Riproduco l'articolo di rav
Pierpaolo Pinchas Punturello, pubblicato su Roma Ebraica,
il sito della Comunità
ebraica di Roma: emozionanti testimonianze di anusim, che attraverso il tempo,
le generazioni e le migrazioni hanno ricevuto e conservato la fede che i padri
hanno loro trasmesso, fino al ritorno a casa, in senso geografico e spirituale.
La testimonianza di tanti tornati all’Ebraismo, sotto la guida di rav Birnbaum e di Michael Freund di Shavè Israel
“Isabella di
Castiglia sei stata sconfitta”. Questo pensiero mi è tornato più volta in mente
mentre incontravo, nei corridoi dell’Ulpan
ghiur per gli studenti di lingua spagnola, alcune delle persone che ho
intervistato.
I protagonisti di
queste interviste sono i discendenti dell’Ebraismo sefardita: 600 anni di
fughe, di nascondigli, di tradizioni sussurrate di generazione in generazione.
Sono i nipoti
degli anusim, i “costretti”, che sono tornati all’Ebraismo in Israele. Non ho
fatto domande, mi sono seduto ad ascoltare, come fossi in uno dei porti del
mediterraneo che, dopo il luglio del 1492, ha accolto i profughi ebrei spagnoli in
fuga dalla reyna Isabella.
La prima a
parlare è Batya. “Sono nata a Valencia,
ho sempre cercato la spiritualità e venendo da una famiglia non cristiana dove
non si andava mai in Chiesa, cercando Dio, ho cominciato ad andarci io da sola
all’età di sette anni. A diciotto anni ho incontrato mio marito Yosef ed
abbiamo cominciato a studiare insieme attraverso Internet che ha aperto per noi
una finestra sul mondo ebraico. L’ebraismo era per noi il luogo dell’essenza di
tutto e studiando ho cominciato a comprendere tutte le tradizioni della mia
famiglia: le candele di shabbat,
la separazione dei cibi a base di carne e latte, la famiglia che si riuniva il
Sabato e non la Domenica e mia nonna con le sue manie di pulizie della casa di
Venerdì! A Valencia esiste una comunità ed è ortodossa ma non era pronta a
comprendere nè i gherim né la nostra osservanza, mentre la nostra famiglia di
origine ci ha molto aiutato. Ad un certo punto abbiamo deciso di partire per
Israele e di vivere in Gerusalemme: i primi tempi abbiamo abitato in una casa
di 20 metri
quadrati in quattro, con il permesso turistico. Abbiamo
cominciato a chiedere alle persone di lingua spagnola che incontravamo a chi
rivolgerci per il ghiur e tutti ci indirizzavano dalla rabbanit Renana
Birnbaum, a Shavè Israel, le organizzazioni ortodosse che si occupano del
ritorno degli ebrei lontani e dei discendenti di anusim in qualunque parte del
mondo: dal Sud America all’India. I primi tempi sono stati difficili ma anche
pieni di miracoli quotidiani come quella volta che un meccanico di origine
turca che parlava ladino ci ha aiutato ad iscrivere i ragazzi a scuola senza
nemmeno chiedere se eravamo ebrei ! Siamo arrivati da Renana, ma non avevamo un
rabbino di origine e quindi era difficile entrare nel programma di studio e
conversione. Nonostante tutto questo Renana ci ha aiutato: abbiamo iniziato a
studiare nel novembre 2008 e ci aspettavano in teoria solo tre mesi di studio
per poter anche risolvere la nostra situazione con il visto turistico: eravamo
illegali nel paese e quindi senza lavoro e copertura sanitaria. Solo dopo nove
mesi ricevemmo una autorizzazione dalla Rabbanut a studiare e che quindi tutto
l’anno di studio già trascorso era nullo Renana ci disse: “Mi imbarazzo ma devo
dirti che dovrete studiare ancora un anno. Sarà difficile ma ce la faremo.”
Decidemmo di rimanere: non avevamo altra vita se non questa, anche se avevamo
in Spagna casa, soldi e famiglia. Israele era la nostra realtà, l’ebraismo la
nostra vita. Per mantenerci abbiamo fatto tanti lavori: pulizia nelle case,
camerieri. Sono stata invitata anche a parlare davanti ad una commissione della
Knesset che si occupa dei problemi burocratici degli anusim, ho recitato loro
questa poesia: “Dicono che l’amore è forte ed anche molto paziente, io posso testimoniarlo.
Hanno provato a cancellare il mio nome, mi hanno rubato molte cose, però quello
che non sapevano e che l’anima ha memoria e non ha smesso di gridare dicendomi:
“Tu sei ebrea e mai lo dimenticherai finchè sei in vita”. Senza paura e
vergogna essere ebrea è la mia gioia, la gioia dei miei antenati senza
nascondersi più, nè bugie. Nella mia terra mi sono ritrovata, mi sono connessa
alla mia vita, al mio passato, al mio presente fino alla fine dei miei giorni.”
Ghila ed Ariel sono invece
due distinti nonni colombiani di nipoti ebrei israeliani e la loro storia si
perde nella memoria delle navi che scappando dopo Colombo hanno provato a
portare gli anusim lontano dai roghi.
Dona Gracia Nasì, da un sito a lei dedicato
“Sono nata in
Colombia, a Chocontà, un villaggio non lontano da Bogotà, luogo di reale
presenza di anusim. In casa si accendavano le candele al venerdì al tramonto,
non si mischiava la carne con il latte ed io vivevo tutti questi rituali
familiari come realtà quotidiana e non come elemento distintivo. Mia madre e
mia nonna ci raccontavano da bambini le storie della Torà e le altre famiglie
amiche della mia erano i Castro ed i Costa e con loro ci vedevamo per Shabbat.
Da ragazza lasciai il mio villaggio per andare a studiare a Bogotà, lì
incontrai mio marito e quando decisi di portarlo a casa per presentarlo ai miei
genitori mio padre oppose un netto rifiuto. Non mi arresi, sapevo che a mio
padre lui sarebbe piaciuto e quando finalmente andammo a pranzo dai miei, mio
padre, osservando come lui si lavava le mani, come lui pregava prima di
mangiare capì quello che io già sapevo e disse: “Credo proprio che con lui ci
intenderemo”. Avevamo la stessa origine spagnola e marrana. Ci sposammo avemmo
una figlia, Rosita, e lei da piccolissima cominciò ad interessarsi all’ebraismo
e fare domande sugli usi di famiglia: perchè per il lutto siamo seduti su
sgabelli bassi? Perchè le candele accese il venerdì sera? Quando era al liceo
mia figlia scrisse un articolo di argomento ebraico sul giornale della scuola
persino El Tiempo, il principale giornale di Bogotà ne parlò. Mio cognato, che
era un magistrato chiamò Rosita nel suo ufficio e le disse: “Hai ragione, noi
siamo ebrei.” Fu una conferma per la sua vita: tutti gli amici di Rosita erano
ebrei ed allora lei decise di partire per Israele e di andare a vivere ad Efrat
do ve fu accolta da molti rabbini di lingua spagnola. Mio figlio Itamar dopo un
po’ ha raggiunto la sorella per seguire anche lui un percorso di ghiur ed ha
anche servito l’esercito dell’Onu sul Sinai. Noi volevamo raggiungere presto i nostri
figli ma non sapevamo come: mia madre sapeva che lei non sarebbe mai potuta
venire in Israele però pregava che qualcuno di noi potesse farlo ed io sono
stata la fortunata che ha compiuto questo passo. La mia famiglia prima di
arrivare in Colombia ha viaggiato tanto cercando un rifugio: siamo originari di
Avila, in Spagna, siamo scappati ovunque, anche a Venezia come Dona GraciaNasi, ma solo in Israele sono davvero a casa.”
“Anche io sono di
origine spagnola”, mi dice Ariel. “Mi chiamo Ardilla, noi siamo della
regione occidentale della Spagna di un villaggio che si chiama Badajos al
confine con il Portogallo dove si trova un fiume che si Ardilla ed un altro
villaggio di Ardilla. In Colombia siamo andati a vivere in un posto di montagna
che si chiama Sapatoca, poi ci siamo avvicinati con i secoli alla capitale,
Bogotà: ai tempi della Inqusizione per quelli come noi era più sicuro vivere
lontani dalle città. Siamo sempre stati contadini: in casa nostra eravamo nove
figli e tutti i maschi hanno avuto il brit milà. Le nostre terre riposavano
ogni sette anni, non mietevamo l’angolo del campo e toglievamo la decima dai
prodotti della terra. Da bambino ho imparato a suonare lo shofar che usavamo
come richiamo tra i campi. Tutto questo per me era normale, come i matrimoni
tra cugini, tra parenti: mio padre e suo fratello avevano, infatti, sposato due
sorelle di una famiglia con usi uguali ai nostri. La mia famiglia ha sempre
abitato in villaggi che avevano il giorno di mercato la Domenica o il Lunedì,
mai ovviamente di Sabato. Quando mia figlia ha aperto gli occhi con
consapevolezza sul mondo ebraico per me è stata una gioia: finalmente sapevamo
chi eravamo e cosa volevamo essere in futuro e studiando di fatto ci
connettiamo alla ragione del nostro essere. Qui stiamo ritrovando la nostra
identità piena, in casa nostra infatti le feste sopravvissute erano solo
Shabbat, Shavuot e Pesach, quando preparavamo il pane solo con il mais e senza
lievito. Riuscivamo a calcolare anche il giorno di Kippur guardando la luna: essendo
contadini conoscevamo tutte le sue fasi.”
Batya ha aggiunto
un racconto finale che esprime al meglio la forza identitaria degli anusim:
“Un’aquila depone
uova in molti posti del mondo lasciandoli abbandonati. Altre aquile li prendono
e decidono che sono le loro uova. I pulcini crescono nell’uovo come figli delle
aquile adottive, solo dopo che hanno rotto il guscio si rendono conto di essere
figli di un’altra aquila ed in quel momento quella stessa aquila vola sopra di
loro e loro la riconoscono. A qual punto la scelta dei pulcini è di abbandonare
il nido sicuro per seguire il nido insicuro della propria vera identità. Non è
stato facile, ma lo abbiamo fatto abbiamo seguito: le ali della aquila madre e
siamo tornati a casa.” E vi ho portato su ali d’aquile. (Shemot 19,4).
Questo versetto
mai prima del racconto di Batya mi è sembrato così vero.
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