Nei quattro giovedì dal 9 al 30 maggio il Centro di studi ebraici
dell’Università “L’Orientale” di Napoli organizza la consueta rassegna di
cinema israeliano.
Le proiezioni in lingua originale con sottotitoli in inglese saranno
alle 14,30 presso l’aula 5.1 di Palazzo Mediterraneo, via Nuova Marina 59,
Napoli.
È un vero piacere (con anche un pizzico di “orgoglio meridionale”)
vedere quante iniziative e di che livello vengano organizzate da questo Centro
studi, sicuramente uno dei più attivi in Italia.
Quattro
madri è il titolo
di un romanzo di Shifra Horn (Arba
imahot, tradotto
in italiano da Sarah Kaminski per Fazi Editore, 2000) che narra la storia di
quattro generazioni di donne sullo sfondo di un secolo di storia di Gerusalemme.
E
Quattro madri sono anche le protagoniste di una
rassegna che, per il quarto anno consecutivo, porta all’Università L’Orientale
di Napoli una serie di film israeliani non distribuiti in Italia.
La
rappresentazione di quattro diverse figure di madri - lontane per epoca, origine,
condizione sociale e carattere - offre uno sguardo inedito sulla società
israeliana nel corso di mezzo secolo, dagli anni immediatamente successivi all’Indipendenza
fino agli anni Zero.
Henya (Gila
Almagor) proviene da “là”, il vecchio, innominabile mondo est-europeo di cui le
rimangono un numero tatuato sull’avambraccio, una serie di disturbi mentali e
una figlia di dieci anni, Aviya (Kaipu Cohen).
Con la stessa forza e determinazione
che avevano fatto di lei un’eroina della Resistenza polacca, Henya “la
partizanke” combatte la sua lotta di madre single in una terra dura, in una
delle città di sviluppo costruite negli anni ’50 nelle aree meno popolate di
Israele; combatte con vicini ostili o indifferenti, ma soprattutto combatte con
sé stessa nel tentativo di sopravvivere psicologicamente alla Shoah,
aggrappandosi a un’ossessione per la pulizia e a un atroce rituale quotidiano: ascoltare
i nomi di sopravvissuti che la radio ogni giorno elenca come i vincitori di una
lotteria della vita.
Perché il suo equilibrio vacilli, basta
poco: le note di un valzer e il suono dello yiddish, la lingua ostinatamente
sepolta assieme a una memoria che, tra vecchie fotografie e fantasmi più o meno
reali, inevitabilmente riaffiora.
La straziante storia della piccola Aviya,
condensata in un’estate che fa di lei un’adulta prima del tempo, non è altro
che la vera storia dell’infanzia di Gila Almagor, raccontata negli anni ’80 in
un libro autobiografico e portata a teatro con un monologo su cui si basa L’estate di Aviya (1988), il
film in cui l’attrice presta voce e corpo al ricordo di sua madre.
Miri (Ronit
Yudkevitz) è una donna fragile, membro di un kibbutz negli anni ’70 e madre
single di due ragazzi, entrambi a un passaggio cruciale della crescita: l’anno
del bar mitzva per il minore e la chiamata al servizio militare per il maggiore.
Protagonista in quasi ogni scena è Dvir
(Tomer Steinhof), il figlio minore, un dodicenne che ha perso il padre in
quello che viene chiamato pudicamente “un incidente” e tenta invano di mantenere
un rapporto sano con una madre mentalmente instabile.
Il mondo intorno a loro gioca il ruolo
di ingombrante antagonista in questa storia di una famiglia allo sbando:
istituzione tipicamente e profondamente israeliana, il kibbutz è un modello di
società utopica fondata su ideali socialisti e collettivisti, un mondo
apparentemente ideale, che tuttavia in Terra
pazza (2006) viene demolito scena dopo scena.
La microsocietà in cui il piccolo Dvir
cerca il proprio posto è contagiata dalla stessa ipocrisia e dalle stesse
rivalità del mondo di fuori, in aggiunta ai meccanismi schiaccianti di una
comunità chiusa che richiede totale dedizione rifiutandosi di ascoltare le
grida di aiuto del singolo.
Il mondo in cui Miri si aggira sola e
alienata è un mondo in cui l’amore viene rimesso ai voti di una decisione
collettiva; è un mondo in cui l’accusa di non contribuire al bene comune, di
non essere parte integrante e integrata della collettività, ha il peso di una
condanna che si esprime nell’abbandono, sinonimo di un’incapacità di affrontare
la fragilità dell’individuo e la complessità dei rapporti.
Aviva (Assi Levy)
è decisamente una donna forte: i figli adolescenti, il marito disoccupato, la
sorella in crisi matrimoniale, la vecchia e problematica madre, tutti, chi in
un modo chi nell’altro, si appoggiano a lei; e lei fa da madre a tutti,
cercando di mantenere dignità e ordine in una famiglia povera e complicata
della Tiberiade di oggi.
Cuoca in un hotel, non trascura la sua
grande e insopprimibile passione: pur non avendo a disposizione nulla di simile
a “una stanza tutta per sé”, riesce ogni sera a ritagliarsi un momento da
consacrare interamente alla scrittura.
Quando i suoi racconti arrivano sulla
scrivania di un famoso scrittore di Tel Aviv, la vita sembra finalmente
offrirle una svolta; ma colui che potrebbe aiutarla, e che dovrebbe ammettere
di non aver nulla da aggiungere al suo talento di autrice, si rivela un’ennesima
figura bisognosa.
Anche lo scrittore famoso, come tutti
gli altri, ha bisogno dell’aiuto di Aviva; ma, a differenza di degli altri, si
offre di comprarlo.
Aviva
amore mio (2007) è un film centrato sulla figura
di una madre che resta tale anche quando è sorella, figlia o moglie; mossa dall’amore
per la sua famiglia e da un naturale, spontaneo senso di responsabilità, Aviva
esercita sempre un sereno controllo sul caos intorno a lei, mentre lotta per
emergere senza mai lasciarsi ossessionare da una smania di successo.
Il suo controllo e la sua calma
determinazione sembrano cedere soltanto quando viene meno la fiducia nelle persone
che la circondano; e lei, forse per la prima volta, si ritrova da sola a
interrogasi sul senso del suo ruolo nella famiglia.
La seconda Miri (Mili
Avital) vive ai nostri giorni; è una hostess di 37 anni, è due volte vedova di
guerra e vive con la sorella Gila (Anat Waxman), appena separata dal marito.
Da un giorno all’altro, nella sua
quieta esistenza irrompe una figura inattesa: un bambino cinese la cui madre,
domestica di Miri, è stata espulsa all’improvviso dal Paese; col bambino non c’è
modo di comunicare, neppure per sapere il suo nome, e così viene chiamato
Noodle.
Un po’ alla volta, questa entità aliena
piombata all’improvviso nella vita delle due sorelle diventa non solo un essere
da amare, ma una sorta di catalizzatore per la soluzione dei problemi intorno a
lui; svegliatasi dal letargo dei suoi lutti, Miri è ora disposta a correre dei
rischi, assieme ai suoi colleghi, per una missione: riunire il bambino a sua
madre.
Con umorismo delicato, questa deliziosa
e toccante commedia affronta il tema dell’immigrazione di lavoratori asiatici in
Israele, e lo fa mettendo in scena un piccolo incontro di culture che riescono
a comunicare solo attraverso il codice condiviso delle emozioni.
Ma Noodle (2007) è
anche un film sull’amore e sul rapporto tra un figlio e le sue madri; attraverso
una storia singolare, descrive la forza di un legame universale e la guarigione
di una donna che, dedicandosi a un piccolo estraneo piombato per caso nella sua
vita, si accorge all’improvviso di aver recuperato la capacità di amare.
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