Calabria judaica - Sud ebraico

Calabria judaica ~ Sud ebraico
Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria
con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione

Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé.
La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu.
Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta.
Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne).
Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; a
ttraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.

IN PRIMO PIANO: eventi e appuntamenti

27 gennaio 2019: Giorno della memoria

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giovedì 28 febbraio 2008

Emilio Sacerdote: da Vibo al lager

Il 9 gennaio 1893, nasce a Monteleone (l'odierna Vibo Valentia) Emilio Sacerdote, figlio di Lazzaro, ufficiale dell'esercito e di una vibonese, Virginia Pugliese (da notare come Pugliese sia un cognome diffuso tra gli ebrei). Dopo aver ricevuto dal Governo italiano varie onorificenze per il coraggio dimostrato nella Prima Guerra Mondiale, ricevette persecuzione e morte.
Pur non avendo vissuto molto tempo in Calabria, sappiamo dalla sua famiglia che si considerò sempre calabrese.
La sua memoria sia di benedizione.


© IWM

Riporto un ricordo della sua vita pubblicato sul bimestrale ebraico torinese haKehilla ed un resoconto della commemorazione che si è tenuta quest’anno a Vibo in occasione del Giorno della memoria.

da haKehillah 2006, 2
La vicenda di Emilio “Dote” Sacerdote
Magistrato,
partigiano, prigioniero del Lager - di D.S.

Storie come quella di Emilio Sacerdote ci fanno male e bene a un tempo. Ci fanno male perché ripercorrono l’ennesimo itinerario di dolore, di vuoto, di scomparsa nel nulla e di lacerazioni familiari che caratterizza ogni vita travolta dalla Shoah. Ci fanno bene perché ci portano a rivivere un’esperienza di alto valore morale, civile, politico sulla quale è sempre utile riflettere. Magistrato calabrese nato a Monteleone (oggi Vibo Valentia) nel 1893, nel 1938, a Milano dove da tempo vive, Sacerdote è offeso in quanto ebreo durante una pubblica udienza. Amareggiato, lascia la magistratura ancor prima di essere radiato dall’Albo degli avvocati in seguito alle leggi razziali. La guerra coglie lui come tutti gli ebrei italiani in una posizione di evidente emarginazione, che si fa drammatica dopo l’8 settembre. Emilio decide di non cercare rifugio in Svizzera, come molti fanno, ma di opporsi all’occupazione tedesca e alla Repubblica Sociale. Si unisce ai partigiani entrando nella formazione autonoma della Valle di Viù, una delle Valli di Lanzo vicino a Torino. Ora si fa chiamare “Dote” e per la sua alta formazione giuridica diviene rapidamente Presidente del locale Tribunale Partigiano e Capo di Stato Maggiore. Manterrà questi incarichi anche quando passerà alle formazioni garibaldine e poi a quelle GL. È una classica delazione a tradirlo il 30 settembre 1944, quando viene arrestato, portato prima alle Nuove di Torino e poi rinchiuso nel Lager di Gries presso Bolzano. La sua condizione di ebreo viene nel frattempo scoperta per la denuncia dello stesso delatore. Sappiamo dell’aggravarsi della sua situazione al campo di Gries e della pesantezza del suo lavoro “di pala e di picco” da alcune lettere che può scambiare con i suoi familiari grazie all’aiuto di un autista della Lancia. Poi, come in altri analoghi casi drammatici di cui abbiamo notizia, è lo stesso Dote ad annunciare con una lettera a casa la sua partenza per il Lager, di cui certo ignora l’essenza distruttiva. La sua destinazione è Flossenbürg, in Germania, dove resiste quasi fino alla conclusione della guerra. Viene quindi trasferito a Bergen Belsen, come risulta da una Transportliste dell’8 marzo 1945. Questo documento precedente di due mesi alla fine del conflitto è l’ultima traccia di vita che abbiamo di lui.


da CalabriaOra, ed. di Vibo di lunedì 28 gennaio, 2008 pag. 21

Il Giorno della memoria per il comandante Dote

Al Valentianum l’iniziativa della fondazione Ferramonti.
Il Giorno della memoria: un giorno per ricordare gli orrori della Shoah.


Un giorno per commemorare la straor
dinaria figura del partigiano Emilio Sacerdote ed il suo sacrificio. Si è tenuta ieri mattina al Valentianum, l’iniziativa della fondazione Ferramonti di Tarsia, presieduta da Carlo Spartaco Capogreco, che ha organizzato un incontro, coordinato dalla giornalista Anna Longo, al quale hanno preso parte anche lo storico e documentarista Marco Coslovich e il docente universitario Luigi Lombardi Satriani. Un convegno intenso, utile a ripercorrere le tappe della vita di un eroe della resistenza.
Nato a Vibo Valentia, l’allora Monteleone, nel 1893, da un ufficiale dell’Esercito che aveva sposato una donna vibonese, Emilio Sacerdote, trasferitosi al Nord con la famiglia e completati gli studi, divenne avvocato e magistrato. Una volta promulgate le leggi razziali venne perseguitato dal regime nazifascista. Diventò quindi un combattente valoroso con il nome di comandante Dote. Poi catturato e deportato a Bolzano, morì nel campo di concentramento di Bergen Belsen nel 1945. Numerose le testimonianze del suo coraggio e valore umano, da parte di coloro che sono sopravvissuti ai lager di Bolzano, Flossenburg e Bergen Belsen.
La fondazione Ferramonti ha anche inteso dare valore all’iniziativa assunta dall’amministrazione comunale di intitolare una via cittadina a un eroe della Resistenza, testimone della persecuzione degli ebrei e degli orrori della Shoa. Il recupero della sua memoria lo si deve principalmente all’impegno del collezionista e studioso dell’antisemitismo italiano Gianfranco Moscati, nonché allo sforzo profuso dall’associazione Italia - Israele e dalla fondazione Ferramonti di Tarsia.
Grazie in particolare al professor Carlo Spartaco Capogreco, la giornata della memoria celebratasi ieri a Vibo Valentia e dedicata al comandante Dote, è stato uno degli appuntamenti cruciali celebratisi in Calabria. «Un ricordo doveroso - ha sottolineato Capogreco - per una figura che i vibonesi, i calabresi e non solo, devono riscoprire, soprattutto per tenere vivo il ricordo della Shoa».
Anche il presidente della Regione Agazio Loiero ha voluto inviare un messaggio in cui si sintetizza, l’impegno che devono assumere le istituzioni a supporto di tali iniziative: «Molte comunità fanno fatica oggi a ricordare - ha spiegato Loiero - Il fatto è che la memoria appartiene a tutti, a tutto il popolo e quando questo dimentica, tutto viene perduto. Anche gli storici possono non recuperare il ricordo e allora si perde la testimonianza. Hanna Arendt, politica e filosofa tedesca di famiglia ebraica, perseguitata e costretta dai nazisti a fuggire in America, diceva che quel popolo che non conosce la propria storia ha perso la propria identità: è senza memoria. In Italia, negli anni ’40, c’erano circa 258 luoghi di concentramento. Ferramonti, rappresenta un pezzo importante di quella tragedia civile, è bene ricordarlo, ancora oggi, soprattutto alle nuove generazioni. Anche per questo voglio sottolineare - ha concluso Loiero - quanto prezioso sia stato il lavoro svolto in questi anni dalla Fondazione Ferramonti. Un’opera, importantissima, avviata vent’anni fa per volontà di chi crede nella cultura della verità storica attraverso il recupero del “Campo”, continuata con il recupero della memoria come avvenuto a Vibo per Emilio Sacerdote».

Un biglietto scritto da Emilio Sacerdote alla famiglia
il giorno della sua partenza per la Germania.


Emilio Sacerdote nel 1944










Nel marzo 1945 a
Flossenbürg


La sinagoga di Bova Marina

Dall'ottima pubblicazione di Augusto Cosentino

IL SITO

In località S. Pasquale nei pressi di Bova Marina (contrada Deri), negli anni 1983-1987, si è rinvenuta fortuitamente e scavata una struttura che è stata chiaramente riconosciuta come una sinagoga ebraica (1). La sinagoga sorgeva in una località interessata da altre strutture. L'area non è ancora a tutt'oggi completamente esplorata, ma dovrebbe trattarsi con ogni probabilità di un piccolo villaggio in prossimità della strada costiera che, in antico, collegava Reggio con le altre località poste lungo la costa ionica. Con buona probabilità il sito è identificabile con l'antica Scyle, indicata, con diverse varianti, negli Itineraria antichi (2). Già il Catanea-Alati notava che accanto alla contrada Deri si conserva in un luogo il toponimo Scillàca o Scilliàca (3).
L'itinerario dell'Anonimo Ravennate segna in due diversi passi il toponimo di Sileon (4) dopo di quello di Leucopetra, muovendosi da Reggio lungo la via ionica.
L'itinerario Guidonense, epitome del precedente, conferma il nome del sito, dandone due varianti: Scilleum (5) e Sileum (6). La seconda riprende il nome dato dal Ravennate. La variante Scilleum è invece seguita da una fonte che supera le altre per importanza, la Tabula Peutingeriana, che dopo Regio e Leucopetra pone Scyle (7). La Tabula pone però un altro problema, rappresentato dalle distanze che sono segnate tra i nomi dei siti. Tra Regio e Leucopetra, separate da un fiume, si pone una distanza di 5 miglia. 20 miglia separano Leucopetra da Scyle, e altre 60 separano Scyle da Lucis. Ora se teniamo come punti fermi Reggio e Lucis = Locri, e accettiamo l'identificazione di Leucopetra con Lazzàro e di Scyle con Bova Marina, possiamo osservare che le distanze tra i primi tre siti (Regio, Leucopetra e Scyle) sono sostanzialmente esatte (8). Un problema sorge però dall'indicazione di LX posta tra Scyle e Lucis. In effetti la distanza tra Bova Marina e Locri è molto minore. La Crogiez, pur notando che "le problème des distances trop importantes de la Table, qui indique LX milles de Scyles à Locres, n'à pas été résolu" (9), non offre alcun tentativo di soluzione, pur concludendo che "on propose de reconnai^tre la station Scyle dans l'ensemble découvert dans la contrada Deri (loc. S.Pasquale)" (10). Ci sono tre possibili soluzioni del problema. Il Kahrsted tentava di risolvere l'aporia correggendo il LX della Tabula con XL (11). Il Catanea-Alati riteneva invece che si può pensare ad una deviazione dell'itinerario stradale, che, abbandonando la costa dopo Scyle, doveva internarsi per un certo tratto per poi nuovamente tornare sulla costa più avanti e toccare infine Lucis-Locri, facendo così aumentare la distanza fino a quella indicata fra Scyle e Lucis (12). Potrebbe essere un segno di questa deviazione verso l'entroterra la linea stradale della Peutingeriana, che dopo Scyle sembra fare una rientranza a sinistra fino a Lucis. Su tale ipotesi non concorda il Givigliano, che nota come "dal Torbido a Reggio i maggiori e più importanti addensamenti archeologici si trovano proprio sulla costa" (13). Una terza soluzione sta nel ritenere il LX indicato in quel punto della mappa non come l'indicazione della distanza tra i due siti di Scyle e Lucis, ma come un'indicazione della distanza complessiva tra Regio e Lucis; un po' come si fa in talune carte autostradali moderne, in cui i numeri di un colore indicano le distanze parziali tra alcuni punti, e altri numeri indicano le distanze tra altri punti più importanti. Nel nostro caso si tratterebbe della distanza tra due città, Reggio e Locri, indicate con il nome e con il disegno che lo accompagna.
Si noti ancora come l'altro importante itinerario dell'antichità, l'Itinerarium Antonini, non cita affatto la località. Anzi la toponomastica stradale della zona è alquanto diversa per tutta la zona, ponendo dopo Regio le località di Decastadium, Hipporum e Altanum, prima di Subsicivo=Locri. Secondo Catanea-Alati questo segnerebbe il passaggio tra una fase, testimoniata dall'Itinerarium Antonini, in cui vi erano alcune tappe stradali, che vennero a decadere nella tarda antichità in favore di altre, tra cui appunto Leucopetra e Scyle (14).
La presenza di un asse viario romano nei pressi del sito in questione è confermata da un ritrovamento archeologico degli inizi del secolo, avvenuto in contrada Amigdalà, consistente in un miliario (15). Il cippo, di "calcare granitico locale", fu rimodellato probabilmente da una colonna, e presenta due iscrizioni contrapposte. Le due iscrizioni testimoniano due momenti diversi di costruzione e di restauro della strada (16). La prima cita l'imperatore Massenzio, ed è databile agli anni 307-312 (17). La seconda viene datata al triennio 364-367, sotto gli imperatori Valentiniano e Valente (18). Altri due miliari rinvenuti ad alcuni chilometri a nord del sito di S.Pasquale, a Melito Porto Salvo (19), confermano che una strada romana passava lungo quel tratta costiero in età tardo antica.
Un'altra fonte epigrafica, il famoso Lapis Pollae, cita le popolazioni che offrirono il loro contributo finanziario nella costruzione della strada Popilia-Aquilia. Si citano "Napetinei, Hipponiatei, Mamertinei, Rheginei, Scyllacei, Cauloniatai, Laometicei, Terinaei, Temsanaei, Locren..., Thuriat..." (20). Ora è evidente il criterio topografico che elenca le popolazioni da nord verso sud fino a Reggio, quindi prosegue lungo la litorale ionica risalendo verso Thuri. Sono identificabili le popolazioni che da Napitia (Pizzo) si snodano via via verso sud fino ai Reggini. Sono evidentemente fuori posto, nell'ordine geografico, i Locresi (21). Ma resta il problema degli Scyllacei. Sono anch'essi fuori posto nell'elencazione? Non sarebbe così se li identificassimo con gli abitanti della Scyle posta fra Reggio e Locri. Sono altrimenti identificabili con gli abitanti di Scolacium, importante città romana individuata nei pressi di Catanzaro Lido.
Se accettiamo l'identificazione di Scyle con la zona di S.Pasquale di Bova Marina, siamo di fronte ai resti archeologici di un punto di sosta lungo una strada romana (22). Si trattava probabilmente di una mansio. Sappiamo che spesso tali mansiones e stationes, che erano nate in origine per il cambio dei cavalli del cursus publicus, divennero spesso, nella tarda antichità, agglomerati urbani. Sorgevano inoltre talvolta in posizioni strategiche nell'economia delle comunicazioni, presso punti di approdo quando si trattava di vie costiere. E' questo il caso di alcune stationes della Calabria. Potremmo pensare che il sito che sorgeva presso Bova Marina era un punto di approdo per i traffici importanti che avvenivano con l'Africa settentrionale. Contatti confermati, per tutta l'antichità e per la tarda antichità dalla ceramica.
Il sito ebbe una sua prima fase di vita già in età ellenistica, documentata solo dalle rilevanze ceramiche (23).

LA SINAGOGA

La sinagoga sorgeva in una zona periferica dell'insediamento, che, seppur inesplorato, si estende verso sud-est e verso nord-ovest (24). La memoria storica locale ricorda diversi rinvenimenti nella zona che potrebbero essere relativi al sito in questione (25). Il più importante riguarda probabilmente una serie di costruzioni (26) e quello che fu identificato come un impianto termale (27), ritrovati negli anni 60 ed in seguito interrati ed obliterati dalla costruzione del villino Nesci. La preziosa descrizione del Catanea-Alati, testimone oculare dei rinvenimenti, non è purtroppo corredata da piante o fotografie.
La sinagoga presenta almeno due fasi principali. La fase più antica dovrebbe essere, secondo la Costamagna, degli inizi del IV sec. (28). In questo periodo si costruiscono tre ambienti rettangolari affiancati, sul lato sud-ovest, e due ambienti quadrati sul lato nord-est. Gli ambienti rettangolari laterali sono in comunicazione con quelli quadrati. Tutte queste strutture hanno una coerenza di orientamento, lungo l'asse nord-ovest - sud-est, e l'intero edificio ha una forma tendente al quadrato.
L'ambiente principale dell'edificio è ben distinguibile dagli altri per il fatto che è adornato e monumentalizzato in modo precipuo.
Si tratta dell'ambiente quadrato meridionale. All'interno di questo si svolge un tappeto musivo scandito in sedici riquadri da un motivo a doppia treccia. Il perimetro esterno del mosaico è segnato da un bordo con motivo di foglie e frutti. Inscritti nei riquadri dei motivi circolari, al centro dei quali sono posti degli emblemata che alternano nei diversi riquadri il nodo di Salomone e la rosetta. I riquadri lungo la parete di ingresso sono realizzati solo a metà per mancanza di spazio, Questo fa pensare, come nota la Costamagna, che il mosaico è stato eseguito pedissequamente sulla base di un cartone di modello (29). E' possibile che tale modello non fosse stato realizzato espressamente per la sinagoga di Bova, ma provenisse da un'altra località. Questo spiegherebbe il taglio del disegno. Il riquadro al centro della stanza è diverso dagli altri: al centro dell'emblema sta la menorah; sui lati di essa a destra l'ethrog (30) e il ramo di palma, a sinistra lo shofar (31). Si tratta degli elementi tipici del culto ebraico, comunissimi nell'arte ebraica antica.

La menorah (rovinata nella parte centrale).
In basso si notano bene i piedi del candelabro.
Ai lati di questi si simboli della festa di Sukkoth
La menorah ha i bracci costituiti da rami su cui sono infilati melograni e con le estremità superiori raffiguranti le sette lucerne accese. La presenza di simboli relativi al culto giudaico è l'elemento che ha permesso di identificare inequivocabilmente l'edificio come sinagoga. Come nota il Goodenough, tra i diversi simboli ebraici "the sevenbranch "candlestick", the menorah, was far the most frequent, but with it, usually clustered about the lower part of the stem, were often also shown in more or less recognizable form one or all of the following: the bundle of twigs (the lulab), the little citrus fruit (the ethrog) carried in association with the lulab at the Feast of Tabernacles, as well as the shofar or ram's horn blown on New Year's, and a little shovel which it is now generally agreed was used for burning incense" (32). Tali simboli sono molto comuni nelle rappresentazioni figurate dell'arte ebraica, altrimenti povera di raffigurazioni (33), che sono proibite dalla Legge (34). Li ritroviamo nelle catacombe ebraiche, incise su lastre marmoree e dipinte su arcosolia, nei vetri dorati ecc. (35). Essi rimandano al culto principale, quello del tempio di Gerusalemme. Ora siamo in un'epoca in cui il tempio era stato distrutto da alcuni secoli. Si tratta dunque di un richiamo ideale ad un'epoca che i Giudei della Diaspora continuavano a vagheggiare.
Già Goodenough notava come tali simboli facessero riferimento alla festa dei Tabernacoli o Festa di Sukkoth (36).

Un frammento del mosaico
con la decorazione geometrica
del cd. ‘nodo di Salomone’.
Altri studiosi continuano su questa strada, vedendo nei simboli dell'ethrog e del lulab, tipici di questa festa, associati alle menorot e al sacrario della Torah, la rappresentazione della fede messianica (che in quella trovava la sua espressione rituale) (37) e della ricostruzione del Tempio (38), con tutte le relative implicazioni nazionalistiche (39). Dal punto di vista decorativo, il mosaico mostra legami con l'arte musiva dell'Africa settentrionale (in particolare con i mosaici della Tunisia) e con la Sicilia (Piazza Armerina) (40). Il mosaico di San Pasquale appartiene al tipo 3 della classificazione dei pavimenti mosaicati sinagogali dell’Ovadiah (41). La forma della menorah raffigurata nel mosaico appare per la prima volta, secondo il Negev, nelle rappresentazioni del soggetto, tra la seconda metà del IV e l’inizio del V secolo d.C., continuando fino al VII sec. (42).
Alcune importanti trasformazioni dell'edificio avvengono probabilmente verso gli inizi del VI sec. Viene rifatta la parte sudorientale della sinagoga, abbattendola completamente, regolarizzando il terreno con una colmata, e ricostruendo gli ambienti con diverse dimensioni. La stanza rettangolare orientale riprende sostanzialmente la precedente, ma viene pavimentata in laterizi. Il secondo ambiente viene suddiviso in due stanze quadrate. Una fungeva probabilmente da atrio, la seconda da magazzino, per il ritrovamento in situ di parecchi frammenti di anfore. Si aggiunge inoltre sul lato nord-occidentale della sinagoga un altro ambiente quadrangolare, in asse con l'aula principale. All'interno di questo si è ritrovato un grande dolium interrato e un tesoretto monetale all'interno di una brocca (43). Si noti che questo ambiente aggiunto non comunicava direttamente con la sinagoga. Le trasformazioni di questo periodo fanno assumere all'edificio una forma decisamente diversa da quella della prima fase. A livello planimetrico infatti, dalla forma quadrata dell'intero edificio si passa ad una forma di ‘elle’. Anche all'interno dell'aula principale avvengono alcune trasformazioni, che sottolineano maggiormente l'orientamento della sinagoga verso sud-est. Ovvero in direzione di Gerusalemme, secondo l'uso conosciuto per tutte le sinagoghe, sia in Palestina che nella Diaspora (44). Infatti sulla parete orientale dell'aula si apre una piccola abside al centro della parete.
Questa viene monumentalizzata ulteriormente in quanto viene rialzata con un gradone in muratura rispetto al livello dell'aula, e circondata da una balaustra che doveva poggiare su ciottoli di fiume e su una lastra di marmo di reimpiego.
Questa trasformazione va a rompere in quest'area il pristino pavimento a mosaico. Nella zona rialzata e circondata dalla balaustra si costruì un tratto di mosaico che imitava i riquadri del pavimento precedente con il nodo di Salomone e altri motivi geometrici. Tale settore di mosaico pertinente alla seconda fase del monumento è più povero nella fattura del mosaico originario (45).
Si tratta qui della costituzione di una specie di bemah, un punto rialzato nei pressi del tabernacolo della Torah da cui il Presidente della liturgia proclamava la Scrittura o la spiegava (46).
Inoltre nell'angolo est della sala si rompe il mosaico antico per inserire un dolio interrato. All'interno di questo si sono ritrovati frammenti di lampade di tipo palestinese. Ma la scoperta più importante, all'interno del dolio, sono stati "sette sostegni per stoppino, ottenuti ripiegando opportunamente una lamina di piombo" (47). Si tratta probabilmente della parte terminale dei sette bracci di una menorah, il candelabro eptalicne, che abbiamo visto raffigurato nel mosaico al centro della sala (48). Probabilmente il resto del candelabro, che non si è conservato, doveva essere in materiale ligneo o deperibile (49). Il candelabro, insieme alle lucerne conservate nel dolio, doveva adornare la zona absidale della sinagoga. Zona che era senza dubbio l'edicola della Torah, che custodiva i sacri testi biblici (50). Nella stessa fase di trasformazione della sinagoga, databile con buona approssimazione agli inizi del VI sec., fu costruito a Sud-est un edificio con ambienti quadrati e ambienti allungati interpretabili, secondo la Costamagna, come scale, che dovevano quindi dare accesso ad un piano rialzato. Sotto il crollo dell'edificio si sono ritrovate alcune sepolture. Unico elemento datante una moneta piuttosto consunta dell'età di Arcadio. Solamente a livello di ipotesi di lavoro si potrebbe proporre un'interpretazione della struttura come albergo per eventuali correligionari di passaggio e/o ambiente per lo studio della Torah. Presso le varie comunità giudaiche antiche infatti, esistevano di queste strutture adiacenti alle sinagoghe (51). Tra la fine del VI e gli inizi del VII sec. abbiamo tracce di un incendio e di una distruzione violenta dell'insediamento. Il tesoretto ritrovato nell'ambiente settentrionale, con monete di circolazione corrente, testimonia un abbandono improvviso e definitivo del sito. L'elemento datante più tardo è un frammento di ceramica sigillata africana della prima metà del VII sec. (52).
La tipologia edilizia dell’ultima fase può essere inquadrata al terzo tipo di sinagoga detta ‘basilica with an apse’ o ‘apsidal synagogue’, secondo la classificazione tradizionale (53). Il Groh, pur basandosi su questa classificazione, tenta di articolarla maggiormente. Egli nota come la presenza di mosaici pavimentali sia ascrivibile all’inizio del IV sec., mentre l’importanza dell’edicola della Torah (54), rivolta verso Gerusalemme, viene sottolineata, anche con la costruzione di bemah, nello stesso secolo (55). D’altro canto il Kraabel nota come “the shape and materials of the Diaspora synagogue will be determined first by local custom and conditions” (56), e che “the primary data for the synagogue Judaism of the Roman Diaspora are scattered and diverse” (57). Orientamento (58) e caratteristiche di alcuni edifici abbastanza simili al nostro presenti nel sud della Giudea sarebbero da ascrivere, secondo l’Amit, alle prescrizione della corrente halachica del Giudaismo post-esilico, ben testimoniata nella letteratura talmudica (59).
Secondo Bouyer inoltre la stessa liturgia vuole fare riferimento al Tempio, per cui “c’est tout un véritable rite qui était lié à l’acte et de prendre les Ecritures dans le coffre et de les lire, un rite en étroite relation avec celui de Temple” (60).

Note

1 Il rinvenimento è avvenuto durante gli scavi per la realizzazione della nuova strada statale 106 Jonica. Lo scavo è avvenuto ad opera della Soprintendenza Archeologica della Calabria (COSTAMAGNA 1991, p. 619). Il riconoscimento della struttura quale sinagoga è legato essenzialmente alla presenza di un pavimento musivo (v. infra) con simboli della tradizione iconografica ebraica. Tali simboli sono talvolta usati, come nota CORNFELD 1977, pp. 329-331, anche in monumenti giudeo-cristiani. Ma la collocazione geografica e cronologica del nostro edificio fa sì che essi siano attribuibili ad una produzione giudaica.
2 Si noti come toponimi simili si ritrovano in altre due località della Calabria centro-meridionale: Scilla e Scolacium, e in una località non identificata della Africa settentrionale (Atti dei martiri scillitani).
3 CATANEA-ALATI 1969, p. 46. GIVIGLIANO 1994, p. 323 segnala come nell'Atlante topografico del Regno di Napoli del Rizzi Zannoni (del 1808) si attribuisca il toponimo di "T.Varrata o sia Pietra Teodosia" a S.Pasquale di Bova.
4 ANONIMO DI RAVENNA IV,31-32; V,1.
5 ITIN.GUIDONENSE 30-31.
6 ITIN.GUIDONENSE 72.
7 TAB.PEUTINGERIANA.
8 Cfr. GIVIGLIANO 1994, p. 323.
9 CROGIEZ 1990, p. 408.
10 CROGIEZ 1990, p. 408.
11 KAHRSTEDT 1960. Già MILLER 1916, che identificava Scyle con Palizzi Marina, proponeva come corrotta l'indicazione della Peutingeriana.
12 CATANEA-ALATI 1969, p. 44.
13 GIVIGLIANO 1994, p. 323.
14 CATANEA-ALATI 1969, pp. 44-45.
15 PUTORTÌ 1913, p. 318.
16 Il riutilizzo dello stesso cippo con la duplice iscrizione, oltre che da esigenze di economia, è testimonianza della damnatio memoriae che colpì l'imperatore Massenzio (cfr. COSTABILE 1987A, p. 153).
17 Imp(erator) Caes(ar M(arcus) A(urelius) / Val(erius) Maxentius / p(ius) f(elix) invictus / ac perpetuus / semper Aug(ustus).
18 D(ominis) N(ostris) / invictissimis / imperatoribus / Valentiniano / et Valenti // A[u]g(ustis duobus) bono / r(ei) p(ublicae) natis.
Lo scioglimento delle due iscrizioni seguito è quello di COSTABILE 1987A, p. 153. Per la datazione v. GIVIGLIANO 1994, p. 323.
19 Identificata con la Decastadium dell'Itinerarium Antonini, in quanto uno dei due miliari indica proprio la distanza di 20 miglia da Reggio. Si tratta dei miliari XX e XXI: [C(aius) Flau(ius) Valer(ius) Licinius] / [Licinianus Aug(ustus) bono r(ei) p(ublicae)] / natus m(ilia p.) XX // D(ominis) n(ostris) Crispo [Lic]in[iano] / et Cost[a]ntino / nob[ilissimis] Caes(aribus) (tribus) / m(ilia p.) XX; D(omino) n(ostro) / [C(aio) Fl(auio) Valer(io) [Lici]niano / [Licinio] b[ono] / r[(ei) p(ublicae)] nato / m(ilia p.) XXI // d(ominis) n(ostris) Cri[sp]o [et] / Cons[ta]nt[ino] nobilis(simis) / [Caes(aribus)] (duobus). Pubblicazione in COSTABILE 1987B, pp. 227-228 e 230. Lo studioso (pp. 230-234) data le iscrizioni rispettivamente agli anni 312-324 e agli anni 314-324. La loro collocazione nello stesso luogo non sarebbe a causa di un comune riutilizzo medievale, ma sarebbe avvenuto , secondo il Costabile, già in antico (p. 234 e nota 33).
20 L'editio definitiva dell'iscrizione si trova in ILLRP I 454a; la bibliografia relativa si può vedere in GIVIGLIANO 1994, p. 347 nota 209.
21 Secondo CATANEA-ALATI 1969, p. 42 nota 3, ciò è dovuto al fatto che "nella prima attuazione della strada questa non passava da Locri (...). Ciò non esclude che Locri facesse parte di altra rete stradale che confluiva in quella, diremmo oggi, statale".
22 LATTANZI 1987, p. 109.
23 COSTAMAGNA 1991, p. 623.
24 COSTAMAGNA 1991, pp. 620-621, figg. 1-2.
25 CATANEA-ALATI 1969, pp. 37 ss.
26 "I pavimenti ed i muri basali di una quarantina di case, di cui alcune costruite con calce idraulica rossiccia ed altre con calce bianca grassa, poste in regolari allineamenti, portando alla superficie molto pietrame, abbondanti rottami vascolari, grossi mattoni pavimentali, elementi discoidali di colonnine in cotto, frammenti di tegole piane, qualche arnese (fra cui una bilancina in bronzo ...), ed ossami di scheletri con due teschi umani. Su vasta parte del terreno smosso emerse un polverone carbonioso, segno evidente che l'abitato aveva subìto la distruzione violenta col fuoco" (CATANEA-ALATI 1969, p. 39).
27 "Vari ambienti riscaldati da pavimento e pareti radianti. Bene riconosciuto il laconicum per il bagno di sudore (...) con sotto-pavimento a grosse piastrelle in cotto di cm 60 x 40, sostenute da colonnine pure in cotto, formate da mattoni discoidali (...) Il laconicum era riscaldato anche da calore radiante alle pareti per effetto di condotti ad aria calda verticali ricavati con elementi prefabbricati (...) Agli incastri dei muri restavano ancora i residui del rivestimento marmoreo delle pareti (...) La vasca per il riscaldamento per l'acqua era prossima al laconicum (...) Dalla torre di riscaldamento l'acqua veniva portata alle vasche da bagno a mezzo di tubazioni (...) Furono identificate due stanze da bagno(...) In tre ambienti venne rintracciata la pavimentazione a mosaico policromo" (CATANEA-ALATI 1969, pp. 40-41).
28 COSTAMAGNA 1991, p. 623.
29 COSTAMAGNA 1991, p. 624.
30 Il ramo di cedro.
31 E’ il corno d’ariete che serviva per l’adunanza.
32 GOODENOUGH vol. XII, 1965, p. 78; cfr. OVADIAH 1995, p. 313.
33 OVADIAH 1995, p. 318 nota che “over and above the unique character of the Jewish motifs - the Torah Shrine, the menorah, the shofar, the machta, the lulav and the ethrog occasionally appear on reliefs and mosaic floors- the ornamentation of ancient synagogues draws its inspiration from decorative, iconographic and stylistic sources of the non-Jewish Greek-Roman world and the Orient”.
34 L'esempio più noto ed importante di deroga dal divieto legale di rappresentazione, specialmente di figure animate, viene dalla sinagoga di Doura Europos, in Siria. Le numerose pitture parietali dell'edificio, databili agli anni 244-245, sono tratte da soggetti biblici (la sua letteratura è molto vasta: cfr. KRAELING 1956; GOODENOUGH voll. IX-XI; GUTMANN 1973; BRILLIANT 1990, pp. 80-83).
35 Un discreto numero di testimonianze possono vedersi in I tal Ya (v. bibl.).
36 GOODENOUGH vol XI, p. 78.
37 Cfr. BRILLIANT 1990, p. 74.
38 ST.CLAIR 1966, pp. 5-15 (cfr. BRILLIANT 1990, p. 79).
39 Il NARKISS 1987, p. 185 nota come “in addition to the Temple and Tabernacle implements, other symbols that adorn the synagogues, appearing either in stone reliefs or in mosaic floors, can be identified as Jewish national symbols: the four or seven species symbolizing the Temple festival of Sukkoth”.
40 COSTAMAGNA 1991, p. 625; FIACCADORI 1994, p. 747.
41 L’Ovadiah propone la seguente classificazione: 1) scene bibliche; 2) Zodiaco; 3) Arca della torah con menorot e altri simboli (OVADIAH 1995, p. 310).
42 Si tratta delle fasi 3 e 4 proposte per la classificazione delle menorot da NEGEV 1967, p. 74*. Nella terza fase le menorot sono “with horizontal plates atop the branches, bringing about an end to the staging of the branches. This plate srved as a base for the lamps. The accompanying symbols are quite frequent during this period”. Nella quarta fase tale tipo diviene comune, come comune diviene la presenza dei 4 simboli che lo accompagnano (ethrog, lulab, shofar e pala dell’incenso) insieme ad altri. I primi tre sono presenti nel mosaico di San Pasquale.
43 La presenza di “collection box with coin in it” è tipica di molti edifici sinagogali, come Beth- Alpha, Ma’on, En-Gedi (SAFRAI 1995, pp. 198-199), in quanto la sinagoga svolge il compito anche di deposito bancario della comunità.
44 Cfr. GOODENOUGH vol. XII, p. 41. Riguardo al posizionamento nei pressi del mare dell'edificio, si noti come è anch’esso tipico delle sinagoghe della Diaspora. Con SQUARCIAPINO 1961, pp. 335-336 noteremo infatti che l'unica disposizione che regolava il posizionamento delle sinagoghe era presente nel Talmud, dove veniva indicata come preferibile la parte alta delle città. Ma, specialmente per quanto riguarda le sinagoghe della Diaspora, la posizione preferita era quella presso il mare o corsi d'acqua (come si può vedere a Delo, Egina, Mileto). Flavio Giuseppe (Ant. XIV,10,23 par. 258) nota che gli Ebrei di Alicarnasso costruirono la loro sinagoga presso il mare "come era loro costume", mentre S.Paolo visita la sinagoga di Filippi "presso il fiume" (At 14, 13).
45 COSTAMAGNA 1991, pp. 626-627.
46 Nota il FOERSTER 1987, p. 140 come “Jewish liturgical requirements in the synagogue were simple and did not involve the rich and complicated processions and ceremonies that characterize Christian liturgy. Thus, the main features of the prayer hall are one or two aediculashaped ahrines, intended to house the Torah scrolls (...). The reading of the Law must have taken place not too far from this spot”. Sulla liturgia sinagogale v. anche COHEN 1987.
47 COSTAMAGNA 1991, p. 627.
48 Gli editori del monumento non fanno cenno di questa possibilità di interpretazione. LATTANZI 1987, p. 110 nota che tali stoppini sono "usati con le lampade in vetro di forma conica, assai diffuse in Oriente, come confermato dal prof. Foerster dell'Università di Gerusalemme".
49 Si noti che il dolio fu "oggetto di distruzione violenta" (LATTANZI 1987). La sua presenza accanto all'edicola della Torah e il suo contenuto ci fanno ipotizzare che doveva trattarsi di una specie di sacro ripostiglio, un contenitore per gli arredi dell'edicola stessa (una sorta di favissa).
50 Letteralmente la Torah ("la Legge") comprendeva i primi cinque testi della Bibbia, il Pentateuco. Per estensione però indicava tutta la Bibbia (ovviamente, per gli ebrei, l'Antico Testamento), quello che era "la Legge e i Profeti".
51 Cfr. SQUARCIAPINO 1961 p. 336; KRAABEL 1995 p. 120 nota come “the Diaspora ‘synagogue’ will be a complex of several rooms (...). The Synagogue may include a school, a hostel, a dining hall, even a kitchen and, as at Stobi, the donor and his family may live upstairs”. Riguardo alla presenza di tali tipi di strutture anche nelle sinagoghe della madrepatria cfr. SAFRAI 1995, pp. 190-191 e passim.
52 COSTAMAGNA 1991, p. 628 nota 49.
53 Si distinguono tradizionalmente tre tipi: 1) tipo basilicale o galileo; 2) tipo ‘broadhouse’; 3) tipo basilicale absidato (cfr. URMAN 1995, p. XXVI). Tale classificazione, considerata utile ai fini della datazione, almeno per le sinagoghe palestinesi, è oggi rivista, almeno per quanto riguarda i caposaldi cronologici (cfr. GROH 1995).
54 BOUYER 1973, p. 139 afferma che “Dans la synagogue, le coffre placé près du bêma et dans lequel les Ecritures étaient conservées était appelé l’”arche”. Cela donne donne immédiatement à penser qu’on l’assimilait au coffre antique qui portait ce nom et que, dans le saint des saints au Temple de Jérusalem jusqu’au temps de l’exil, on avait cru être le lieu même de la présence de Dieu”.
55 GROH 1995, p. 69, punti 5-6.
56 KRAABEL 1995, p. 119.
57 KRAABEL 1987, p. 50.
58 L’orientamento delle sinagoghe palestinesi analizzate (AMIT 1995, p. 129 punti b-c) è ovviamente diverso per questioni geografiche: arca della Torah a Nord (guardando verso Gerusalemme), ingresso a Est. La rotazione rispetto alla posizione reciproca tra Italia meridionale e Gerusalemme mantiene invariate le prescrizioni in questione. BOUYER 1973, p. 140 nota come “”l’audition solennelle de la parole de Dieu praparait là (nella sinagoga) le sens d’un contact établi avec la présence divine sur le Mont Sion, devenait le signe et le gage de l’alliance, par lesquels le rite consacrait le peuple à son Dieu. L’audition de la parole devient ainsi le centre d’un rite nouveau conçu comme un prolongement de celui du Temple”.
59 AMIT 1995.
60 BOUYER 1973, p. 139.
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martedì 26 febbraio 2008

Ebrei nell'alto Medioevo?

Dal VI (Bova e altro) al XIII (età angioina) secolo non si ha nessuna evidenza archeologica o documentaria (salvo eccezioni che vedremo) di presenze ebraiche in Calabria.
Questo naturalmente non vuol necessariamente dire che gli ebrei siano assenti dalla nostra regione, ma soltanto che sono assenti documenti che ne diano testimonianza.
Credo che questa lacuna possa essere colmata da alcuni indizi, che ci forniscono la forte possibilità della continuazione del loro insediamento dopo l'età tardo imperiale.

Costantino aveva concesso ai capi delle comunità ebraiche la cosiddetta immunità dagli obblighi curiali; tale immunità venne poi abrogata da Valentiniano II nel 383 dC, e gli ebrei di Puglia e Calabria (potenti e numerosi, come egli dice) protestarono energicamente contro quest’attentato ai loro privilegi.
Naturalmente, con “Calabria” si intende l’odierno Salento, e non quello che all’epoca era ancora Bruttii, ma cito questo evento perché credo che gli ebrei, presenti nel vicino Salento, non potevano mancare dalla Calabria, o almeno dalle zone che verso il Salento gravitavano.
Inoltre, due o tre secoli dopo, il nome di Calabria, con la perdita da parte bizantina del Salento a vantaggio dei Longobardi, si sarebbe spostato alla nostra regione, ed insieme al nome si spostò parte della popolazione; se possiamo immaginare che la gran massa rimase in Puglia (ed in particolare la massa degli ebrei, ostili all’antisemitismo degli imperatori d’Oriente), altrettanto agevolmente possiamo supporre che molti, legati per motivi economici al potere imperiale (e tra questi molti ebrei, a quanto afferma Valentiniano) si siano spostati verso sud, da noi.

Al secolo X risale la "Cronaca cassanese", nella quale si parla della conversione forzata degli ebrei operata dall'imperatore Basilio I nell'873-874 nell'Italia meridionale.
Non viene citata esplicitamente la Calabria, ma il fatto che tale evento abbia suscitato l'interesse di un cronista locale, ci può far presumere che si riferisse anche agli ebrei locali, che in seguito non mancheranno a Cassano.

Un altro indizio lo ritroviamo alle soglie dell’anno 1000, quando Ottone II, imperatore germanico, scese nel Mezzogiorno per rivendicare quelli che riteneva suoi diritti acquisiti attraverso il matrimonio con la principessa bizantina Teofano, e nel 982 combattè in Calabria contro i Bizantini (che per l’occasione ebbero il sostegno degli arabi) sulla costa ionica (in un luogo che ancora gli storici dibattono per individuare: sono state avanzate almeno quattro ipotesi, tra Crotone e Reggio!), forse presso Punta Stilo.
In questo suo viaggio, l’imperatore portò con sé l’ebreo Kalonymos, che (secondo lo storico tedesco Thietmar e secondo il cronista arabo Ibn-al-Athir) si sacrificò al suo posto, cedendogli il cavallo.
A mio parere possiamo supporre che l’imperatore abbia portato con sé l’influente personaggio non per semplice compagnia (visti i rapporti non ottimi tra cristiani ed ebrei), ma perché voleva sfruttarne l’influenza a suo vantaggio nei contatti con gli ebrei che dovevano risiedere in Calabria (probabilmente abbastanza numerosi e potenti), già per conto loro storicamente ostili ai bizantini, come abbiamo visto.

Infatti, poco dopo, abbiamo l’unica fonte documentaria che parla di ebrei in Calabria in questo periodo. Si tratta del βίοσ (biografia) di san Nilo da Rossano, vissuto dal 910 al 1004.
In questo scritto sono citati due volte gli ebrei: una prima volta è citato Shabbatai Donnolo, un medico di Oria nel Salento (a riprova dei rapporti tra le due) che ebbe a Rossano la sua formazione, e poi è citato un commerciante ebreo, che viene ucciso da un giovane cristiano, che Nilo riesce abilmente (e cavillosamente) a salvare dalla condanna.
Torneremo sia sulla figura di Shabbetai Donnolo che di san Nilo, qui basti osservare che in tutti e due i casi si parla di ebrei senza nessuna “sorpresa”, come dando per scontato che al lettore fosse nota la loro presenza, senza bisogno di giustificarla o spiegarne l’origine.

Un’ultima citazione ci viene dal Brebion dell’arcidiocesi di Reggio, una specie di mappatura dei beni posseduti intorno al 1050 dall’arcidiocesi stessa.
Viene affermata l’esistenza nei pressi dell’attuale Stilo (che torna anche qui) di una località chiamata Εβραϊκή (Ebraikè); sebbene sia ancora in discussione dove realmente si trovasse (il professor Cuteri suppone tra Camini e Stignano) e se si tratti di un riferimento ad una sinagoga, una Judeca o un possesso da parte di una donna ebrea (o, secondo altri, potrebbe essere semplicemente un sinonimo di “luogo sporco”), è comunque indubitabile una presenza ebraica anche in questa parte meridionale della Calabria.

A questi elementi possiamo unire la constatazione che in seguito, quando in epoca angioina le attestazioni saranno ben più numerose, troveremo testimonianze sicure di presenze ebraiche sia a Reggio, che a Monteleone (la futura Vibo Valentia), Squillace e Bova, gli insediamenti collinari corrispondenti a Vibo (Marina), Scolacium e Bova Marina/Scyle, che avevamo visto trattando delle presenze più antiche; è infatti noto che alla fine dell’epoca imperiale le città costiere (salvo eccezioni come Reggio) sono andate man mano spopolandosi, a causa dell’impaludamento a cui poi si sarebbe sommato il terrore delle incursioni araba, con il trasferimento delle popolazioni verso l’interno.
Se è possibile che molti ebrei siano andati via, visto l’assottigliamento delle possibilità commerciali a causa della presenza musulmana, che conquisteranno anche il grosso terminale commerciale che era la Sicilia, è però presumibile che almeno una parte sia rimasta, e abbia seguito le sorti del resto della popolazione, spostandosi nei paesi nuovi fondati all’interno.
Questo fatto è un indizio in due sensi: da una parte abbiamo che gli ebrei (con il resto della popolazione) si sposta in luoghi dell’interno, ma dall’altra possiamo immaginare che in quei paesi interni, dove di seguito troveremo comunità ebraiche, non si trattasse (almeno in alcuni casi) di nuovi afflussi, ma di ebrei che venivano da antichi insediamenti, dei quali ancora non abbiamo trovato traccia, ma che pure dovettero esistere.

Un’ultima osservazione riguarda la localizzazione di queste presenze ebraiche.
Mentre precedentemente le avevamo viste attestate nella parte meridionale, prevalentemente intorno allo Stretto di Messina, ora, caduta la Puglia in mano dei longobardi e la Sicilia in mano dei musulmani, bloccati o diminuiti i commerci con l’Africa e l’Oriente di cui si erano impadroniti gli arabi, gli indizi provengono prevalentemente dal nord della regione, pur non potendosi escludere una loro presenza più meridionale.

lunedì 25 febbraio 2008

Attualità ebraiche in Calabria

Oggi in Calabria non esistono che sporadiche ed isolate presenze ebraiche, però è ugualmente possibile tracciare un itinerario “vivo” nelle cose ebraiche calabresi.
Tralascerò (se non qualche breve cenno) quello che riguarda le Judeche ed altre memorie puramente storico-archeologiche, che già sono state e ancora saranno soggetto di alcuni post.

Il nostro viaggio comincia da Reggio, dove, nel Museo archeologico nazionale, si trovano l’insegna della sinagoga reggina e la lucerna di Leucopetra, delle quali ho parlato recentemente.
Ma un altro gioiello, sul quale torneremo presto, fa di Reggio una delle mete degli studiosi di cose ebraiche: una delle copie anastatiche (l’altra si trova a Gerusalemme) del commento di Rashi al Pentateuco, il cui originale si trova oggi alla Biblioteca Palatina di Parma; è la prima opera a stampa in ebraico fornita di data, ed è stata stampata proprio a a Reggio nel 1475.


A poca distanza, c’è Bova Marina, con i resti dell’antica sinagoga del IV-VI sec. dC, i cui mosaici sono da poco tornati e sono visitabili nella sede comunale.
Bova Marina è al centro di un intenso piano di riscoperta dell’ebraismo calabrese, meta di visite da parte di turisti e studiosi da tutto il mondo ebraico e in cui si sta progettando la costituzione del museo dell’ebraismo calabrese.
Inoltre, da alcuni anni, vi si svolgono attività in occasione della Giornata europea della cultura ebraica, di cui è il centro animatore in Calabria .
Andando verso nord, non si contano i paesi che hanno una Judeca, i territori che si chiamano Judu, Judari o simili, e altri segni vivi sono un’antica iscrizione in ebraico in una strada di Gerace e una lapide, forse di sinagoga, del XVI secolo in un palazzo di Catanzaro.
In provincia di Catanzaro si trova Serrastretta.
Qui, da qualche anno, è nata la prima comunità ebraica (riformata, quindi non appartenente all’ebraismo ortodosso), Ner Tamid del Sud, fondata dalla Rabbina Barbara Aiello, il cui padre, emigrato in America, solo lì ha potuto rivelare la sua appartenenza ad una famiglia che nei secoli aveva nascostamente mantenuto la sua ebraicità.
Venuta dagli Stati Uniti, Rav Barbara ha esercitato il suo ministero per qualche anno a Milano, e poi ha preso la coraggiosa decisione di “tornare” in Calabria, ed intorno a lei si è creato un piccolo ma attivo movimento di rinascita dell’ebraismo. Spero vivamente che le sue orme siano seguite al più presto anche dall’ebraismo maggioritario.

Entriamo in provincia di Cosenza, e qui troviamo quel che resta (troppo trascurato, nonostante l’impegno della fondazione “Ferramonti di Tarsia”) del campo di concentramento di ebrei stranieri che sorse durante la guerra. Qui vissero e soffrirono centinaia di ebrei, e molti di loro poterono salvarsi, mentre altri furono condotti allo sterminio; qui nacquero anche alcuni bambini, e nel cimitero di Tarsia alcuni prigionieri furono sepolti, e le lapidi in ebraico ancora li ricordano.
Da qui, insieme a Gustav Brenner che vi fu imprigionato, giungiamo a Cosenza, dove egli decise di rimanere, e fondò (rinnovando l’antica arte della stampa ebraica in Calabria) l’omonima casa editrice, benemerita in vari campi di studi, specializzata soprattutto in ristampe anastatiche di antichi volumi; a Cosenza si trova anche il Cafarone, l’antico quartiere che fu sede della Judeca, ed è qui l’unica università calabrese dove si può studiare sia Lingua e letteratura ebraica, che Teoria del pensiero filosofico ebraico.
Poco lontano, si trova Rota Greca, dove nacque Angelo De Fiore, che, per la sua azione di salvataggio degli ebrei a Roma occupata dai tedeschi, ricevette dallo Yad Vashem il riconoscimento di Giusto delle Nazioni; in suo ricordo qui sorge un monumento ed è stato piantato un ulivo proveniente da Gerusalemme.
Giungiamo così alla Costa dei Cedri, che ogni anno, in agosto, è meta di rabbini provenienti con le loro famiglie da Israele e da tutto il mondo, per raccogliere i cedri che fanno parte essenziale delle celebrazioni della festa di Sukkoth.
Altri punti interessanti in Calabria, in questo itinerario ebraico, sono le due associazioni di amicizia Italia - Israele di Reggio e Gioia Tauro, e, sul versante più storico-culturale, l’attiva Associazione per la ricerca e lo studio sugli Ebrei in Calabria e Sicilia.
Oltre al sito di questa associazione, permettetemi segnalare come punti di ricerca sull’ebraismo in Calabria, questo mio blog, che spero possa diventare sempre migliore e più partecipato, e il mio vecchio gruppo Yahoo Calabria - Israele.
Ma il patrimonio più importante sono gli studiosi e gli appassionati che si dedicano allo studio ed alle iniziative verso la scoperta e la valorizzazione di questa nostra ricchezza.
Voglio qui citare i professori Sonia Vivacqua e Cesare Colaffemmina, dell’Università di Cosenza, il professor Enrico Tromba di Reggio, Antonio Sorrenti, non solo studioso, ma ricco di iniziative, Francesco Cuteri, che nei suoi lavori ha più volte affrontato questo tema, il professor Vincenzo Villella, attivo con pubblicazioni e altre attività, il professore Giuseppe Mascaro, il professore Vioncenzo Naymo che ha pubblicato documenti d’archivio, e molti altri che sempre più numerosi si stanno dedicando a questa affascinante ricerca.

sabato 23 febbraio 2008

Cedri ed ebrei in Calabria

Il cedro è forse il più antico e costante legame che unisce gli ebrei alla Calabria, e la Calabria agli ebrei. Presento qui una serie di articoli prelevati da internet e riprodotti tali e quali; mi scuso quindi per le inevitabili ripetizioni, e le eventuali imprecisioni che potrete leggere.

IL CEDRO
da ProLocoDiamante

foto da UniversoCedro

Fra tutti i prodotti tipici italiani, il cedro è fra i più importanti. E dire cedro significa Riviera dei Cedri. Perché tutta, o quasi tutta, la produzione nazionale proviene dalla piccola fascia di costa calabrese compresa fra Tortora e Cetraro che proprio da questo agrume ha preso il suo nome. È una pianta antichissima, conosciuta già al tempo degli Egiziani, quattromila anni fa, che da lì si è sparsa nel mondo legandosi strettamente alle tradizioni e alle emigrazioni ebraiche.

Furono, infatti, gli Ebrei che ne diffusero la coltivazione prima in Palestina e poi in tutte le altre regioni dove furono costretti ad emigrare per sfuggire alle deportazioni; a cominciare da quelle in Babilonia, settecento anni prima di Cristo, fino alla persecuzione di Nabucondosor un centinaio di anni dopo e alla più tarda disseminazione conosciuta col nome di Diaspora. Dio aveva detto a Mosè: “Prenderete i frutti dell’albero più bello, dei rami di palma e dell’albero più frondoso, dei salici del torrente e vi rallegrerete dinnanzi al Signore Dio vostro”. Per gli ebrei, i frutti dell’albero più bello sono i cedri. Senza di questi la festa delle capanne non si poteva fare e perciò se ne portarono dietro i segreti della coltivazione, dovunque andassero. Così il cedro è arrivato in Grecia intorno al VI secolo A. C. insieme ai profughi provenienti dalle regioni assire e da lì è passato in Turchia, in Albania ed a Corfù.

In Italia ha fatto la sua apparizione due o trecento anni prima di Cristo per opera di quegli Ebrei ellenizzati che sicuramente avevano seguito gli Achei fondatori delle colonie agricole di Metaponto, Sibari e Crotone sullo Ionio e di Laos e Posidonia sul Tirreno. Di secolo in secolo poi, questo legame fra cedro e religione ebraica non è venuto più meno e, ancora oggi, ogni estate, i rabbini vengono in Calabria per scegliere e raccogliere con le loro mani i frutti più belli, indispensabili alla festa.


Il cedro come frutto sacro della tradizione ebraica
da UniversoCedro

Il cedro del Sukkòt
Il cedro (in ebraico etrog; plurale etrogim) destinato al rito del Sukkòt non è un frutto qualunque. Sia il frutto, sia l’albero da cui esso proviene devono rispondere a determinate caratteristiche che rendano l’agrume sacro kasher o kosher cioè buono, adatto alla cerimonia.
E per essere adatto alla cerimonia del Sukkòt, il cedro che compone il lulàv deve possedere diverse caratteristiche che, sommate tra loro, rendano il frutto perfetto.
Il cedro, dunque, deve presentarsi senza rugosità e senza macchie sulla buccia, non provenire da alberi cresciuti da talea innestata, e che siano almeno al quarto anno di età, avere una forma coni
ca perfetta ed un peduncolo accentuato.
È, invece, inadatto ed inservibile, secondo i precetti della Torah (letteralmente: legge, insegnamento. Nello specifico della religione ebraica si indicano, con questo nome, i primi cinque libri della Bibbia o libri di Mosé, ossia ancora il Pentateuco) un cedro secco o rubato, o ancora proveniente da una pianta adorata o coltivata in una città scomunicata; è inservibile un frutto di offerta impura o di pianta nuova o di dubbia provenienza.

Molti rabbini considerano inservibile anche il cedro verde come l’aglio ed ancora, molti di loro hanno idee diverse sulle dimensioni che deve avere il cedro del Sukkòt; in ogni caso, si va dalle dimensioni di una noce, a quella di un uovo, fino ad arrivare a dimensioni tali da afferrare due cedri con una mano o uno con entrambe le mani.

La festa del Sukkòt
Sukkòt, la “Festa delle Capanne” o “Festa dei Tabernacoli” si festeggia il 15 di Tishrì - che vuol dire principio - ed è il mese con cui inizia il calendario ebraico, tra settembre ed ottobre.
La festa delle Capanne rievoca l’uscita dall’Egitto ed il quarantennio in cui il popolo di Israele visse nel
deserto, prima dell’ingresso nella Terra Promessa.
La stagione coincide con il periodo dell’ultimo raccolto prima dell’inverno, ed è per questo motivo che la ricorrenza è identificata anche come “Festa del Raccolto”.
Per questa ragione, durante Sukkòt, si mangia e si trascorre buona parte della giornata in una capanna (sukkà) di rami, adorna di fiori, frutta e disegni e che abbia il tetto costituito da frasche rade in modo tale da poter consentire ai suoi occupanti, nella sera e durante la notte, di poter osservare le stelle

Il significato delle specie floreali
L’utilizzo rituale delle diverse specie vegetali si presta a varie interpretazioni.
Una prima riconduce alla diversità delle specie vegetali usate: la palma non ha profumo ma i suoi frutti hanno sapore; il salice non possiede né sapore né profumo; il mirto è profumato ma non saporito; il cedro possiede entrambe le qualità.
La loro presenza congiunta simboleggia quattro tipi di persone che miscelano tra loro l’assenza e la presenza di sapienza e generosità e come le specie vegetali, anche i quattro tipi di uomo devono essere vicini per aiutarsi e volersi bene reciprocamente.

Secondo un’altra interpretazione simbolica, il lulàv rappresenta quattro periodi storici ed il cedro, in particolare, simboleggia la speranza per il futuro.


GLI EBREI E IL CEDRO
da CedrodiCalabria


“Perì ‘etz adar,” il frutto dell’albero più bello, è così che nella Bibbia viene chiamato il frutto del cedro.
“... prenderete i frutti dell'albero più bello, dei rami di palma e dell'albero più frondoso, dei salici del torrente e vi rallegrerete dinnanzi al Signore Dio vostro” (Lev. 23,40)

Fu il Santo ad indicare a Mosè il frutto dell’albero più bello, frutto che secondo le tradizioni ebraiche divenne fondante della “Festa delle Capanne” (Sukkoth). Gli ebrei lo conobbero durante il lungo soggiorno in Egitto, di circa quattrocento anni. Poi, durante l’Esodo, al tempo di Mosè divenne il Perì ‘etz adar. La diffusione nel Mediterraneo del cedro è probabilmente opera loro: ne sono prova diverse tracce archeologiche. Da documenti posteriori al Pentateuco si apprende che fino all’epoca del II Tempio, dopo la liberazione dalla cattività babilonese, ad opera di Ciro il Grande (550 a.C.), non tutti gli ebrei fecero ritorno in Palestina e molti di essi si spostarono in diversi paesi, come prova il Tempio del 525 a.C. nell’isola di Elefantina. Questi ebrei conservarono, ovviamente, le loro abitudini e i loro riti religiosi. Tali fenomeni di migrazione, soprattutto, verso i territori siriaci, dell’Asia Minore ellenizzata e della Grecia, divennero maggiormante intensi nel corso del III sec. a.C. quando la lingua ebraica sparì per lasciare spazio all’imponete greco. Queste migrazioni, dalla Grecia, portarono gli ebrei a toccare la Turchia, l’Albania e la corinzia Corfù, dove le tracce archeologiche risultano essere abbondanti. L’ipotesi di questa diffusione, ad opera degli ebrei del cedro, è anche ampiamente confutata da Flavio Giuseppe, il più autorevole scrittore di cose ebraiche, il quale sostiene che nel III sec a.C. in tutto il bacino del Mediterraneo era abbondante la presenza ebraica. Inoltre, verso il III, II a.C., secondo il rabbino Toaff, Rabbino capo della Comunità Israelitica di Roma, gli ebrei, seguendo le rotte achee arrivarono nella penisola italica, presso le colonie di Metaponto, Sibari e Crotone sullo Jonio e Laos e Posidonia sul Tirreno. Tale remota presenza in Italia, in Italia degli ebrei, è, inoltre, testimoniata sia dal viaggio nel 164 a.C., di Eupolemo e Giasone, ambasciatori dei Giudei, i quali furono ricevuti da una nutrita colonia di giudei elleni della capitale; sia dai ritrovamenti del Prof. Casella a Pompei ed Ercolano di pitture murali e mosaici raffiguranti il cedro e gli elementi sacri che servivano a celebrare la Festa delle Capanne. Insieme con questi ritrovamenti ricordiamo anche le scoperte nelle catacombe ebraiche di via Nomentana e dell’Appia nonché quelle nella sinagoga di Ostia Antica (I-IV sec. d.C.) di questi simboli del Sukkoth, a riprova di una importante e duratura presenza in Italia di comunità ebraiche. Per meglio comprendere, il ruolo del cedro nelle tradizioni ebraiche, è il caso di fare un po’ di luce su questo popolo.
Presso gli ebrei tre sono le grandi feste religiose di pellegrinaggio: quella della Pasqua ebraica (Pesach), quella della Pentecoste (Shavuot), e quella delle Capanne, detta anche dei Tabernacoli (Sukkoth). Tutte e tre le feste hanno una dimensione storica di commemorazione dell’Esodo, ma celebrano altrettanto le tre stagioni del raccolto agricolo nella terra d’Israele. La Pesach è, così, la festa della libertà, che ricorda la liberazione degli israeliti dalla schiavitù dell’Egitto e si proietta verso la redenzione finale del mondo nell’epoca messianica. È anche, però, il tempo della raccolta dell’orzo (omer) e la fine della stagione delle piogge. Essa,dato il suo significato, cade sempre in Primavera. Per tutta la durata della festa è proibito mangiare pane lievitato e un giorno prima che la festa inizi tutto il lievito viene eliminato dalle case, dopo un ricerca minuziosa di ogni singola briciola nascosta, come ricorda Unterman, in ogni singola fessura. La festa dura sette giorni (otto nella diaspora) e comincia la sera del quindici di nisan (fine marzo, inizi di aprile), la notte dell’esodo, con un seder (cena familiare) accompagnata dal racconto dell’Esodo. La fine di Pesach ricorda il momento in cui gli israeliti attraversarono il Mar Rosso, e poiché la loro salvezza comportò l’annegamento degli egizi, i salmi dell’hallel vengono recitati in forma abbreviata.
Sette settimane più tardi viene celebrata Shavuot (Pentecoste). È la festa del raccolto del grano. Viene letto il decalogo nella sinagoga, decorata con piante e fiori, per ricordare che il Monte Sinai, una montagna secca ed arida, si riempì di fiori in occasione della Rivelazione, mentre l’intera congregazione sta impiedi. A Shavout c’è la diffusa celebrazione dell’hallel (salmi).
La festa di Sukkoth (Festa delle capanne) , celebrata intorno alla prima quindicina di ottobre, è, invece, nel suo originario carattere agricolo, la festa di fine raccolto, della gioia per il lavoro compiuto e per i frutti raccolti. Per una settimana gli ebrei, costruitasi una Capanna (sukkah) all’aperto, con materiali vegetali, non fissata al suolo e con un tetto che permetta loro di vedere il cielo, a ricordo dell’Esodo dall’Egitto, durante il passaggio nell’inospitale deserto, a memoria della protezione che Dio concesse al suo Popolo, devono abitarla.
Durante questi sette giorni, ad eccezione del sabato, devono agitare in ogni direzione un mazzetto, che tengono nella destra, composto da un ramo di palma dattifera (lulàv), due rami di salice di fiume (aravà) e tre rami di mirto (hadas), mentre recano, nella sinistra, un frutto di cedro (etrog). Tutto ciò secondo quanto prescritto nel Levitico “ora il quindici del settimo mese, quando avrete raccolto i frutti della terra, celebrerete una festa al Signore per sette giorni… il primo giorno prenderete frutti dagli alberi migliori: rami di palma, rami con dense foglie e salici di torrente e gioirete davanti al Signore vostro Dio per sette giorni…Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che Io ho fatto dimorare gli Israeliti in capanne, quando li ho condotti fuori dal paese d’Egitto…”.
Secondo una tradizione allegorica ogni elemento indicato per la festa, rappresenterebbe un peccato da cui fuggire: la palma, eretta e diritta, paragonabile alla colonna vertebrale umana rappresenterebbe il peccato dell’orgoglio che fa sollevare la testa; il mirto, le cui foglie ricordano l’occhio, simboleggerebbe quello della curiosità di chi si guarda attorno con invidia; il salice, la cui foglia, invece, ricorda una bocca, quello della maldicenza; mentre il cedro, con la sua forma che ricorderebbe un cuore, dovrebbe indurre a confessare i peccati compiuti. Al contrario, secondo una interpretazione del Talmùd i quattro elementi indicherebbero ciascuno una qualità di quattro diversi tipi umani: la palma , con il dattero che ha sapore, ma non odore, ricorderebbe chi alla saggezza non fa seguire le opere; il mirto, dal buon profumo, ma senza sapore, indicherebbe gli uomini che agiscono, ma senza saggezza; il salice, privo del profumo e del sapore, rappresenterebbe chi è privo sia di saggezza che di opere; ed infine, il nostro etrog, frutto dal buon odore e dal buon sapore, chi alla saggezza fa seguire opere altrettanto sagge. Inoltre, la conoscenza del cedro presso il mondo greco, data dalle testimonianze prima dette, e cioè, dall’arrivo di alcuni ebrei nel mondo ellenico già a partire dal VI a.C., ma, più tardi, soprattutto, da Teofrasto, ci permettono di fare un’ulteriore considerazione: la conoscenza di un frutto, considerato, dallo stesso Teofrasto, non commestibile, in una epoca così antica, in cui le fonti di sostentamento erano essenziali e primarie, la conoscenza precisa dei metodi di coltivazione di quest’agrume, ci inducono a sostenere che essa dovesse essere importante per altre ragioni. E quali ragioni potrebbero esser più valide se non quelle di un uso sacro di tale frutto? Vasto è inoltre l’uso letterario di questa pianta: sacra, esoterica, di un profumo ineffabile, struggente ed ammaliante. E’ citata settantadue volte nelle Sacre Scritture simbolo di alleanza. Tanto è preziosa questa pianta, agli occhi degli ebrei, da essere magnifica, da dover essere custodita gelosamente perché vicina a Dio per le sue altezze, per le sue imponenti e forti fronde, per i sui fusti che si innalzano al cielo liberi. Simbolo di un ricordo che dura tutta la storia di un popolo, quello d’Israele. Ogni estate, i rabbini di moltissime comunità israelitiche, da Londra a New York vengono sulla Riviera per raccogliere i frutti più belli, indispensabili alla loro festa. La raccolta è meticolosa e la scelta viene compiuta tenendo presenti le prescrizioni della tradizione: il frutto deve essere di una pianta non innestata al quarto anno di produzione; deve essere sano, di buona forma conica, di colore verde, con l’apice sano, che conservi la vestigia del fiore e deve recare un pezzo di peduncolo.


IL CEDRO “MADE IN CALABRIA” da Rivieradeicedri
Testi
: E. Monaco, P.Basile

Quasi tutta la produzione italiana di cedro proviene dalla Riviera dei Cedri. Molti autori, fra i quali il Milone, sostengono che il cedro è presente sulla costa calabrese per motivi naturali e climatici; la pianta ha bisogno di un clima stabile senza sbalzi di temperatura, di acqua abbondante e soprattutto di crescere al riparo dei venti. Per questo i contadini che la coltivano le dedicano lavoro e sacrifici. D'inverno la coprono con canne che vengono tolte in primavera e per rimuovere periodicamente il terreno devono stare inginocchiati per terra.
Certo la coltura è molto antica ed è strettamente legata all'immigrazione ebraica dei primi secoli dell'era cristiana e alla successiva occupazione bizantina. Il cedro è richiesto dagli Israeliti per la festa dei Tabernacoli e per le celebrazioni religiose della sukkoth; si può quindi ipotizzare un legame con questi motivi religiosi. Bisogna tener presente dall'altra parte anche l'influenza della Scuola Medica Salernitana che prescriveva l'uso medico del cedro.
Nel sedicesimo secolo la cedricoltura calabrese aveva grosso sviluppo per la presenza di folte colonie ebraiche in Calabria calcolabili intorno a 50.000 persone, quasi il 10% della popolazione residente.
Si coltivavano i cedri anche in Puglia, in Campania e in Sicilia ma l'intolleranza religiosa dei dominatori spagnoli li ha fatti scomparire. Qualche sporadica presenza rimane solo in Sicilia.
Fino agli anni sessanta il prodotto veniva commercializzato da pochi incettatori; poi i contadini si sono organizzati in cooperative e consorzi ponendo termine alla speculazione.
Il cedro raccolto viene "salamoiato" in zona e poi viene venduto per la metà all'estero (Germania, Paesi Bassi e il resto nell'Italia centro settentrionale per la canditura e l'uso dolciario.
Una parte del prodotto viene esportato per motivi religiosi.

I CEDRI E I SACERDOTI EBRAICI

Sono riconoscibili dal piccolo copricapo che immancabilmente portano in testa. Sono rabbini, sacerdoti di comunità ebraiche. Vengono ogni anno sulla riviera, nel mese di luglio e agosto per raccogliere e controllare di persona i piccoli cedri, indispensabili per la "festa delle capanne", la sukkoth che cade nel mese di settembre e che è per gli Ebrei di tutto il mondo l'avvenimento religioso più importante dell'anno.
Si alzano di mattina alla cinque e vanno nelle cedriere con i contadini: Nei fondi arrivano presto e presto cominciano a lavorare.
Un rabbino e un contadino. Il rabbino va avanti lentamente. Guarda a destra e a sinistra nella cedriera; dietro di lui il contadino con una cassetta di legno e una forbice nelle mani. Il sacerdote si ferma, guarda la pianta alla base proprio nel punto in cui il tronco spunta dalla terra: se è liscio se senza "vozze" vuol dire che non c'è stato innesto e si possono raccogliere i frutti. I rami sono bassi e pieni di spine pericolose.
Il rabbino si corica per terra e scruta tra le foglie. Trova il frutto buono, lo esamina più attentamente, poi se decide di prenderlo lo indica al contadino che lo taglia dalla pianta lasciando un pezzettino del peduncolo.
Con estrema attenzione il sacerdote esamina ancora la buccia, il colore e la forma. Se tutto va bene il piccolo frutto, avvolto nella stoppa, viene riposto nella cassetta. Il contadino guarda attentamente perché per ogni cedro alla fine avrà la somma pattuita. Quando tutto è pronto le cassette prendono il volo all'aeroporto di Lametia. Rivedranno la luce per la festa.
Tutto secondo quanto Dio prescrisse a Mosé: "Prenderete i frutti dell'albero più bello, dei rami di palma e dall'albero più frondoso dei salici del torrente e vi rallegrerete dinnanzi a Dio, Signore Dio vostro". E' qualcosa di mistico e di fanatico insieme. Non esistono esempi di confronto con le nostre tradizioni religiose e non. Il cedro per gli Ebrei è molto di più della palma per noi e anche di più del capitone per i Napoletani a Natale. Senza il cedro la festa non si può fare. E nessuno ne vuole rimanere sprovvisto.

Purtroppo in questo sito c'è un esplicito divieto di copiare foto e testi, ma c'è un bellissimo fotoreportage sulla raccolta dei cedri da parte dei rabbim, vi consiglio di visitarlo: http://fotoalbum.sfizidicalabria.com

venerdì 22 febbraio 2008

Un Giusto calabrese: Angelo De Fiore

La Calabria è solo stata sfiorata dalla tragedia della Shoah, in particolare ha visto sorgere nella sua terra il campo di Ferramonti di Tarsia, è stato luogo di nascita di alcune delle vittime, ebrei e non ebrei, ma è anche il luogo di nascita di uno dei Giusti delle Nazioni, coloro che hanno contribuito a salvare gli ebrei.
Di uno di questi, Angelo de Fiore, voglio parlare in questo post.
Pubblico alcuni articoli presi da internet, e prima le foto che ho fatto in uno dei miei viaggi in Israele.
Le prime due foto si riferiscono al Giardino dei Giusti delle Nazioni, che si trova nello Yad Vashem, il memoriale che a Gerusalemme ricorda le vittime della Shoah e ricorda i loro salvatori: raffigurano un angolo del muro che (finito lo spazio per piantare gli alberi che li ricordano, come veniva fatto fino a qualche tempo fa) riporta tutti i nomi dei Giusti, divisi per nazione; nella foto, il tratto di muro dove sono scritti i Giusti italiani, e poi il particolare con il nome del nostro Angelo.
















La terza foto è l'attestato di Giusto delle Nazioni che è conservato nell'archivio dello Yad Vashem.

De Fiore, il Perlasca romano "Mio padre salvò 350 ebrei"
La storia del funzionario di polizia "giusto di Israele"
di Simona Casalini

Questa è la storia di un Uomo Giusto, nel marzo 1955 l’Unione delle Comunità israelitiche italiane così gli scriveva in una lettera: «La ringraziamo perché col suo fermo atteggiamento riuscì a salvare centinaia di ebrei, interpretando le inique disposizioni razziali con nobile e umana sensibilità, collaborando con le organizzazioni ebraiche, noncurante delle conseguenze che tale atteggiamento addensava sulla sua posizione e sulla sua stessa vita». Questa è la storia ancora poco conosciuta, o forse poco ricordata, di un signore non qualunque che si chiamava Angelo De Fiore, funzionario di polizia per una vita, morto nel 1969, tra i primissimi in Italia ad ottenere nel 1966 (pratica n° 0334) il riconoscimento di Giusto delle Genti, il suo nome scolpito nelle stele della collina degli ulivi, nel più grande monumento dedicato alla Shoa.
Era romano di origini calabresi, personaggio schivo, curato nel vestire, uno dei pochissimi funzionari della questura non epurato dopo la caduta del fascismo. Altra fine fece l’allora questore di Roma, Pietro Caruso, processato e giustiziato nel ‘44 a Forte Bravetta. Lui, De Fiore, nel ‘55 è questore di Forlì.
Solo una volta il "dottor Angelo" disse a suo figlio Gaspare perché, dopo la guerra, nei vicoli intorno al Ghetto tanta gente lo salutava e lo abbracciava: «Perché credo di averne salvati almeno 350». Come riuscì a farlo? Lo raccontò così: «Non facevo altro che dare l’impressione di non sapere niente», salvo poi «aver creato un gran confusione negli archivi». Molti ebrei stranieri ebbero i nomi camuffati, e decine di ebrei italiani furono regolarizzati come profughi dell’Africa settentrionale. Carte false, incluse le tessere annonarie, elaborate con un tal "signor Charrier", che poi nell’ufficio dell’inappuntabile "dottor Angelo" ottenevano i timbri ufficiali e poi i permessi di soggiorno. Si legge poi nel libro Il ghetto sul Tevere che «quel De Fiore si dimostrò un campione di solerzia nel mettere a disposizione degli instancabili investigatori tedeschi i suoi schedari, quelli che decideva lui, facendone sparire molti altri, quelli che per la Gestapo non dovevano esistere».
Racconta oggi il figlio Gaspare, settantenne professore universitario in pensione e presidente Uid, Unione Italiana per il disegno, nella sua casa in via Orti della Farnesina tappezzata di suoi quadri: «Quando uscì il film su Schindler e più tardi su Perlasca, noi fratelli li andammo subito a vedere: persone meravigliose, davvero, però, pensammo, anche papà aveva lavorato bene».
Ancora Gaspare: «Avevo 18 anni, mi accorgevo poco del dramma immenso che stavamo vivendo, mio padre era sempre sereno, a casa non una parola sul suo lavoro. Vivevano in via Clitunno, al quartiere Coppedè, io ero preso dall’esame di maturità, frequentavo la III C al Giulio Cesare col professore di italiano che il sabato indossava la camicia nera. Poi entrano gli alleati a Roma, mio padre sempre lì, sempre preciso negli orari d’ufficio, io iscritto al primo anno di architettura. Si sparge la voce che un generale americano si era innamorato della fontana delle Tartarughe di piazza Mattei, che pensava di smontarla per portarsela a Miami. In facoltà i professori pensarono che, nell’eventualità, sarebbe stato utile averne un rilievo, farne almeno una copia. Andai anche io, disegnavo bene. Con papà eravamo rimasti d’accordo che sarebbe passato a prendermi all’uscita dell’ufficio. Lo vedo sbucare da un vicolo, con suo abito color panna, cappello a larghe tese e sigaretta in bocca. Gli sto per andare incontro e vedo un uomo apparire da non so dove che urla qualcosa in ebraico. Ho paura, ma poi gli si butta ai piedi, gli abbraccia le gambe. Dai negozi, dai magazzini, dai portoni escono due, tre, dieci persone, quasi tutte donne vestite a lutto, che si fanno attorno. Parlano a voce alta, concitati. Uno di loro dice, in italiano «È tornato il nostro Angelo salvatore». E un altro: «Gli devo la vita, gli devo la vita». E un altro ancora, un giovane, racconta a tutti: «Ero stato preso in una retata e portato alla pensione Jaccarino di via Tasso, avevo nome e documenti falsi, ma i tedeschi insistevano. Volevano che dicessi di essere ebreo, che qualcuno aveva fatto la spia, mi interrogavano, mi davano botte. Poi entra lui, mi dà uno schiaffo e mi grida: "Ti hanno preso eh? Cos’hai rubato stavolta? Lo conosco bene questo qua, un ladruncolo da poco. Mandatemelo in questura" I tedeschi mi fecero uscire a calci». Anche Enza, l’altra figlia del "dottor Angelo", ora ottantenne, non capì allora che uomo fosse realmente suo padre. Se ne accorse di più finita la guerra, quando dietro largo Chigi comprò un paio di guanti di pelle e andò alla cassa per pagare. «Quanto devo?» «Niente, signorina De Fiore» «Come niente? E come sa il mio nome?» «Lei non mi conosce, ma io sono venuto tante volte a casa vostra per ringraziare suo padre. Diciamo così, questo regalo è pelle contro pelle». Enza De Fiore quei guanti li conserva ancora e Gaspare non vuole che finisca qui: «Più vado avanti con l’età e più ripenso a lui. Vorrei ritrovare qualcuno che lo ha conosciuto, che sappia qualcos’altro della sua vita. È ancora vivo qualcuno che può rispondere al mio appello?».


Un Questore nel giardino dei Giusti
Domenica 2 maggio 2004, alle ore 10,30 in Rota Greca (CS) avrà luogo l'inaugurazione di una piazza ed un monumento in onore ed in memoria di Angelo De Fiore, Giusto delle Nazioni. Angelo De Fiore nacque a Rota Greca (CS) il 19 luglio 1895, si trasferì a Roma dove vinse il concorso per Funzionario di Pubblica Sicurezza, rimanendo nell'Amministrazione fino a raggiungere il grado di Questore. Negli anni tragici e difficili dell'occupazione nazista di Roma, mentre dirigeva l'Ufficio stranieri della Questura di Roma, dedicò il suo impegno, a rischio della propria vita, alla salvezza dei suoi simili ingiustamente perseguitati. Egli salvò centinaia di vite umane dal terrore nazista. Infatti, quando i militari della Gestapo si recavano all'Ufficio stranieri della Questura di Roma per avere gli elenchi degli ebrei da inviare nei campi di sterminio, si trovavano di fronte a fascicoli sparpagliati sulle scrivanie, schedari inaccessibili ed elenchi introvabili, così quella che doveva essere per i tedeschi una fonte di informazione si rivelava, invece, un muro impenetrabile che impediva di individuare le vittime dei rastrellamenti. Per il coraggio e per i sentimenti di umanità dimostrati, nel 1954 riceve dalla Repubblica Francese la Legion d'Onore, dall'Unione delle Comunità ebraiche italiane la Medaglia dei Giusti e l'iscrizione del proprio nome su un ulivo della collina dell'Olocausto in Gerusalemme. Muore a Roma il 18 febbraio 1969. Angelo De Fiore fu, dunque, Uomo Giusto, ma fu anche un eroe perché, nello svolgimento quotidiano delle funzioni cui era preposto, ebbe la forza di opporsi alla violenza e alla barbarie,anteponendo alla sicurezza propria e della propria famiglia, gli ideali della umana solidarietà e della suprema carità. Il Dr. De Fiore fu Questore di Forlì, Pisa e La Spezia. Per l'occasione si esibirà la fanfara della Polizia di Stato e ci sarà l'alta uniforme della Polizia oltre che un picchetto d'onore.


2 maggio 2004: Rota Greca ricorda
Mario Tricoli

Inaugurato Domenica 2 Maggio 2004 il monumento ad Angelo De Fiore: salvò centinaia di ebrei
Comune di Rota Greca (CS)
Grande festa e grandi momenti di commozione a Rota Greca e non solo ,sono venuti dai paesi vicini i sindaci di S.Fili, Montalto Uffugo, Cervicati, San Martino di Finita, con la fascia tricolore e con i loro gonfaloni, il Questore di Cosenza, Romolo Panico, che ha portato i saluti del Capo Della Polizia De Gennaro, per onorare l'illustre cittadino di Rota Greca.
Questore di Roma,negli anni bui della guerra e dell'Olocausto, salvò centinaia di ebrei, un uomo normale, severo e schivo, ma di coraggio e cuore, lasciando ai posteri un patrimonio immenso: il rispetto del valore della vita e della dignità dell'uomo, dimostrando che si può sempre scegliere tra il bene ed il male.


Monumento in onore di Angelo de Fiore
Fiore Ulderico - Classe V A Commerciale
Rota Greca (CS) - Domenica, in una splendida giornata primaverile, è stata inaugurata un monumento in onore di Angelo de Fiore. Questo monumento ricorda la figura di un grande calabrese che ha avuto il coraggio, negli anni del fascismo, di salvare centinaia di ebrei destinati a morte certa.
Il bellissimo monumento è stato voluto fortemente dal sindaco, Dino D’Elia, e dal vice-sindaco, Roberto Albano, i quali hanno ricevuto i ringraziamenti del figlio di Angelo de Fiore, Gaspare.
La cerimonia si è svolta alla presenza di molte autorità: i Consiglieri regionali, Guagliardi e Occhiuto, il Parlamentare Oliverio, i Sindaci dei comuni vicini con i gonfaloni, il Questore di Cosenza Romolo Panico, il presidente dell’Associazione Italia-Israele e, infine, la banda musicale della Polizia di Stato. La partecipazione dei cittadini è stata totale. Tante emozioni si sono alternate in una manifestazione ben organizzata e realizzata, soprattutto, grazie all’aiuto del Presidente della “Pro Loco” di Rota Greca, Roberto Greco, impegnato anche a mantenere l’ordine nelle vesti di vigile urbano insieme al Comandante dei Vigili Raffaele Bottino. E grazie anche alla partecipazione dell’Associazione Culturale “IDEA” rappresentata dal Presidente Guido Tocci.