di Vincenzo Villella
Ingresso alla JudecaLa presenza degli ebrei a Nicastro è storicamente documentata nel XIII secolo, anche se, quasi certamente, essi vi si insediarono già tra la fine del IX e l'inizio del X sec. in concomitanza con le incursioni saracene di quel periodo, allorché nacque il primo nucleo abitativo denominato Musconà. Appena arrivati, gli ebrei erano già in numero tale da costituire una comunità. Esigenze immediate, quindi, erano quelle di avere, oltre alle case da abitare, anche un locale per la preghiera comune (futura sinagoga), un bagno e una macelleria rituali e un piccolo appezzamento di terreno per il cimitero. Volontariamente scelsero una residenza circoscritta, un quartiere tutto concentrato, cioè il Timpone nel centro storico, circondato dai due torrenti Canne e Barisco. Questa scelta era vista di particolare buon occhio dalle autorità cittadine le quali avevano così maggior agio di controllare quel quartiere, di registrare i movimenti degli abitanti e di imporre i tributi. Inizialmente, quindi, la judeca di Nicastro non era un recinto forzato, una misura discriminatoria imposta agli ebrei. Essa, comunque, per la sua caratteristica conformazione non presentava alcuna possibilità di espansione.
La presenza ebraica a Nicastro però non è documentata da nessuno degli storici locali. Le fasi di questa presenza sono state tramandate in forma episodica in quanto nessuno degli storici nicastresi ha dedicato una sola parola agli ebrei: non Maruca, non Scaramuzzino, non Giuliani, non l'Ardito. Anche padre Francesco Russo nella sua Storia della diocesi di Nicastro ha ignorato la comunità ebraica nicastrese. C'è stata una sorta di rimozione della storia della presenza ebraica a Nicastro per cui, a livello locale, non abbiamo una documentazione adeguata sugli importanti contributi culturali ed economico-sociali che pure gli ebrei hanno offerto alla comunità nicastrese come a tante altre comunità dell'Italia meridionale.
Si hanno, infatti, solo notizie staccate e frammentarie e, come in altri paesi della Calabria, la presenza ebraica è testimoniata innanzitutto dal nome del quartiere della judeca e dalla memoria popolare che ricorda gli ebrei come usurai e basta. Il pregiudizio nei loro confronti non li rendeva meritevoli di essere ricordati in altro modo. Dovevano essere senza storia, non dovevano lasciare tracce nelle memorie patrie. Tollerati, ma mai integrati, utilizzati, ma sempre guardati con sospetto e avversione. Non sappiamo di preciso quanti fossero. Certamente il loro quartiere era densamente e interamente popolato.
Secondo la relazione ad limina del vescovo Francesco Montorio del 1597 (la più antica che si conserva nell'archivio diocesano) Nicastro contava 3400 abitanti, Sambiase 2500 e Zangarona 480. Sulla base dei dati del pagamento delle imposte, risulta che alla fine del XIII secolo (anno 1276) in Calabria c'era una popolazione ebraica di circa 2500-3000 ebrei. Nel Mezzogiorno continentale erano poco meno di 15mila. Sul finire del XV secolo, secondo i dati dell'imposta judaica, vivevano in Calabria 12mila ebrei (1000 a Montalto, 700 ad Altomonte, 300 a Monteleone). E' stato calcolato che, in generale, in Calabria un abitante su 10-12 era di cultura e religione ebraica. Dunque, la comunità ebraica di Nicastro, stando ai suddetti dati vescovili, era di 300-400 persone.
Dall'esame di alcuni documenti dell'archivio di stato di Napoli possiamo affermare con certezza che anche a Nicastro gli ebrei hanno rivestito un ruolo economico-sociale molto importante. Detestati e ricercati, vittime di persecuzioni, ma anche lusingati sia dall'università (così era chiamato il comune) che dai vescovi che si contendevano le cospicue tasse che essi dovevano pagare, gli ebrei hanno avuto una presenza determinante nella società nicastrese per alcuni secoli. Come risulta dai registri della Cancelleria Angioina, gli ebrei di Nicastro, insieme ad altre comunità pugliesi (Brindisi, Nardò, Melfi, Taranto), campane (Napoli, Sorrento, Amalfi, Salerno) e calabresi (Monteleone, Nicotera, Seminara, Reggio, Gerace, Cosenza, Acri, Bisignano, Castrovillari, Rossano) pagavano nel 1276 l'imposta per la distribuzione della nuova moneta della zecca di Brindisi, detta anche 'gabella judaica'.
Nella Taxatio generalis subventionis in justitiariatu Calabriae (1276) è registrata la colletta che le comunità giudaiche pagavano alla corte. Ne sono ricordate 14. La più importante, che pagava, quindi, di più, era quella di Crotone (tassata per 19 oncie, 12 tarì e 12 grana). Seguivano Reggio, Castrovillari, Bisignano, Monteleone, Cosenza, Nicotera, Nicastro (pagava solo 3 tarì e 12 grana) e altre minori. Anche nel 1278 gli ebrei di Nicastro compaiono nella Cedula di tassazione generale nel Giustizierato di Calabria per la metà dell'annuale sovvenzione dovuta pari a 4 tarì e 6 grana. La judeca di Nicastro, sorta intorno alla piccola sinagoga tra i torrenti Barisco e Canne, crebbe con gli anni nel rione Timpone. La scelta del sito rispondeva, oltre che a ragioni di sicurezza, anche e soprattutto a precise esigenze rituali in quanto gli ebrei consideravano le fonti d'acqua dolce come luoghi di epifania, collegate com'erano alla purificazione rituale per immersione. Per la cultura semitica le acque dolci sono considerate favorevoli all'uomo in contrapposizione alle acque salate e, quindi, al mare ritenuto un luogo abitato da presenze negative. La judeca di Nicastro, oltre che essere circondata dai due torrenti, poteva sfruttare anche alcune sorgenti d'acqua che garantivano l'approvvigionamento idrico.
Certamente, proprio per l'abbondanza dell'acqua disponibile, fu possibile creare il miqwéh, ossia la vasca per il bagno di purificazione rituale (il cosiddetto bagno della judeca). Il bagno rituale era riservato esclusivamente alle donne. Esse erano tenute a purificarsi mensilmente, dopo ogni loro ricorrenza, nonché alla vigilia del matrimonio e dopo il parto. Anche gli uomini si sottoponevano al bagno purificatore in apposite vasche (ancora visibili). In estate e nelle altre stagioni, quando la temperatura mite lo consentiva, il bagno purificatore veniva fatto con l'immersione direttamente nell'acqua del torrente. Queste consuetudini rituali erano importanti anche dal punto di vista igienico tanto che possiamo dire che nella judeca i servizi igienici erano più sviluppati di quelli del resto della città. Ciò è dimostrato, fra l'altro, dal minore tasso di mortalità degli ebrei della judeca e dalla inesistenza o scarsa incidenza di epidemie come quelle di colera, invece ricorrenti in città.
La piccola sinagoga, con la facciata a sud-est verso Gerusalemme, fu costruita con gli stessi materiali poveri delle case e non era volutamente appariscente come luogo di culto, anzi si confondeva con le modeste costruzioni circostanti. In questo senso, comunità e sinagoga costituivano anche nella struttura edilizia il corpo unico di tutti gli ebrei del Timpone. Se all'esterno la sinagoga era semplice come le case che avevano la facciata rustica anche per non attirare l'invidia dei cristiani, all'interno invece essa doveva essere splendidamente ornata, con decorazioni e magnifici arredi sacri. Aveva due portoni d'ingresso: uno più grande per gli uomini e uno più piccolo per le donne. In un angolo c'era il piccolo forno che era adibito esclusivamente alla cottura dei pani azzimi che l'intera comunità consumava durante la Pasqua. Era situato all'interno della sinagoga proprio per avere la certezza che non vi fossero mai stati cotti cibi contenenti lievito. In un basso non lontano dal torrente c'era il macello adibito alla mattazione, secondo le prescrizioni rituali, del bestiame grosso destinato al consumo di tutti gli ebrei della judeca. C'è da dire che un apposito Breve di papa Pio II del 1459 (che poi venne confermato dai papi successivi fino al '700 inoltrato) stabiliva che era vietato agli ebrei vendere ai cristiani carne di bestie da essi macellate. Avveniva, infatti, che la carne dichiarata ritualmente impura dagli ebrei veniva venduta a prezzo ridotto ai cristiani, pur essendovi su questa carne una tassa speciale da pagare. In uno spazio adiacente alla sinagoga c'era il piccolo cimitero ebraico.
Per la sua caratteristica conformazione, la judeca di Nicastro era un quartiere naturalmente chiuso e appartato, circondato com'era dai due corsi d'acqua che costituivano una sorta di difesa naturale per cui non c'era bisogno di mura di cinta. L'entrata era unica dal basso verso l'alto attraverso una gradinata. Anche per le limitazioni che le venivano imposte dall'esterno, la comunità ebraica era come una vera e propria istituzione extraterritoriale nel paese, con i suoi usi, i suoi costumi, le sue leggi, i suoi privilegi. La judeca di Nicastro per la sua posizione geografica costituiva un punto di riferimento e di ospitalità per gli ebrei di passaggio che, specialmente in periodi di persecuzione, si spostavano da sud verso la Calabria settentrionale. Sotto gli aragonesi risulta tra quelle che erano sottoposte periodicamente ad un apprezzamento o catasto generale dei beni. L'operazione veniva eseguita sotto la sorveglianza di un commissario regio. Le dichiarazioni venivano controllate e poi trasmesse a Napoli. C'erano poi altri balzelli da pagare come il rimborso del salario di mille ducati per il bajulo generale, il sussidio agli eventuali inquisitori, il compenso quando gli ebrei della judeca erano esentati dal segno distintivo. C'erano inoltre le altre tasse a cui gli ebrei nicastresi dovevano concorrere al pari dei cristiani in occasione di ricorrenze a corte, come matrimoni, incoronazioni, nascite di figli, ed anche in caso di guerra. Erano i cosiddetti donativi o collette. Una tassa specifica e particolare da pagare era la morthafa che consentiva agli ebrei la libertà di culto. Essa era versata al vescovo che esercitava la sua giurisdizione sulla judeca per mezzo di alcuni canonici della cattedrale. Proprio sulla riscossione di questo tributo particolare scoppiarono spesso contrasti tra il vescovo e l'Università in quanto entrambi lo pretendevano.
La popolazione nicastrese dimostrò sempre, se non proprio intolleranza nei confronti degli ebrei, una palese diffidenza. In quei tempi di estrema miseria gli ebrei erano guardati con invidia e avversione soprattutto a causa della loro ricchezza. Però essi erano indispensabili non solo per i ceti abbienti bisognosi di denaro, ma anche per il popolo che ricorreva a loro per piccoli prestiti a interesse o a pegni onde poter far fronte alle esose imposizioni fiscali. Quale lingua parlavano gli ebrei di Nicastro? Come comunicavano con la gente? In famiglia tra loro o quando non volevano farsi capire dai cristiani parlavano ovviamente in ebraico. Invece con gli altri, almeno dal 1200 in poi - come sostengono gli esperti in materia - si esprimevano in una sorta di linguaggio che aveva per base il dialetto locale al quale si intrecciavano termini del vocabolario ebraico. Una caratteristica degli ebrei era quella di dare al loro discorrere una particolare intonazione, pronunciando le parole in modo diverso (come oggi gli extracomunitari). Dall'esame di alcuni registri fiscali conservati presso l'Archivio di Stato di Napoli si ricava che anche nella judeca di Nicastro, come in altri centri calabresi, gli ebrei erano commercianti in tessuti (seta, lana, cotone) e gioielli. Alcuni, utilizzando le acque del torrente Canne, facevano i conciatori di pelli e i tintori di panni, altri commerciavano in frumento e bestiame e in altri generi commestibili. Altri mestieri erano la lavorazione del ferro e del rame nelle caratteristiche forge, l'oreficeria e l'argenteria. Un capitano tutelava l'ordine del quartiere. L'ingresso della judeca veniva aperto all'alba e chiuso al tramonto. Perciò i cristiani vi potevano entrare solo di giorno per fare acquisti o chiedere prestiti a interesse o in cambio di pegni.
Pur costituendo una comunità emarginata e non partecipando alla vita politica e amministrativa, gli ebrei nicastresi, superando le difficoltà linguistiche, si inserirono prepotentemente nel tessuto economico ed avevano per questo una costante presenza giornaliera nel mercato sottostante il quartiere giudaico e, soprattutto, un ruolo preponderante nelle fiere che si tenevano a Nicastro e nei paesi vicini. A partire dal 1476 essi ottennero che, se l'inaugurazione della fiera coincideva con il sabato o con altra festività ebraica, i mercanti ebrei che vi erano affluiti fossero esentati dal partecipare al solenne corteo di apertura con tutte le autorità pubbliche e il gonfalone cittadino in testa.
Accanto a quelli più facoltosi, che esercitavano soprattutto la mercatura, c'erano anche i piccoli artigiani, i merciaioli, i cosiddetti rivenduglioli. Tutti insieme con le loro varie attività costituirono il primo vero e proprio nucleo di industriosi imprenditori, contribuendo con la loro intraprendenza ed operosità alla trasformazione economica del territorio nicastrese. La loro presenza economica era esclusivamente urbana sia perché l'agricoltura costituiva l'occupazione meno rispondente alle attitudini degli ebrei sia perché per legge era loro vietato di diventare proprietari terrieri. Però non bisogna dimenticare che furono proprio loro ad introdurre la lavorazione della seta con tutto ciò che questa attività comportava in termini di lavoro, di commercio, di circolazione del denaro. Ricordiamo che Catanzaro nel 1400 era il principale mercato serico d'Italia e che questa attività era quasi completamente concentrata in mani ebraiche. Inoltre gli ebrei furono i primi ad introdurre la tintura dei drappi con l'indaco.
La judeca di Nicastro, come tutte le altre, dovette essere abbandonata dagli ebrei in seguito alla prammatica di espulsione del 1510. Non tutti però lasciarono il territorio. I più, infatti, cercarono rifugio nelle zone interne. Un gruppo trovò accoglienza e sistemazione a Zangarona, villaggio di albanesi, sorto nella metà del XV secolo insieme ad altri casali di origine albanese come Vena di Maida, Amato e Gizzeria. Zangarona è un esempio non solo di solidarietà, ma di pacifica convivenza di due etnie. In particolare non solo dalla judeca di Nicastro, ma anche da quella di Amantea, diverse famiglie ebraiche si rifugiarono all'interno al di là del Reventino, in teritorio di Martirano e nella valle del fiume Salso in territorio di Conflenti Soprani. Questa località, assai internata, offriva tutti i requisiti che consentivano loro di poter continuare a mantenere la propria identità e ad esercitare le loro attività: località appartata e ricchezza di acqua. L'acqua abbondante dei ruscelli di quel sito garantiva loro lo sviluppo di attività tipiche che sarebbero rimaste nella popolazione di Conflenti Soprani: conciatori di pelli, tintori, cestai, barilai, pettinai, lavoratori della cera e del miele. Furono essi, inoltre, a introdurre anche nei paesi del Reventino la coltura del gelso e la lavorazione della seta.
Il vuoto lasciato dagli ebrei a Nicastro nel campo del prestito a interesse si cercò di colmarlo con l'istituzione del Monte di Pietà che, come si legge nello statuto, aveva lo scopo di "dare prestiti su pegni senza agio per i poveri". Esso però, - come denunciava il vescovo di Nicastro - essendo finito ben presto nelle mani di affaristi, deviò dalla finalità benefica prevista dal Concilio di Trento come "commodum pauperum previis pignoribus". Anziché dare i prestiti ai poveri bisognosi, gli amministratori li davano a se stessi e ai propri congiunti impegnando però - come denunciava il vescovo - oggetti di nessun valore quali "pezze e stracci di lana e tela i quali per essere stati impegnati per più di 15 anni sono consumati da tarme e sorci". Il vescovo cercò di correre ai ripari perché il Monte di Pietà non andasse del tutto in rovina. Pertanto deputò il vicario vescovile e il cappellano maggiore della cattedrale, un procuratore e un notaio per verificare i conti e far pagare quelli che avevano sottratto i soldi. Ma dovette amaramente constatare che, per recuperare i soldi rubati, ci sarebbero state molte difficoltà dal momento che, essendo gli amministratori del Monte dei laici, non si sarebbero fatti processare dal tribunale ecclesiastico. Il popolo, vivendo nella miseria, oppresso dal bisogno, era costretto a ricorrere all'usura specialmente in seguito a sciagure e calamità. In questo caso i Monti di Pietà dovevano soccorrere le popolazioni così come conclamavano gli statuti. Invece proprio le masse contadine restavano escluse dai prestiti che erano esclusivo appannaggio dei ceti abbienti. Proprio questi ricchi divennero gli usurai cristiani.
Ad essi, una volta sparita la terribile concorrenza ebraica, si doveva rivolgere la povera gente specialmente dopo le calamità che causavano lutti e distruggevano i raccolti. A quanto risulta dai documenti notarili, gli usurai cristiani richiedevano interessi di ben due carlini al mese per ogni ducato prestato e cioè il 200/% al mese e il 2400% l'anno. Inoltre, poiché la povera gente era costretta a garantire i prestiti anche sulla casa, sul bestiame o sul piccolo appezzamento di terra, in caso di insolvenza gli usurai cristiani pignoravano questi beni lasciando sul lastrico i poveri debitori insolventi. Nell'archivio di Stato di Lamezia Terme ci sono a centinaia gli atti notarili che documentano questi autentici delitti a danno della povera gente. E i nomi di questi usurai cristiani appartenevano a note famiglie con grandi patrimoni fondiari. Di fronte a questa situazione la popolazione nicastrese, come quella di altri centri del regno di Napoli, inviò una supplica al sovrano chiedendo di far ritornare gli ebrei esternandogli "il bisogno grandissimo che teneno de li ebrei per li pagamenti fiscali quali serriano impossible poternosi pagare senza de la stancia de quili". In effetti, Carlo V, per rispondere a tutte le richieste in tale senso, il 23 novembre 1520 emanò un editto con cui venivano richiamati nel regno gli ebrei a particolari condizioni. Alcuni ebrei fecero ritorno anche a Nicastro. Ma l'opposizione della Chiesa "contra obstinatissimam judaeorum perfidiam", affidata alle prediche di preti e frati, scatenò nuovamente l'odio contro quelli che avevano cercato di trarre profitto dall'editto. La cacciata definitiva degli ebrei dal regno di Napoli avvenne nel 1702 pochi anni prima che finisse la dominazione spagnola sostituita da quella degli Asburgo d'Austria (1734).
Quale fu il destino della judeca di Nicastro? Le poche famiglie ebraiche convertite al cristianesimo e integrate grazie a matrimoni misti restarono nelle loro abitazioni e col tempo persero completamente la loro identità ed appartenenza. Il resto del quartiere, che si snoda verso l'alto della timpa a partire dal ponte sul Canne proprio nelle vicinanze della confluenza col Niola (chiamato allora Ponticello o Piedichiuso), fu occupato in parte inizialmente da alcuni abitanti dei vicini quartieri dopo che le case abbandonate dagli ebrei fuggiaschi furono messe all'incanto. L'occupazione totale e massiccia del quartiere avvenne dopo la disastrosa alluvione del 6 gennaio 1563 del Canne e del Niola. Fu interamente sommerso il rione denominato Le capanne che sorgeva proprio a ridosso del Canne. Gli scampati occuparono le case del soprastante quartiere ebraico della judeca, oggi chiamato Timpone. Anche la piccola sinagoga, posta al centro del quartiere, fu adibita inizialmente ad abitazione da chi l'aveva acquistata. Essa fu trasformata in chiesa a metà del '700. Infatti, nel 1720 un certo D. Orazio Vicino, prima di morire, lasciò al vescovo quella casa di sua proprietà in cambio di un certo numero di messe in suffragio della sua anima. Alcuni anni dopo un suo figlio di nome D. Antonio Vicino, d'accordo col vescovo, su quella casa fece costruire la chiesa, dedicandola a S. Agazio, soldato romano martire, e ottenendo che essa fosse considerata de jure patronatus della sua famiglia.
Il ponte della Judeca e la Judeca negli anni '20.
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