Calabria judaica ~ Sud ebraico Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione
Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé. La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu. Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta. Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne). Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; attraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.
Più di 50 ospiti da tutta
Italia sono scesi a Palermo, la pittoresca capitale siciliana, lo scorso fine
settimana per uno Shabbaton organizzato da UCEI e Shavei Israel.
Mentre
l’UCEI già organizza Shabbaton comunitari del genere, due volte l’anno in
Italia, questa è stata la prima volta che veniva organizzato a Palermo - in
gran parte come riconoscimento per il lavoro che Shavei Israel e il suo
emissario Rav Pinhas Punturello stanno svolgendo nella regione dal 2013.
Lo
scopo di Shavei Israel in Italia meridionale è di rafforzare le comunità locali
Bnei Anousim nelle piccole cittadine di Puglia, Campania, Sicilia e Calabria.
I Benè Anousim del sud
Italia sono i discendenti degli ebrei sefarditi forzati a convertirsi al
cattolicesimo nel 1492 o a fuggire dall’Inquisizione. Ma quando i monarchi
spagnoli invasero la regione un secolo più tardi, una serie di persecuzioni
iniziò, incluse più conversioni forzate ed espulsioni. I Benè Anousim,
tuttavia, rimasero legati alla loro identità, passandola di generazione in
generazione. Shavei Israel è stata fondamentale per la rinascita ebraica
nell’Italia meridionale.
Lo
Shabbaton è iniziato giovedì sera con un seminario speciale sul concetto di
tzedakà presso l’Università di Palermo.
Il seminario comprendeva pannelli, presentazioni
e discussioni con Rav Roberto della Rocca, direttore culturale presso l’UCEI;
Gadi Piperno, che rappresentava anche lui l’UCEI; Rav Umberto Piperno, rabbino
capo di Napoli; Leonardo Samonà, capo del dipartimento umanistico presso
l’Università di Palermo; e Rav Punturello. L’incontro è stato moderato da
Luciana Pepi - una dei membri più attivi della comunità ebraica palermitana.
Il
venerdì sera vi sono state preghiere, una cena di Shabbat e un pannello dove i
membri della comunità hanno parlato delle loro storie personali.
“E’
stato molto commovente”, ha detto Rav Punturello. “Quasi tutti hanno
sottolineato come, senza l’aiuto di Shavei Israel, la comunità che abbiamo
costruito qui, non sarebbe mai diventata reale”.
La Havdalà di sabato sera
I partecipanti allo Shabbaton hanno anche
pregato nell’infauste prigioni dello Steri, già prigione del Tribunale
dell’Inquisizione. Da qualche anno Rav Punturello vi celebra la cerimonia
dell’accensione delle candele di Hannukà.
Pagine
ebraiche 24,
la newsletter dell’Unione delle Comunità ebraiche in Italia, ha parlato
recentemente dello Shabbaton che si è svolto a Palermo nei giorni scorsi.
Su
Moked dell’11 novembre 2016, si trova un breve cenno:
È in svolgimento l’intenso Shabbaton
“Radici di Sicilia” organizzato a Palermo dall’Area Cultura e Formazione
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane diretta dal rav Roberto Della
Rocca in collaborazione con la Comunità ebraica di Napoli. Momenti di studio,
approfondimento, incontro con la città. Nell’immagine l’intervento del
vicepresidente UCEI Giulio Disegni.
Uno shabbaton che apre una finestra su di
una realtà ebraica che sta rifiorendo e che ha molto da raccontare: quella di
Palermo. In questo fine settimana infatti il vivace gruppo ebraico palermitano
è stato al centro di diversi incontri nel capoluogo siciliano, a cui hanno
partecipato, tra gli altri, il vicepresidente dell’Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane Giulio Disegni, il direttore dell’area Cultura e Formazione
dell’UCEI rav Roberto Della Rocca, rav Pierpaolo Pinhas Punturello e Gadi
Piperno, responsabile per l’Unione del Progetto Meridione.
Tra gli eventi dello Shabbaton, una
serata densa di storie personali e di emozioni che ha caratterizzato l’intero
appuntamento. Tre donne di diverse provenienze – ma tutte accomunate dall’aver
trascorso una parte della loro vita nel capoluogo siciliano – Fausta Carli
Finzi, Maria Antonietta Ancona ed Evelyn Aouate, hanno raccontato le loro
storie, che coincidono in qualche modo con la storia della rinascita di un
nucleo ebraico a Palermo dopo gli anni della Seconda guerra mondiale.
Fausta Carli Finzi arriva a Palermo con i
genitori e il fratello nel 1948 e quello che subito la colpisce, e poi la
coinvolge, è vedere la madre cercare di scoprire chi sono e quanti sono gli
ebrei in una città dove non esiste una Comunità e così si hanno i primi
incontri assolutamente casuali, anche semplicemente con ebrei che si trovano in
città per lavoro o per turismo (come musicisti che vengono a suonare al Teatro
Massimo o al Politeama, o professori con incarichi universitari), che vengono
invitati e “catturati” nel salotto della mamma di Fausta, Fiorenza Della
Pergola.
Sono questi contatti, che iniziano a
porre le basi di un primo nucleo ebraico anche se non strutturato a Palermo.
E poi l’incontro casuale con il padre di
Maria Antonietta Ancona, nata a Roma, ma di famiglia ebraica padovana, che
viene a Palermo dopo la guerra. I racconti del padre, ma anche i molti silenzi,
danno la forza e la motivazione alla figlia per andare alla ricerca delle
radici ebraiche paterne e per iniziare un percorso che si concluderà nel 1989 con
la sua conversione all’ebraismo.
Da allora, per la signora Ancona sarà un
non-fermarsi incessante per capire a conoscere e soprattutto cercare di
condividere con altri le proprie radici.
Infine, a raccontare la storia forse più
emblematica di ebrea errante, è Evelyn Aouate (nell’immagine), nata in Algeria
e costretta a lasciare il paese d’origine con padre, madre e due fratellini
piccoli e a rifugiarsi alla volta di Parigi dove la famiglia va a vivere: il
suo ebraismo si svilupperà nelle tradizioni e nella conservazione di una
ritualità sentita e vissuta. Poi i casi della vita la portano a Palermo e qui
avviene quasi una sorta di “miracolo”: dopo lunghi anni di vita siciliana in
cui Evelyn credeva di essere l’unica ebrea di Palermo, ad eccezione di un’altra
signora che incontra casualmente perché sua cliente, viene a conoscerne altri e
parallelamente cresce il suo interesse per approfondire la storia della
presenza ebraica in Sicilia.
Nel 2013 riceve una proposta di un
convegno sull’Ebraismo da organizzare a Palermo: la richiesta arrivava da rav
Punturello.
La presenza del rav in un dibattito
pubblico alla Libreria Broadway segna l’inizio di una vera e propria svolta per
il nucleo ebraismo palermitano: da quel momento, la signora Aouate si fa
promotrice con altri di diversi eventi e incontri e dell’organizzazione delle
feste ebraiche. Cene, feste e funzioni hanno luogo a casa Aouate, che diventa,
insieme alla professoressa Luciana Pepi, docente all’Università di Palermo, il
motore e il riferimento del gruppo ebraico palermitano. Gli eventi pubblici
invece sono ospitati in palazzi che il Comune di Palermo volentieri concede
alla realtà ebraica locale che fa capo alla Comunità ebraica di Napoli e che
fonda anche l’ISSE (Istituto Siciliano di Studi Ebraici).
Tre storie straordinarie di confine, che
danno la misura di quale sia stata la vita degli ebrei a Palermo negli ultimi
decenni.
Nel frattempo vi sono stati alcuni
ghiurim (conversioni) e sono continuate lezioni di ebraismo e l’organizzazione
di eventi, a cura della Comunità di Napoli e di Shavei Israel.
Ora gli ebrei palermitani desiderano una sede
dove trovarsi e meglio organizzarsi come gruppo e una sinagoga per le funzioni.
Temi importanti, messi sul tavolo nel confronto tenutosi ieri coordinato dal
vicepresidente Disegni, e a cui hanno partecipato rav Roberto Della Rocca, rav
Pierpaolo Pinhas Punturello e Gadi Piperno.
Nell’immagine,
la targa apposta posta all’Università di Palermo in memoria di Emilio Segre,
Camillo Artom, Maurizio Ascoli, Mario Fubini e Alberto Dina, i cinque
professori ebrei espulsi nel 1938 dall’accademia siciliana in seguito
all’entrata in vigore delle infami leggi razziste.
La Torà adotta un approccio deduttivo della
Creazione. Mentre progrediamo nei suoi capitoli si specifica sempre di più
l’oggetto della sua attenzione. Quando giungiamo alla parashà di Lech lechà,
dove ci troviamo adesso, tutto sembra dire che ciò che precedeva era preparato
per introdurci alla scena dell’apparire di Abramo. Il Talmud spiega che il
padre di Abramo era un fabbricante di idoli, oggetti di culto materiale, e che
contro questi idoli Abramo focalizza la sua ribellione. Abramo non accetta il
culto “orizzontale” e l’idolatria estremamente diffusa nella sua epoca e di
fatto cerca di superarla, scegliendo per se stesso la ribellione e la
spiritualità e, a sua volta, è scelto da Dio per “trovare” il monoteismo.
Il Signore disse ad Abramo: «Vai via dal tuo
paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti
mostrerò»”.Prima di tutto: “Vai via”, vai per te, cerca te stesso e la tua
identità. Per poter raggiungere ciò dovrai abbandonare “la tua terra”, la terra
dei tuoi beni materiali, “il tuo parentado”; dovrai separarti da tutto ciò che
hai ricevuto per via emozionale, dalla matrice che ti è stata impressa sin
dall’istante della fecondazione e dai tuoi legami affettivi; dalla “casa di tuo
padre”, dalla cultura, dalla civiltà e da tutta la struttura morale ed
intellettuale in cui sei vissuto fino ad adesso.
Abramo fu il primo olé, il primo immigrato in
terra di Israele che ha certamente affrontato difficoltà ben superiori di
quelle incontrate da un immigrato dei nostri giorni. Abramo parte da Ur Casdim,
uno dei maggiori centri culturali ed economici della sua epoca, e si dirige
verso se stesso, per “incontrarsi”. Abramo, nato nel seno di una famiglia
“agiata”, non parte a seguito di una persecuzione politica e tantomeno a causa
di una crisi economica. Nella sua situazione, separarsi dalle proprie radici è
una delle più grandi prove che una persona possa affrontare. Senza radici
culturali, familiari, sociali, spirituali né tantomeno geografiche, l’uomo non
ha un universo di riferimento con il quale identificarsi: Abramo si forza a
vivere al massimo livello della solitudine esistenziale.
Abramo si trasforma in un “eletto” quando
intraprende il suo cammino di solitudine. Pensare in maniera differente
rispetto alla società e al potere costituito e osare denunciarlo pubblicamente,
è un atto di grandezza ed onestà che richiede una straordinaria coerenza
intellettuale. Abramo osa intraprendere un nuovo cammino, assumendo su di sé i
rischi, i dilemmi e le difficoltà. Crede in una idea, forgia un ideale e percorre
con determinazione la strada che porta alla loro realizzazione. La grandezza di
Abramo non è fondamentalmente filosofica, ma affonda le proprie radici nel suo
coraggio e nel suo valore.
Il primo uomo, Adam HaRishon ed i suoi figli,
furono i primi monoteisti. Quando gli uomini cominciarono a considerare le
stelle e gli altri segni come “rappresentanti” o “intermediari” di Dio e,
attraverso la loro adorazione, dimenticarono il culto dell’Unica divinità,
Abramo ritorna alla Fonte Primordiale. La rivoluzione di Abramo è più umana e
sociale che filosofica. Il concetto di “scelto”, nato con Abramo, si giustifica
con le caratteristiche specifiche dell’uomo. Abramo si mostra come un “libero
pensatore” che non accetta in maniera coatta le concezioni della vita
predominanti nella sua epoca. E’ un guerriero anticonformista che non si
arrende di fronte all’altare classico dei comuni valori.
Abramo è un uomo che ha posto una domanda e che
desidera comprendere; è il prototipo del rivoluzionario onesto che dista molto
dall’immagine che abbiamo del pastore “anziano con la barba” che porta suo
figlio al sacrificio, sentendosi impotente. Abramo è un uomo la cui grandezza
morale e spirituale è rivelata dai valori che la sua fede sostiene.
Le
vicende dell'umanità anteriori e posteriori al diluvio che sono state oggetto
dei primi capitoli della Genesi, formano quasi una grande introduzione alla
storia successiva che è quella delle origini della famiglia di Israele.
L'umanità secondo la Bibbia ha seguito varie fasi nello sviluppo storico dei
suoi primi tempi; queste fasi sono come contrassegnate dal sorgere di alcuni
personaggi di eccezione che segnano come le tappe del faticoso cammino umano:
da Adamo a Noè, da Noè ad Abramo. La Torà sorvola sulle vicende che
intercorrono tra il sorgere dell'uno o dell'altro di questi personaggi e
preferisce soffermarsi sulla vita, sul significato della vita di essi, perché è
questo significato che deve imprimere il carattere alla storia del periodo,
dell'epoca o della gente cui quel personaggio appartiene. E così che dopo la
narrazione del diluvio e della vita di Noè, giungiamo con questa Parashà alla
storia di Abramo e della sua famiglia.
Qui
noi entriamo propriamente nel terreno della storia di Israele o, se vogliamo,
della preistoria d'Israele.
Abramo
è il primo padre, è anzi il grande padre d'Israele, è il creatore dell'idea
monoteistica, è colui che getta le basi granitiche dell'idea d'Israele. Abramo
è dunque il primo padre spirituale della gente Ebraica, è colui che forma il
primo modello della vita d'Israele, ma Abramo è anche uomo che vive in mezzo ad
altri uomini ed ha quindi le sue vicende personali che non si astraggono, ma
anzi si collegano e si intrecciano con la sua vita ideale e spirituale, sì da
formare tutta una meravigliosa trama di episodi che gettano una chiara luce
sulle caratteristiche di questo eccezionale personaggio della storia ebraica.
La presente Parashà contiene appunto la narrazione di un primo gruppo di questi
episodi della vita abramitica e ci guida attraverso tutto l'intreccio delle
complesse vicende della vita di Abramo per condurci poi su quella terra di
Canaan che sarà il teatro scelto per lo svolgimento di quelle vicende.
La
partenza dalla originaria terra di Ur - Casdin per ubbidire alla volontà di Dio
e alla missione da Lui affidatagli, le prime peregrinazioni in terra di Canaan,
la temporanea avventurosa dimora in terra d'Egitto, i rapporti col nipote Lot e
i dissensi tra il suo clan e quello di lui, la guerra dei quattro re contro i
cinque e la partecipazione ad essa di Abramo, il solenne annuncio della futura
schiavitù di Israele, attraverso la simbolica visione degli animali ecc., sono
tutti temi di altrettanti episodi, ciascuno dei quali offre di per sé materia
per lo studio e l'approfondimento della personalità del patriarca.
Dall'esame
di questi episodi emerge anzitutto un fatto, una verità, una caratteristica che
dà fin d'ora un'impronta originale alla storia religiosa d'Israele; il fatto è
questo: Abramo non è un mistico, non è un visionario, non è un uomo che è
pervenuto alla conoscenza dell'Unico Dio attraverso l'ascesi o il distacco dal
mondo, no. Abramo è un uomo che vive in mezzo al mondo in mezzo agli uomini, è
un uomo che vive in un'epoca e in un mondo in cui gli uomini erano molto
lontani da quell'idea che egli andava proclamando, egli vive in quell'epoca
successiva alla generazione che aveva costruito la torre di Babele, e che
quindi viveva nel culto dell'ambizione e della forza, rinnegando i più alti
valori umani e Divini: ebbene, Abramo è la vivente protesta contro questo
mondo, Abramo è il primo isolato, è il primo ad annunciare un nuovo verbo che
non sarà mai più destinato a mutarsi; Abramo sente di ricevere da Dio la
missione di annunciare in un mondo avverso, la verità di Lui, la unicità di
Lui, la fede in Lui. È perciò che la Parashà si inizia con quella che si
potrebbe chiamare la vocazione di Abramo e l'esordio solenne di essa, traccia
già a grandi linee la figura di Abramo, la posizione di lui di contro al mondo:
"Lekh Lekhà", Va per conto tuo dalla tua terra, dalla tua città,
dalla casa di tuo padre, va verso la terra che ti mostrerò (Genesi, XII, 1).
Tutta
la storia di Abramo e della sua progenie è già racchiusa in questo verso, in
questo solenne imperativo che mette subito a dura prova la preparazione di
Abramo: lasciare tutto, proprio tutto, la patria, la famiglia, l'ambiente per
andar dove? dove egli non sapeva, ma dove Iddio l'avrebbe guidato; non è già
questa una prova di illimitata fiducia in Dio?
"Lekh
lekhà" vattene per tuo conto, staccati da questo mondo idolatrico e segui
la tua vocazione, il tuo istinto, il tuo mondo spirituale: conservalo,
accrescilo, siine geloso e, soprattutto, preservalo nonostante l'ambiente
avverso. In questo imperativo c'è già tutta la storia di Abramo; comincia la
prima di una serie di dure prove alle quali Abramo sarà sottoposto e che si
realizzeranno in mezzo al mondo, in mezzo alla vita degli uomini; sono prove in
occasione delle quali Abramo dovrà sempre dimostrare di essere fedele al suo
isolamento, al suo "Lekh lekhà" che è la prima parola della sua vita.
Ed Abramo infatti supererà tutte queste prove, sarà sempre, in ogni occasione,
fedele all'idea e fedele a Dio, dimostrerà di essere il primo creatore, il
primo artefice di quella "emunà", di quell'abbandono alla volontà del
Signore che dovrà essere la forza sua e dei suoi figli; egli sarà davvero il
primo uomo religioso, il primo uomo che si appoggia a Dio, e sarà così fonte di
benedizione per l'umanità.
Quando,
come ci espone la Parashà, Abramo riceve l'annuncio della discendenza che da
lui avrà origine, di questa discendenza della quale per legge di natura, egli
ormai credeva di essere privo, il Signore gli ordina di uscir fuori dalla tenda
e di rivolgere lo sguardo verso il Cielo stellato: là egli dovrà guardare, non
alla terra e alle vicende che si svolgono secondo gli umani accorgimenti e le
umane leggi, ma al Cielo, alle leggi del Cielo dovrà essere rivolto il suo
sguardo, perché la sua discendenza avrà una origine e una storia che sarà fuori
dalla legge degli uomini, e sarà creazione diretta di Dio. Questo il comando.
Abramo ubbidisce a quel comando e volge il suo sguardo verso il Cielo: il suo
cuore - dice la Torà - fu fiducioso e sicuro nella forza di Dio. In quello
sguardo, in quella forza sta tutta la vita di Abramo.
Abramo non aspettava che
la gente venisse da lui a chiedere spiegazioni in merito alla sua fede
nell’Unico D-o, una fede che, al suo tempo, appariva come qualcosa di nuovo e
sorprendente
Conoscendo il rapporto
speciale che esisteva tra il nostro primo padre e il Sig-re, forse rimaniamo
sorpresi quando leggiamo un po’ più avanti che “Avràm aveva settantacinque
anni quando uscì da Charàn”
Come avrebbe potuto
Avrahàm mettere Sarà in una posizione di possibile pericolo, permettendole di
essere portata al palazzo del faraone, con lo scopo di salvare la propria
vita?
Come avrebbe potuto
Avrahàm mettere Sarà in una posizione di possibile pericolo, permettendole di
essere portata al palazzo del faraone, con lo scopo di salvare la propria
vita?
Da Lo Shabbath. Il suo significato per l'uomo moderno
di Abraham Joshua Heschel
Documento realizzato da
Paolo Sciunnach nel giugno 1999 e rilasciato sotto licenza CC BY-NC-ND. Per
favore trattare questo testo con il dovuto rispetto.
Dall’introduzione a cura di rav Paolo Sciunnach - Parte I
Premessa
Il
popolo di Israele ha una magnifica istituzione che gli è propria: è il giorno
santo e venerabile di Sua Maestà lo Shabbath.
Nell'immaginazione
popolare, lo Shabbath è divenuto una persona vivente, con un corpo, dei
connotati, risplendente d'oro e di bellezza. Quando il Santo, benedetto Egli
sia, ebbe terminato l'opera della creazione, introdusse nell'universo lo
Shabbath "affinché il baldacchino nuziale che era stato appena elevato non
rimanesse privo della sposa".
Per
lo Shabbath, meraviglia preferita tra tutti i tesori che possiede, il Santo,
benedetto Egli sia, non trovò che Israele che formasse con lui una coppia
perfetta (Bialik).
Senza
dubbio l'idea dello Shabbath, il riposo settimanale, simbolo di libertà e di
dignità umana e giorno di rinascita spirituale, è uno degli elementi fondamentali
dell'eredità che Israele ha trasmesso all'umanità. Ma per il popolo di Mosè ha
mantenuto un carattere, un'atmosfera specifici.
I
Maestri hanno scritto: "Chiamerai lo Shabbath tua delizia",
"Niente potrà mai uguagliare la benedizione spirituale che l'ebreo
osservante trova nel riposo così dolce, nella tranquillità così perfetta dello
Shabbath".
Si
narra che un generale romano chiese a rabbi Josuè: "Perché i cibi dello
Shabbath emanano un profumo così buono?", ed egli rispose: "Noi
abbiamo una spezia speciale chiamata Shabbath ed è il suo profumo che tu
respiri".
Il
generale romano disse allora: "Dammela!", ma Rabbi Josuè di rimando:
"Chiunque osserva lo Shabbath può goderne, ma non è di nessuna utilità per
chi non l'osserva".
L'osservanza
dello Shabbath comprende il duplice aspetto di shamor e zakhor,
osserva e ricorda, parole usate
all'inizio del quarto comandamento del Decalogo, una volta nell'Esodo, l'altra
nel Deuteronomio, e che, secondo la Tradizione orale, furono pronunciate
insieme dal Signore sul Sinai.
La
prima esprime il lato "negativo" o passivo: l'astensione dal lavoro,
il riposo; mentre la seconda si riferisce alla santificazione positiva, a ciò
che deve essere fatto di Shabbath: i tre pasti obbligatori, il Qiddush,
l'Havdalà, la preghiera e lo studio della Torà, al fine di favorire lo
schiudersi e l'espandersi "dell'anima supplementare", neshamà
yetherà, di cui gode il fedele in questo giorno.
A
tutti i componenti della famiglia ebraica, compresi gli animali, è stata
comandata l'astensione completa dal lavoro e la trasgressione di questo
comandamento, se voluta e cosciente, equivale a negare l'esistenza del Dio
Creatore del mondo e Redentore, in Egitto, del popolo ebraico.
È
la Legge orale ad aver stabilito tutti i lavori proibiti, solo una parte dei
quali è menzionata nella Legge scritta; la Mishnà ne distingue trentanove
principali (avoth melakhoth) la cui
caratteristica è quella di essere lavori che furono necessari per la
costruzione del Tabernacolo nel deserto. "Osserverete i Miei sabati e
rispetterete il Mio Santuario, Io sono il Signore" (Lev. 26,2).
Questi
lavori comprendono principalmente quelli che riguardano la preparazione del
cibo, dei vestiti, i lavori di casa, l'utilizzazione della scrittura,
l'accensione del fuoco, ma anche il compimento di un'opera (l'ultimo colpo di
martello) e il trasporto di un oggetto da un luogo privato a uno pubblico.
In
ultima analisi abbracciano tutti i settori dell'attività umana in una
prospettiva in cui il lavoro non è misurato in base allo sforzo necessario per
compierlo, ma è concepito come la realizzazione di un'idea applicata a un
oggetto, destinata a creare, a produrre o a trasformare (S.R. Hirsch).
I
profeti hanno proibito anche le transazioni commerciali che stricto sensu non rientrano nelle
categorie dei trentanove lavori proibiti, ma che sono intrinsecamente
incompatibili con lo spirito dello Shabbath. "Se tratterrai di sabato il
tuo piede dal fare il tuo interesse nel giorno a Me sacro, e chiamerai il
sabato delizia, consacrato al Signore e onorato, e se lo onorerai tralasciando
il tuo cammino, dall'occuparti dei tuoi affari e dal parlarne, allora ti
delizierai in onore del Signore, e Io ti farò nutrire col retaggio di tuo padre
Giacobbe" (Is. 58,13-14). (Vedi anche Nehemia 13,15-17).
Ispirandosi
a queste raccomandazioni e nell'intento di circondare le proibizioni divine con
una "siepe" invalicabile, i Maestri vi hanno aggiunto alcune
proibizioni dette "rabbiniche".
Così
sono state proibite diverse attività di carattere profano (uvdane dechol) come la musica strumentale, il nuoto, l'equitazione,
l'utilizzo dei mezzi di trasporto.
Di
Shabbath tutti gli utensili o strumenti che servono per un "lavoro"
sono dichiarati muqtzè e cioè
soppressi dal pensiero e dall'uso, ed è proibito prenderli perfino in mano.
Durante
queste ventiquattro ore, allo scopo di estendere all'anima il dovere della
santificazione, anche la tristezza e le preoccupazioni devono essere messe da
parte.
Dice
il Midrash: "Dio benedisse il giorno di Shabbath e lo santificò"
(Bereshith Rabbà). Egli lo benedisse con lo splendore del volto umano, lo
santificò con lo splendore che il volto umano ha durante lo Shabbath.
Nel
Cantico dei Cantici, la fanciulla, simbolo del popolo di Israele, esclama:
"Sono nera, ma sono bella", e i Maestri hanno dato la seguente
interpretazione: "sono nera" durante la settimana, "ma sono
bella" durante lo Shabbath.
Il venerdì
Il
venerdì, molto prima dell'ora che segna l'entrata dello Shabbath, la casa
ebraica è tutta tesa nell'attesa dell'ospite meraviglioso.
Fin
dal momento del risveglio, la giornata assume un'atmosfera particolare: vengono
fatte grandi pulizie domestiche e la cucina è in grande fermento. Anche il ba'al habbayth, il padrone di casa,
seguendo l'esempio di illustri rabbini del Talmud, ci tiene ad avere l'onore di
partecipare alla preparazione dei pasti sabbatici.
La
tradizione ci tramanda che Ravà salava il pesce, Rav Papà intrecciava lo stoppino,
Rabbà e Rav Josef spaccavano la legna. A pranzo è tradizione mangiare di magro
in previsione del lauto pasto della sera; spesso nel primo pomeriggio la tavola
è già pronta per la sera.
Verso
l'imbrunire l'agitazione si calma: il lavoro da fare in previsione dello
Shabbath, che sembrava impossibile da terminare nel breve lasso di tempo a
disposizione, è stato terminato. La cucina a gas è stata coperta con una lastra
sotto la quale brucia una piccola fiamma destinata a mantenere caldi i cibi per
la cena e per riscaldare quelli dell'indomani. Nel frattempo ognuno ha
indossato i vestiti eleganti per andare incontro alla principessa Shabbath.
Questa accoglienza deve aver luogo prima del crepuscolo per aggiungere un po'
di profano al giorno sacro.