Calabria judaica - Sud ebraico

Calabria judaica ~ Sud ebraico
Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria
con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione

Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé.
La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu.
Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta.
Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne).
Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; a
ttraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.

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venerdì 28 gennaio 2011

Mario La Cava e Ferramonti


Il Quotidiano della Calabria di giovedì 27 gennaio ripubblica due articoli riguardanti lo scrittore bovalinese Mario La Cava e il suo legame con il campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia.
Il primo è un articolo del Corriere della sera del 1984, con la relazione di un suo viaggio a Ferramonti; il secondo è un ricordo di una ex internata del campo, che conobbe e frequentò il nostro scrittore, del quale ho già parlato in un post precedente in relazione al suo libro "Viaggio in Israele"

Ferramonti secondo Mario La Cava
Lo scrittore calabrese realizzò un reportage per il Corriere della sera
Pubblichiamo un articolo di Mario La Cava sul campo di Ferramonti di Tarsia,
apparso sul Corriere della Sera nel 1984

di Mario La Cava
Appresi, qualche tempo fa, che anche in Calabria funzionò, durante l'ultima guerra, un campo di concentramento per ebrei. Strano che il fatto non fosse di conoscenza comune e che le notizie ricevute fossero vaghe e confuse. Ne parlai e a Natalia Ginzburg, credendo di rivelarle cosa che potesse ignorare; ma ella era informata di tutto. Sapeva che nessuno degli internati era stato ucciso né era stato seviziato in emulazione coi lager tedeschi. E' stato anzi un campo speciale, distintosi per umanità di trattamento sugli altri costruiti in Italia. Trattenne fino a 1500 ebrei , prevalentemente fuggiti dai paesi d'Europa dove si era esteso il regime nazista, oltre un numero notevole di stranieri sorpresi dalla guerra in Italia e ritenuti , per gli indizi più vaghi, antifascisti. Il campo si chiamava Ferramonti, ed ancora il luogo è così designato. Trovasi presso Tarsia, in provincia di Cosenza, nella valle del Crati, sulla linea ferroviaria Sibari/Cosenza,ed è situato più lungo il versantetirrenico , che in quello ionico. Oggi viaggiando in macchina sull'autostrada per Salerno, si trova a 35 km da Cosenza, donde si diparte la deviazione per Tarsia. A pochi passi dalla stazione di benzina , un rustico cancello , che ho trovato aperto, immette nel campo. Sulla prima baracca a sinistra, un magnifico paio di corna di bue, colorate in rosso, invita il visitatore a riflettere non tanto sulle superstizioni popolari quanto sulla evidente pericolosità delle potenze mostruose che incombono sul mondo. In un campo di concentramento disabilitato, esse ammonirebbero gli ignari a vigilare sulle possibili ricorrenze terribili della storia. Sulla porta chiusa della baracca a destra, un lumino di latta arrugginito potrebbe far pensare ad una illuminazione rudimentale a petrolio, che desse una notte di idillio alle notti tetre. Ci si accorge, invece, da un filo metallico pendente, che la modernità della luce elettrica era arrivata perfino in quel campo isolato. Un generatore autonomo di elettricità, di cui resta il fabbricato, preesistente all'ufficio di raccolte degli internati, aveva servito i bisogni della ditta Perrini, di Roma, occupata a far opera di bonifica nella zona.

Il motivo della visita
Sul piazzale un vecchio operaio pareva indeciso nei suoi passi;una vecchia signora, probabilmente sua moglie, gli si avvicinava. Si era ferito alla mano, mentre tagliava un pezzo di legno. Un giovinetto davanti ad una baracca più arretrata, non si capiva se facesse qualcosa di utile o giocasse. La giornata era serena, dopo la pioggia della mattina che aveva lasciato il terreno bagnato. Mi sono avvicinato con l'aria dell'intervistatore ed ho domandato all'uomo, che guardava diffidente, se fosse il custode del campo. Macché custode, rispose spazientito. Lo siete stato, insistei. Sono stato magazziniere, precisò, aggiungendo: ma voi cosa volete? Spiegai il motivo della mia visita,domandando se si fosse fatto molto male, per addolcirlo,ed egli infatti si persuase a rispondermi con più confidenza. Mi introdusse nella baracca, che era stata degli internati, e cominciò a parlare. Seppi che era della classe del 1897. Richiamato nella guerra del ‘15, si era salvato, perché, appartenendo al Corpo di Finanza, aveva fatto servizio al confine con la Svizzera. A questo punto gli domandai se gli internati di Ferramonti soffrissero la fame. Rispose: la fame la soffrivamo noi, non loro. I quarti di bue che c'erano nei magazzini! Evidentemente il vecchio magazziniere confondeva l'impressione ricevuta in tempi di carestia dalla presenza degli alimenti conservati in massa nei depositi per gli internati, con la distribuzione limitata ad ognuno di essi. Aveva dimenticato che la razione prevalente era di pane e verdure; ma ricordava che gli internati potevano acquistare dai contadini che si avvicinavano al campo, ciò che loro occorresse. Alcuni anzi avevano la possibilità di uscire dal campo per fare acquisti personali o per conto del comando. Dunque il comando era tollerante. Ricordate il maresciallo di P.S. Gaetano Marrari? È stato l'ultimo comandante del campo, Era una bravissima persona il comandante Marrari. Lo sapevo, vecchio di 93 anni, vive ancora a Reggio Calabria, circondato dalla venerazione della figlia e del genero. Mi ci ero recato, per conoscerlo e per ascoltare i suoi ricordi. Ma egli era a letto con l'influenza; il medico gli aveva proibito di ricevere visite ed i familiari ne rispettavano la consegna. Potei parlare col genero, Rizzi che con commuovente semplicità aveva fatto della vita del maresciallo un mito da raccontare ai posteri. La sua vita giovanile era stata avventurosa. A 15 o a 16 anni si imbarcò clandestinamente su una nave da carico, arrivando in America,dove vivevano gli zii che lo accolsero con la meraviglia che si può immaginare. Gli pagarono il viaggio di ritorno e lo rispedirono a casa. Partecipò a tutte le guerre italiane, meritando medaglie e riconoscimenti. Privo di titoli di studio si arruolò nel Corpo di pubblica sicurezza, coltivando l'ideale di difendere le persone dabbene, dall'insidia dei facinorosi. Era di servizio a Roma col grado di maresciallo, quando nel 1940 fu scelto a dirigere il campo di concentramento per ebrei ed antifascisti stranieri a Ferramonti. “Perché proprio lui e non altri?”. Forse perché i superiori sapevano che viveva solo a Roma e i familiari in Calabria, rispose Rizzi. Può darsi che la scelta non fosse determinata da particolari meriti fascisti. Il regime spesso si orientava a caso. D'altra parte nel 1940 l'Italia non era stata ancora sopraffatta dalle direttive germaniche e naziste. La persecuzione contro gli ebrei poteva apparire formale, non sostanziale, e se non legittima, adeguata al grave momento che l'Italia attraversava e alla necessità di non disturbare gli alleati tedeschi. Anche i servizi più ingrati ai quali si fosse costretti, potevano essere ingentiliti dall'umanità di che li avesse compiuti. Ed il maresciallo Marrari, uomo semplice e senza studi, fu all'altezza dei suoi umani ideali. Le testimonianze degli internati parlano chiaro; e parlano anche a nome di chi è rimasto in silenzio. Il Dott. Lartin Ruben, di Milano, in una lettera scritta da Ferramonti il25 ottobre 1943, poco prima della sua liberazione, scrive: “a nome di tutti gli internati del campo sento il dovere, prima di partire di ringraziarvi per il particolare trattamento, contrariamente alle direttive della Milizia con la quale eravate sempre in continua lotta perché pretendeva che voi ci vessaste. Vi siamo riconoscenti per i soccorsi che ci avete prodigati durante l'incursione aerea sul campo quando abbiamo avuto 16 feriti e 2 morti tra gli internati. Vi siamo anche grati dell'interessamento che avete avuto per salvarci dal rastrellamento che le truppe tedesche volevano effettuare nel Campo per condurci con loro nella ritirata verso il nord. Dobbiamo a voi la nostra salvezza per averci protetto, rispondendo al fuoco dei tedeschi e per averci fatto ricoverare nel bosco accanto al fiume Crati (sotto la vostra responsabilità) onde sfuggire alle ire delle truppe tedesche in ritirata. Tutto dobbiamo al vostro coraggio per avere piazzato le mitragliatrici all'ingresso del Campo quando il 19/09/43 i tedeschi volevano impadronirsi degli internati”.

Vocazione editoriale
Gianni Mann, consigliere delegato della Stock di Trieste, gli scriveva in una lettera dopo la fine della guerra: “mio caro amico,sono veramente commosso del contenuto della sua bellissima lettera del 22 dicembre. Io non ho la sua capacità di esprimere in parole tutto quello che ho nell'animo, posso solo assicurarle una volta ancora che non io, ma lei, merita di essere incluso nell'esigua schiera delle persone veramente umane, se per umanità si intende l'amore per il prossimo, l'intendersi l'uno con l'altro, il vivere in pace e serenità d'animo e credo che questi siano concetti che valgono per tutti, per i cristiani ed i non cristiani, perché Dio è uguale per tutti”. A Ferramonti gli internati, potevano fare cose che in altri campi erano impensabili: giocare a pallone,organizzare concerti, seguire riti religiosi,ottenere permessi di libera uscita. L'editore Brenner di Cosenza mi assicurò che suo padre fuggito da Dachau e preso in Italia, dove era finito a Ferramonti, poteva recarsi fino a Roggiano Gravina per fare acquisti in conto del campo. Ivi conobbe quella che poi diventò la sua fidanzata. Finita la guerra si sposarono e a Cosenza nel 1950 potè aprire una libreria editrice seguendo l'esempio del suo genitore che l'aveva a Vienna, significativa la continuità della vocazione editoriale; e memorabile il fatto che proprio gli ebrei in Calabria, prima della loro cacciata, svolgessero attività editoriali, stampando il Pentateuco in ebraico, per la prima volta in Italia, proprio a Reggio Calabria.

Disciplina senza eccessi
La capacità culturale di molti ebrei e il loro grado sociale favorirono i buoni rapporti col maresciallo Marrari. Egli era sensibile al merito. Sotto di lui un medico scienziato, Schwartz, potè ottenere il permesso di operare al cranio un infermo di Roggiano. Il pittore Kron sposò, da internato, una ragazza di Tarsia. Altri matrimonio vennero celebrati serenamente tra gli stessi ebrei. Il maresciallo ricorda - secondo la testimonianza del genero Rizzi - il nome di alcuni illustri internati, il pittore austriaco Michael Fingenstein, il commerciante in case prefabbricate Max Laster. Ma in ogni caso non vorrei dare ad intendere che la vita fosse un idillio e che il campo di Ferramonti fosse un albergo. Il sovraffollamento era penoso, casi di scabbia, di malaria non mancavano. Ci fu uno che morì non si sa bene se per denutrizione o malattia. La malinconia rodeva i cuori. Non poteva bastare ad alcuni la facoltà di ricostituire la famiglia,cucinando da sé i pasti, cocendo nel forno della propria baracca il pane. Contrasti con alcuni stranieri antifascisti, e precisamente con quelli Jugoslavi che si rifiutavano di salutare la bandiera italiana, con la scusa che fosse uno straccio scolorito, turbarono i giorni. Il maresciallo ricorse alla sua autorità, senza eccessi, per imporre la disciplina. In ogni modo si arrivò al giorno del passaggio dei tedeschi in ritirata e alla complessa opera di salvataggio degli ebrei, compiuta dal maresciallo. Dite voi se non sarebbe bastato questo per meritare la medaglia del giusto. E' un riconoscimento che non concede Israele, mi disse il genero Rizzi, con la speranza che io ne parlassi pubblicamente. Ma sentiamo la testimonianza del vecchio magazziniere sul comportamento del maresciallo rimasto solo nel suo campo ad aspettare l'arrivo degli americani. Era seduto su uno sgabello col fucile accanto. Voi qui? Gli chiesi; e mi rispose: - non posso abbandonare il posto. - La famiglia era stata mandata via. Gli altri, quelli che avevano da farsi perdonare qualcosa, erano scappati. La prima a scappare è stata la Milizia. Portarono via tutto, materassi, coperte. I viveri no, erano sotto chiave. L'impresa Perrini, quando riebbe il Campo, credeva di non trovare niente. Voglio vedere i magazzini coi macchinari, disse il padrone. Era con la moglie spaventata. Le disse: Mimma, c'è ancora tutto, non credendo ai propri occhi. A Matera avevano rubato tutto. Il maresciallo restituì denari e gioielli agli internati, fino all'ultimo anellino. Ecco perché ogni tanto arriva qualcuno che vuole visitare il Campo. L'ultima a venire è stata una signora turca che sposò a Ferramonti. Oggi è proprietaria dell'Hotel delle Muse, ai Parioli di Roma.

Pubblichiamo un ricordo di La Cava da parte di un’ebrea [probabilmente si tratta di Alice Redlich] ex internata a Ferramonti, apparso su Calabria Oggi nel ‘91.
So che tra breve si terrà una commemorazione in ricordo di Mario La Cava ed io, purtroppo, non potrò partecipare personalmente, essendo il viaggio per me troppo faticoso, causa del mio male all'anca e al femore. Avrei voluto essere tra i familiari e gli amici di questo piccolo uomo, ma così grande , veramente grande nel suo mestiere di scrittore e grande nel cuore, attaccato alla sua terra di Calabria da dove Lui non volle mai allontanarsi,e io spero che i calabresi abbiano capito chi era Mario La Cava e che onore abbia portato alla Regione con i suoi scritti. Lo conobbi molti anni fa, dopo uno scritto sul Corriere della Sera,molto interessante, sul campo di concentramento di Ferramonti, e capii subito che era un uomo sensibile,dotato come scrittore e poeta. Egli venne aRoma , io invitai altre persone del suo livello culturale, e passammo una giornata chiacchierando, ma era sempre Lui che raccontava e tutti capimmo subito che teneva banco Lui, essendo un narratore formidabile e con una cultura assai vasta. Egli conobbe tutta la mia famiglia a Roma e tutti furono subito entusiasti di Lui e,così,siamo rimasti in continuo scambio epistolare. Lui mi regalò vari suoi libri, racconti, romanzi, caratteri che ogni tanto rileggo con molta attenzione. Sapevo che aveva poche entrate e non aveva una vita molto facile a Bovalino; con la sua cultura egli sarebbe potuto andare molti anni fa al Nord in una grande città ma, come mi ripeteva, non volle mai allontanarsi dal suo paese, era sinceramente attaccato alla sua Calabria e penso che i suoi concittadini non hanno capito l'uomo, il suo valore; nessuno ha mai cercato di dargli una mano a trovare un posto in un giornale, in una biblioteca, in una casa editrice; ci sarebbero stati tanti modi da parte dei suoi concittadini e delle autorità d'aiutarlo , ma purtroppo nessuno l'ha mai fatto. Quando si ammalò e veniva spesso a Roma in ospedale, io andavo a trovarlo e, così, avevamo occasione di parlare. Lui si confidava,raccontandomi del suo passato, e aveva sempre speranza nel futuro e di guarire per poter scrivere e raccontare alla gente. Per me non era soltanto un genio, ma un uomo sinceramente buono d'indole, un ottimo padre di famiglia, il quale avrebbe voluto fare tanto nella vita,ma dato che nessuno gli ha mai dato una mano, lui è rimasto sempre quello che era,uomo sincero e buono, un vero Calabrese che amava la sua terra , più di ogni altra cosa, melo ripeteva sempre. Aveva ottime idee e, se il buon Dio gli avesse concesso di vivere ancora un po' di anni, lui avrebbe scritto e donato a noi tutti tanta saggezza, amore peril prossimo. I suoi racconti sono deliziosi e per me quest'uomo resterà sempre nel mio, cuore. Mario La Cava andò varie volte a visitare l'ex campo di concentramento di Ferramonti (Tarsia), indagava sul passato ,scrisse articoli. Penso che molta gente prima non sapesse che la Calabria avesse un campo di concentramento durante gli anni 1940/1945, poi il Dott. Spartaco Capogreco scrisse un libro su questo campo,e fece altre indagini per portare a conoscenza di tutti quanti questa ignobile impresa durante il fascismo. Anche Capogreco conosceva bene Mario La Cava e la sua famiglia, e certe volte insieme, parlammo di Lui, specialmente quando si ammalò purtroppo seriamente di quel male che lo portò alla fine. Io e la mia famiglia lo ricorderemo con affetto e tenerezza. I suoi scritti e i suoi libri avranno il posto d'onore nella nostra casa. Sia Mario La Cava un esempio per tutti gli Italiani e per la sua amata Calabria. Sinceramente con molto rispetto.
Ebrea austriaca ex internata nel campo di concentramento di Ferramonti

2 commenti:

cik ha detto...

mi piace questo blog.....non credo di essere ebreo, ma per gli ebrei sento un affetto più che fraterno....sono stato in palestina e mi sono sentito a casa mia...Strano vero?.....leggerò un pezzo alla volta...grazie....serena notte..

Agazio Fraietta ha detto...

E' una sensazione di molti... che poi hanno fatto ritorno a casa.
L'ebraismo non pratica il proselitismo, ma se il tuo cuore ti chiama, dovresti cercare di ascoltarlo, io credo