvviso cambiamento della madre preoccupa
Hannah che inizia ad indagare sul suo passato scoprendo come la nonna fosse
stata una delle vittime della Rosenstrasse e di come sua madre fosse stata
adottata da Lena (Katja Riemann) una delle tante anime disperate che lottava
per la liberazione del marito.
Lena, di estrazione nobiliare, vive con ancor
maggior orrore gli eventi del nazismo. Ripudiata dal padre, fervente
portabandiera degli ideali del Fuehrer, allontanata da una società che fino a pochi
anni prima l'aveva idolatrata come una delle più promettenti pianiste della
Germania, si trova a patire la fame e le umiliazioni di migliaia di altri
disperati.
'Rosenstrasse', le donne di Margarethe Von Trotta contro il nazismo
Margarethe Von Trotta, la storia
vista dalle donne
Il film racconta come l'eroismo femminile ha salvato il mondo.
L'uscita nelle sale è fissata per il 27 gennaio, giorno dedicato alla memoria
della Shoah. Parla la regista
Berlino 1943: un centinaio di
donne tedesche, pure ariane, staziona silenziosa davanti un palazzo della
Rosenstrasse, dove i loro mariti ebrei sono in attesa di essere deportati nei
campi di concentramento.
Urlano 'voglio
mio marito' e non smettono mai di protestare con la loro minacciosa presenza.
Alla fine, arriva il miracolo: gli ebrei vengono liberati.
Questo episodio
di piccola resistenza tedesca al nazismo, è lo spunto di 'Rosenstrasse' di
Margarethe Von Trotta, in concorso lo scorso anno a Venezia '60 dove una delle
protagoniste, Katja Riemann, si è aggiudicata la Coppa Volpi come miglior
attrice.
Von Trotta:
''Fare questo film non e' stato facile: volevano solo commedie''
"Di quello
che è successo a Rosenstrasse me ne parlò per primo mio marito Volker
Schlondorff molti anni fa dicendomi che era un soggetto adatto a me - spiega la
regista a Roma per presentare il film -, poi c'è stato un documentario in tv su
questo tema. Ma riuscire a fare il film non è stato facile perchè in Germania
quando l'ho proposto, negli anni Novanta, volevano solo commedie".
" 'Rosenstrasse'
- racconta la regista - parla di una storia dimenticata, che nessuno conosceva.
Per questo ho pensato di tirarla fuori dagli archivi storici. Mi è piaciuto
raccontare il coraggio di un gruppo di donne che con le loro proteste hanno
salvato i loro uomini".
" Erano
donne cosidette ariane che avevano sposato uomini ebrei. Il film racconta di
una sorta di "miracolo nazista"
" Nei
giorni dell'ultima razzia - spiega la Von Trotta -, nel febbraio del '43, anche
questi uomini - che fino ad allora erano rimasti sotto protezione per essere
sposati con donne non ebree - sono stati portati nell'edificio di Rosenstrasse
e avevano paura di essere deportati. Le loro donne, una a una, sono andate
sotto le finestre di quell'edificio, prima in silenzio, poi hanno cominciato a
gridare: Io rivoglio il mio uomo".
"E ogni
giorno che passava aumentavano. E con loro il resto della famiglia. A quel
punto Gobbels, che era uno molto intelligente, ministro anche della propaganda,
ha pensato che potesse essere uno scandalo e ha liberato tutti quegli
uomini".
Come hanno
reagito al film in Germania?
"Anche
quelli che vivono a Berlino, dove esiste una lapide dedicata a Rosenstrasse,
non sapevano di questa storia. Anche perché la strada dov'è l'edificio è fuori
dal traffico generale. La reazione vera in Germania non la conosco, ma al
botteghino il film è andato molto bene. La gente ha accettato di vedere questo
film, anche gli intellettuali più scettici. Uno storico ha provato a dire che
era tutto falso, ma evidentemente non ha capito nulla".
"Mio figlio
ha partecipato alle ricerche storiche ma anche altri hanno confermato che è
tutto vero. Il coraggio delle donne ha liberato quegli uomini. Questo era il
punto di partenza per fare questo film. Perché dopo la guerra nessuno ha portuto
fare film così pericolosi. Dopo un lungo tempo di rimozione, i tedeschi hano
accettato di essere colpevoli".
"Sapere che
il film esce in Italia nel giorno della memoria - conclude la regista - è
un'ottima scelta. Mi sarebbe piaciuto che uscisse quel giorno anche in
Germania, ma lì è uscito dopo Venezia. Anche se per me il giorno della memoria
è sempre un po' complicato, perché ogni giorno è un giorno della memoria".
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