Minoranze etniche nella Calabria medievale
Appunti di Francesco A. Cuteri
Già
tempo fa avevo pubblicato un articolo di Francesco Cuteri dallo stesso titolo, ora lo ripubblico (per la sola parte riguardante gli ebrei) con gli ampiamenti e
le modifiche che l’autore ha fatto per il sito del Ministero dei beniculturali.
Resta
(credo sia un problema di redazione) la confusione tra il Roscianum e il
commento alla Torah di Rashì.
Messina: iscrizione del 1454 che ricorda una donazione annuale perpetua
di olio
di Mesiano(antica località del Vibonese)
a favore della Sinagoga di Taormina
Se la
presenza araba compare nel panorama calabrese all’esordio dell’altomedioevo e
quella arbërëshe alla fine del Medioevo, ben più antica e radicata si mostra
quella ebraica.
A ripensare,
anche per uno solo istante, allo stato d’animo in cui si dovettero trovare gli
Ebrei nel momento in cui in tutto il Viceregno, di paese in paese e di contrada
in contrada, si diffuse la notizia della loro imminente espulsione, non si può
che provare un senso di disorientamento, di paura e disperazione.
Era il 1541
e, per volere di Carlo V s’interrompeva, d’autorità e seppur senza altre
pretese, come era successo in Sicilia al tempo di Ferdinando il Cattolico
quando gli Ebrei furono costretti a pagare pesanti tributi, una storia più che
millenaria che aveva avuto inizio con le prime frequentazioni giudaiche,
soprattutto nell’area di Reggio, tra l’età romana e la tarda antichità.
Di questa
lunga presenza si conservano ancora oggi in Calabria poche ma importanti
testimonianze.
Infatti,
oltre a quanto lentamente sta emergendo attraverso l’analisi, ad opera di
specialisti del settore, della documentazione archivistica e archeologica,
alcuni toponimi che, se compiutamente analizzati e spiegati, potranno aprire
importanti spiragli su questa significativa pagina della nostra storia: Judeca, Judea, Giudecca, Iudeo, etc.
Le
testimonianze archeologiche riguardanti la presenza ebraica in Calabria fra
Tarda Antichità e Proto Medioevo son divenute, negli anni a noi più vicini,
numericamente più consistenti. Ciò per il fatto che la ricerca ha toccato
ambiti culturali e cronologici prima scarsamente investigati. Tuttavia,
nonostante il progredire delle ricerche archeologiche, anche nel caso di Vibo,
così come per molti antichi centri calabresi, non si è in grado di definire
l’origine degli stanziamenti giudaici e la strutturazione delle comunità nelle
più antiche fasi di vita, sebbene nella nostra regione l’insediamento delle
collettività ebraiche è stato messo in relazione con il riordino delle
manifatture imperiali della provincia. Tale assenza di indicazioni precise non
deve eccessivamente sorprendere.
Del resto,
per cogliere le reali diffcoltà della ricerca, basti pensare che in riferimento
alla comunità giudaica di Reggio, probabilmente la più antica e la più
popolosa, le testimonianze materiali relative alle prime fasi di vita si
riducono ad un piccolo frammento marmoreo, recuperato fuori contesto dopo il
terremoto del 1908 e con la scritta in greco: (t)on Iudaion, «sinagoga dei Giudei»
I vecchi
ritrovamenti, quello della lucerna di Lazzaro di tipo africano, datata al V
secolo e decorata con la menorah ebraica, e le più recenti acquisizioni, quali
quella di Bova Marina, consentono in ogni caso di sottolineare che, nella tarda
antichità, la presenza ebraica era principalmente raggruppata nelle stationes, ed in particolare in quelle
presenti lungo la via jonica e nei centri portuali; in zone, dunque, dotate di
una maggiore stabilità insediativa e fortemente legate alla produzione, al commercio
e, più in generale, alla circolazione di uomini e merci.
Vibo Valentia:
ansa con impressa la menorah ebraica
Qualche anno
fa, studiando le produzioni ceramiche di età medievale di Vibo Valentia ho
potuto recuperare, nei magazzini del Museo Archeologico, due anse frammentarie
recanti impresse la menorah ebraica. Del ritrovamento si è data sommaria
notizia nel convegno sulle ceramiche tardo-antiche tenutosi in Provenza nel
2005 ipotizzando che nell’area di rinvenimento, via XXV Aprile, potesse essere localizzato
l’insediamento degli ebrei di Vibo in età tardo-antica, senza approfondire
l’eventuale grado di mescolanze, in ambito urbano, fra le diverse etnie.
I bolli con
la menorah sono presenti su due anse appartenenti a recipienti forse di diversa
forma e provenienza. Infatti, se in un caso appare certo il rimando alla nota
produzione di anfore del Bruzio classificata come Keay LII, nell’altro, per la
maggiore irregolarità dell’impasto, che ricorda altre produzioni definite
“vibonesi”, si è pensato che l’ansa potesse appartenere ad una piccola anfora o
brocca in ceramica comune di produzione locale. Tuttavia, visto che, come è
stato più volte annotato dagli esperti del settore, le Keay LII sono spesso caratterizzate
da un’esecuzione non molto accurata e dalla presenza di molte varianti, non si
può del tutto escludere che anche questo esemplare sia da riferire alla stessa
tipologia di anfore. Anche la qualità dei bolli appare di poco differente, e
ciò può essere solo in parte imputato al diverso stato di conservazione dei
reperti ed alla diversa qualità dell’argilla utilizzata. Nel caso della prima
ansa, accanto al bollo, è presente un segno circolare ottenuto mediante una leggera
pressione del polpastrello. Il bollo è caratterizzato da un cartiglio
quadrangolare al cui interno troviamo la menorah rappresentata, secondo
l’iconografia più tradizionale, con le braccia ricurve. Le caratteristiche del bollo
non permettono, per la forma del candelabro e del cartiglio, di associarlo agli
altri noti in Calabria, anche se le braccia ricurve sono presenti nel più
schematico bollo ellittico rinvenuto a Bova. Nella seconda ansa il bollo è
caratterizzato da un cartiglio grosso modo circolare e le braccia del
candelabro si dispongono quasi a formare angoli retti. In questo caso il
candelabro appare realizzato in maniera poco più sommaria e nell’insieme
ricorda i bolli presenti sulle due opposte anse dell’anfora Keay LII rinvenuta
nel teatro romano di Scolacium a Roccelletta di Borgia ed il bollo rinvenuto a
Roma.
L’uso di
marchiare i vasi con il simbolo ebraico sembra essere una peculiarità quasi
esclusiva della terra dei Bruttii e al momento, se escludiamo le segnalazioni
di Arthur e Colicelli relative a Roma, non conosco altre zone di rinvenimento
di tali bolli fuori dalla Calabria. La presenza nell’Urbe di questi e di altri
manufatti provenienti dalla Calabria evidenzia, in ogni caso, gli stretti
rapporti esistenti, grazie anche alla presenza nella regione dei ricchi
patrimoni ecclesiastici, tra i mercati di Roma e quelli calabresi. Più nello
specifico lascia intravedere il ruolo svolto dalle comunità calabresi nella
fornitura di vino alle comunità ebraiche romane.
Le ricerche
archeologiche condotte tra il 1983 ed il 1987 nell’area di San Pasquale, a Bova
Marina, si sono rivelate di straordinario interesse grazie al rinvenimento di
una sinagoga di età tardo imperiale. L’insediamento in origine era una villa e
nel tempo svolse anche la funzione di statio, tant’è che la località potrebbe
essere identificata con l’antico insediamento di Scyle. Nell’articolato
complesso della sinagoga sono state identificate due fasi edilizie. La
costruzione del complesso è stata riferita al pieno IV secolo, quando una
comunità ebraica si stabilì ai margini di una villa sorta nel II secolo.
Le
dimensioni e l’articolazione della sinagoga dimostrano che fin dalle origini la
comunità ebraica dovette essere numerosa. Il primo nucleo è caratterizzato
dalla presenza di un edificio monumentale i cui ambienti principali si trovano
inscritti in un quadrato quasi regolare dai lati pari a metri 13, 50 per 14, 50.
Le strutture sono orientate 18° a est, in modo da disporre verso Gerusalemme
l’aula della preghiera. Il nucleo principale della sinagoga è suddiviso in
cinque vani organizzati tra loro in rapporto gerarchico. I tre vani comunicanti
posti a sud sono stati interpretati come la sede della scuola o come ambienti
in cui, in occasione di alcune festività, venivano consumavano i pasti in
comune. Adiacente a questi, lungo il lato nord, troviamo un grande ambiente
aperto affiancato ad oriente dall’aula della preghiera. Questa era pavimentata
con un mosaico organizzato in sedici riquadri e oltre al motivo del “nodo di
Salomone” troviamo rappresentato il candelabro ebraico (menorah) con sette
bracci costituiti da melograni inseriti in un ramo che si dipartono dallo stelo
centrale; alla sommità troviamo lucerne accese. Ai lati del candelabro sono
posti, a destra, il ramo di palme (lulav)
con il cedro (ethrog) e a sinistra il
corno (shofar).
La prima
fase di vita della sinagoga durò fino agli inizi del VI secolo, quando il
complesso subì una importante trasformazione planimetrica con l’abbattimento di
tutte le strutture poste a sud delle due grandi aule quadrate, che rimasero
invece in uso per motivi cultuali.
E’ evidente
che con questa ristrutturazione si intendeva distinguere nettamente il nucleo
principale della sinagoga, ora più articolato dal punto di vista planimetrico e
di tipo basilicale, dagli altri ambienti destinati a funzioni diverse e
accessorie. L’aula della preghiera subì importanti modifiche, con un
prolungamento verso sud della parte di ingresso laterale e la realizzazione, in
un ambiente stretto e allungato, di due piccoli vani quadrati. Quello più
meridionale venne utilizzato come deposito di anfore e al suo interno, nel
corso dello scavo, furono trovati moltissimi frammenti di anfore Keay LII. Altri
frammenti della stessa tipologia recanti impresso il bollo raffigurante il
candelabro ebraico furono trovati in altri settori di scavo. Un’altra
importante modifica della sinagoga portò alla monumentalizzazione del prospetto
orientale. Infatti, al centro di questa parete e in asse con l’ingresso
principale posto ad occidente, venne costruita una piccola abside semicircolare
destinata probabilmente a contenere i rotoli della Torah. Nell’angolo est
dell’aula venne posto, con un parziale interramento, un grande dolio usato come
contenitore dei sacri arredi (genizah), mentre la pavimentazione a mosaico
venne integrata riprendendo il motivo del nodo di Salomone.
La sinagoga
subì una distruzione violenta tra il VI ed il VII secolo e successivamente
l’area risultò del tutto abbandonata. Di questa distruzione rimangono
testimonianze nel parziale danneggiamento del dolio posto nell’aula della
preghiera, dalle tante tracce di incendio rinvenute in più parti e dal recupero,
all’interno del grande ambiente-atrio, di una brocca in ceramica acroma
contenente un ripostiglio composto da 3079 monete in bronzo. Tali monete sono
state interpretate come la raccolta delle elemosine utili alle opere di carità
o da inviare al Tempio di Gerusalemme. Tuttavia, vista la presenza del
tesoretto in un ambiente utilizzato anche per la conservazione delle derrate
alimentari, non è da escludere che le monete siano da riferire ad un ambito più
strettamente commerciale.
Per quel che
riguarda l’età medievale, se si esclude quanto riportato da una cronaca, forse
composta a Cassano Jonio, che ricorda la forzata conversione al cristianesimo
dei giudei presenti nei territori bizantini dell’Italia meridionale in seguito
alla campagne di proselitismo promossa nell’874 da Basilio il Macedone, ben
poco conosciamo della storia degli Ebrei in Calabria fra la tarda antichità ed
il X secolo.
Parigi: la Fisica di Aristotele ricopiata a Crotone nel 1472
da Salomone Ben Isacco Laban
A partire da
quest’ultimo periodo, invece, quella dei giudei appare come una realtà ben
integrata nel contesto storico-culturale regionale e il sentimento di
antisemitismo spesse volte richiamato appare, come ha precisato Cesare
Colafemmina, eminente studiose delle realtà ebraiche dell’Italia meridionale,
“più un prodotto di cultura ecclesiastica che un fatto spontaneo”. E’ noto,
infatti, che in Calabria l’avversione nei confronti dei giudei era sostanzialmente
alimentata dalla tradizione teologica bizantina e lo stesso San Nilo riteneva,
in merito a questioni di giustizia, che ci sarebbero voluti sette ebrei per
eguagliare un cristiano; gli Ebrei, inoltre, erano considerati “miserabili”,
senza religione” e “uccisori di Dio”.
I primi dati
sulla presenza ebraica nel X secolo di cui disponiamo sono relativi alla città
di Rossano e, nello specifico, si riferiscono a Donnolo Shabbetai, medico
nativo di Oria, in Puglia, considerato una delle più grandi e ricche
personalità del mondo giudeo-bizantino del tempo. A lui si deve la composizione,
nel 970, del Libro delle Misture (Sefer Mirqahot), il più antico trattato di
medicina dell’Occidente medievale, dove è anche documentata la particolare
bontà del miele calabrese prodotto a Mirto.
Altre
notizie sugli ebrei di Calabria compaiono nell’XI secolo quando viene
ricordato, in una raccolta di poesie del poeta ebreo Anatoli di Marsiglia,
Mosè, hazan e cioè cantore della Sinagoga di Reggio.
Per l’età
pienamente normanna è stato recentemente attribuito a Rossano, ed in
particolare al cantore della sua sinagoga, mentre prima era riferito ad uno
scrittore russo, un commento alla Torah ritenuto di grande interesse in quanto
presenta termini greci traslitterati in ebraico ed anche parole in volgare, il
calabrese del tempo, sempre scritte in ebraico.
Questo
commento, scritto anteriormente al Pantateuco di Rashì del 1040-1105, verrà poi
stampato a Reggio nel 1475,
in un’edizione che rappresenta il primo libro ebraico
fornito di data che si conosca.
Altre
indicazioni compaiono successivamente negli scritti di Gioacchino da Fiore,
autore anche di un trattato dedicato ai Giudei con l’intento di convertirli: Adversus
Iudeos.
A partire
dall’età angioina, e per tutta l’età aragonese, la documentazione disponibile
per ricostruire la storia degli ebrei nella nostra regione è di gran lunga più
numerosa e consente, grazie soprattutto ai registri delle tasse, di conoscere
in maniera più dettagliata non solo le comunità in cui i giudei si erano
insediati ma anche le loro attività economiche e commerciali.
Tra i
principali centri ricordati troviamo Monteleone (ora Vibo V.), Nicotera,
Reggio, Seminara, Gerace, Placanica, Crotone, Castelvetere (ora Caulonia) e
Oppido.
A
Castelvetere/Caulonia, nella parte inferiore dell’abitato, in uno degli ultimi
slarghi, si conservano i resti della chiesa di San Zaccaria, un edificio di
culto, probabilmente di matrice funeraria o privata, ad unica navata e
monoabsidato. L’edificio conserva all’interno dell’abside, che rappresenta
l’unica porzione del luogo di culto ancora rimasta in piedi dopo i terremoti
del 1783 e 1908, una delle più interessanti espressioni pittoriche di matrice
bizantina esistenti in Calabria. Si tratta della raffigurazione di una Deèsis che occupa l’intero catino
absidale e la cui datazione va riferita, soprattutto alla luce delle nuove acquisizioni
archeologiche, alla seconda metà del XIII secolo. L’affresco è dominato
centralmente dalla figura del Cristo, assiso in trono, è accompagnato dall’inconsueto
epiteto di “filantropo”; alla sua destra troviamo la Santa Vergine mentre alla
sua sinistra, come di consueto, è raffigurato San Giovanni Prodromo; ai piedi
della Madonna è presente una iscrizione che riporta il nome del committente:
“Ricordati o Signore del tuo servo Nikolaos Pere prete e perdona a lui il
peccato”. Il Cristo, come si è già annotato, è definito “Philantropos” e l’inconsueto
epiteto è attestato anche a Trebisonda nella chiesa di Santa Sofia, al Monte
Athos nel monastero dei Georgiani e a Naxos nella chiesa dei Santi Nicola e
Giorgio. Secondo la tradizione, la piccola chiesa venne eretta da un giudeo di
nome Simone, che si era convertito al Cristianesimo e non è forse un caso che
l’edificio sorga proprio nel quartiere dell’antica Giudecca.
Per quanto
riguarda i principali mestieri esercitati dagli ebrei i documenti ricordano:
medici e speziali; mercanti di tessuti, abiti, pettini e gioielli; tintori di
panni; banchieri; commercianti di zafferano, olio, frumento e bestiame; orafi
e, infine, maestri nell’arte scrittoria, coltivata non solo per finalità
religiose e spirituali ma anche scientifiche.
Dopo le
alterne vicende che caratterizzarono l’età aragonese, una prima cacciata degli
Ebrei dal Regno di Napoli ci fu nel 1510-11 e dopo questo atto la Calabria
meridionale venne del tutto privata di questa presenza; l’espulsione definitiva
avvenne, come già ricordato, nel 1541.
Crotone: lapide sepolcrale ebraica del 1475/76
che
ricorda il defunto Ioshua ben Shamuel Gallico
A distanza
di quasi cinque secoli, cosa rimane oggi in Calabria di questa straordinaria
esperienza di vita, di religione, di cultura? Concludiamo utilizzando, ancora
una volta, le parole di Colafemmina: “Ci rimangono dei manoscritti copiati a
Reggio, Cosenza, Catanzaro, Crotone, Strongoli nei secoli XV-XVI; ci rimangono
alcune epigrafi, come la lastrina di Reggio, la lucerna di Capo d’Armi, alcuni
frammenti di terracotta con stampigliata la menorah ; un’iscrizione ebraica del
1440-41 incisa su un mattone a Strongoli, un altro frammento di iscrizione
datata 1475-76 a
Crotone...”.
Ci
rimangono, infine, l’importantissima Sinagoga di Bova Marina, unica nel
Mezzogiorno e la consapevolezza che, in questo ambito, la strada da compiere è
ancora lunga, complessa e, per molti versi, essenziale.