Calabria judaica - Sud ebraico

Calabria judaica ~ Sud ebraico
Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria
con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione

Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé.
La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu.
Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta.
Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne).
Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; a
ttraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.

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giovedì 31 maggio 2007

La judeca di Nicastro

di Vincenzo Villella
Ingresso alla Judeca
La presenza degli ebrei a Nicastro è storicamente documentata nel XIII secolo, anche se, quasi certamente, essi vi si insediarono già tra la fine del IX e l'inizio del X sec. in concomitanza con le incursioni saracene di quel periodo, allorché nacque il primo nucleo abitativo denominato Musconà. Appena arrivati, gli ebrei erano già in numero tale da costituire una comunità. Esigenze immediate, quindi, erano quelle di avere, oltre alle case da abitare, anche un locale per la preghiera comune (futura sinagoga), un bagno e una macelleria rituali e un piccolo appezzamento di terreno per il cimitero. Volontariamente scelsero una residenza circoscritta, un quartiere tutto concentrato, cioè il Timpone nel centro storico, circondato dai due torrenti Canne e Barisco. Questa scelta era vista di particolare buon occhio dalle autorità cittadine le quali avevano così maggior agio di controllare quel quartiere, di registrare i movimenti degli abitanti e di imporre i tributi. Inizialmente, quindi, la judeca di Nicastro non era un recinto forzato, una misura discriminatoria imposta agli ebrei. Essa, comunque, per la sua caratteristica conformazione non presentava alcuna possibilità di espansione.
La presenza ebraica a Nicastro però non è documentata da nessuno degli storici locali. Le fasi di questa presenza sono state tramandate in forma episodica in quanto nessuno degli storici nicastresi ha dedicato una sola parola agli ebrei: non Maruca, non Scaramuzzino, non Giuliani, non l'Ardito. Anche padre Francesco Russo nella sua Storia della diocesi di Nicastro ha ignorato la comunità ebraica nicastrese. C'è stata una sorta di rimozione della storia della presenza ebraica a Nicastro per cui, a livello locale, non abbiamo una documentazione adeguata sugli importanti contributi culturali ed economico-sociali che pure gli ebrei hanno offerto alla comunità nicastrese come a tante altre comunità dell'Italia meridionale.
Si hanno, infatti, solo notizie staccate e frammentarie e, come in altri paesi della Calabria, la presenza ebraica è testimoniata innanzitutto dal nome del quartiere della judeca e dalla memoria popolare che ricorda gli ebrei come usurai e basta. Il pregiudizio nei loro confronti non li rendeva meritevoli di essere ricordati in altro modo. Dovevano essere senza storia, non dovevano lasciare tracce nelle memorie patrie. Tollerati, ma mai integrati, utilizzati, ma sempre guardati con sospetto e avversione. Non sappiamo di preciso quanti fossero. Certamente il loro quartiere era densamente e interamente popolato.
Secondo la relazione ad limina del vescovo Francesco Montorio del 1597 (la più antica che si conserva nell'archivio diocesano) Nicastro contava 3400 abitanti, Sambiase 2500 e Zangarona 480. Sulla base dei dati del pagamento delle imposte, risulta che alla fine del XIII secolo (anno 1276) in Calabria c'era una popolazione ebraica di circa 2500-3000 ebrei. Nel Mezzogiorno continentale erano poco meno di 15mila. Sul finire del XV secolo, secondo i dati dell'imposta judaica, vivevano in Calabria 12mila ebrei (1000 a Montalto, 700 ad Altomonte, 300 a Monteleone). E' stato calcolato che, in generale, in Calabria un abitante su 10-12 era di cultura e religione ebraica. Dunque, la comunità ebraica di Nicastro, stando ai suddetti dati vescovili, era di 300-400 persone.
Dall'esame di alcuni documenti dell'archivio di stato di Napoli possiamo affermare con certezza che anche a Nicastro gli ebrei hanno rivestito un ruolo economico-sociale molto importante. Detestati e ricercati, vittime di persecuzioni, ma anche lusingati sia dall'università (così era chiamato il comune) che dai vescovi che si contendevano le cospicue tasse che essi dovevano pagare, gli ebrei hanno avuto una presenza determinante nella società nicastrese per alcuni secoli. Come risulta dai registri della Cancelleria Angioina, gli ebrei di Nicastro, insieme ad altre comunità pugliesi (Brindisi, Nardò, Melfi, Taranto), campane (Napoli, Sorrento, Amalfi, Salerno) e calabresi (Monteleone, Nicotera, Seminara, Reggio, Gerace, Cosenza, Acri, Bisignano, Castrovillari, Rossano) pagavano nel 1276 l'imposta per la distribuzione della nuova moneta della zecca di Brindisi, detta anche 'gabella judaica'.
Nella Taxatio generalis subventionis in justitiariatu Calabriae (1276) è registrata la colletta che le comunità giudaiche pagavano alla corte. Ne sono ricordate 14. La più importante, che pagava, quindi, di più, era quella di Crotone (tassata per 19 oncie, 12 tarì e 12 grana). Seguivano Reggio, Castrovillari, Bisignano, Monteleone, Cosenza, Nicotera, Nicastro (pagava solo 3 tarì e 12 grana) e altre minori. Anche nel 1278 gli ebrei di Nicastro compaiono nella Cedula di tassazione generale nel Giustizierato di Calabria per la metà dell'annuale sovvenzione dovuta pari a 4 tarì e 6 grana. La judeca di Nicastro, sorta intorno alla piccola sinagoga tra i torrenti Barisco e Canne, crebbe con gli anni nel rione Timpone. La scelta del sito rispondeva, oltre che a ragioni di sicurezza, anche e soprattutto a precise esigenze rituali in quanto gli ebrei consideravano le fonti d'acqua dolce come luoghi di epifania, collegate com'erano alla purificazione rituale per immersione. Per la cultura semitica le acque dolci sono considerate favorevoli all'uomo in contrapposizione alle acque salate e, quindi, al mare ritenuto un luogo abitato da presenze negative. La judeca di Nicastro, oltre che essere circondata dai due torrenti, poteva sfruttare anche alcune sorgenti d'acqua che garantivano l'approvvigionamento idrico.
Certamente, proprio per l'abbondanza dell'acqua disponibile, fu possibile creare il miqwéh, ossia la vasca per il bagno di purificazione rituale (il cosiddetto bagno della judeca). Il bagno rituale era riservato esclusivamente alle donne. Esse erano tenute a purificarsi mensilmente, dopo ogni loro ricorrenza, nonché alla vigilia del matrimonio e dopo il parto. Anche gli uomini si sottoponevano al bagno purificatore in apposite vasche (ancora visibili). In estate e nelle altre stagioni, quando la temperatura mite lo consentiva, il bagno purificatore veniva fatto con l'immersione direttamente nell'acqua del torrente. Queste consuetudini rituali erano importanti anche dal punto di vista igienico tanto che possiamo dire che nella judeca i servizi igienici erano più sviluppati di quelli del resto della città. Ciò è dimostrato, fra l'altro, dal minore tasso di mortalità degli ebrei della judeca e dalla inesistenza o scarsa incidenza di epidemie come quelle di colera, invece ricorrenti in città.
La piccola sinagoga, con la facciata a sud-est verso Gerusalemme, fu costruita con gli stessi materiali poveri delle case e non era volutamente appariscente come luogo di culto, anzi si confondeva con le modeste costruzioni circostanti. In questo senso, comunità e sinagoga costituivano anche nella struttura edilizia il corpo unico di tutti gli ebrei del Timpone. Se all'esterno la sinagoga era semplice come le case che avevano la facciata rustica anche per non attirare l'invidia dei cristiani, all'interno invece essa doveva essere splendidamente ornata, con decorazioni e magnifici arredi sacri. Aveva due portoni d'ingresso: uno più grande per gli uomini e uno più piccolo per le donne. In un angolo c'era il piccolo forno che era adibito esclusivamente alla cottura dei pani azzimi che l'intera comunità consumava durante la Pasqua. Era situato all'interno della sinagoga proprio per avere la certezza che non vi fossero mai stati cotti cibi contenenti lievito. In un basso non lontano dal torrente c'era il macello adibito alla mattazione, secondo le prescrizioni rituali, del bestiame grosso destinato al consumo di tutti gli ebrei della judeca. C'è da dire che un apposito Breve di papa Pio II del 1459 (che poi venne confermato dai papi successivi fino al '700 inoltrato) stabiliva che era vietato agli ebrei vendere ai cristiani carne di bestie da essi macellate. Avveniva, infatti, che la carne dichiarata ritualmente impura dagli ebrei veniva venduta a prezzo ridotto ai cristiani, pur essendovi su questa carne una tassa speciale da pagare. In uno spazio adiacente alla sinagoga c'era il piccolo cimitero ebraico.
Per la sua caratteristica conformazione, la judeca di Nicastro era un quartiere naturalmente chiuso e appartato, circondato com'era dai due corsi d'acqua che costituivano una sorta di difesa naturale per cui non c'era bisogno di mura di cinta. L'entrata era unica dal basso verso l'alto attraverso una gradinata. Anche per le limitazioni che le venivano imposte dall'esterno, la comunità ebraica era come una vera e propria istituzione extraterritoriale nel paese, con i suoi usi, i suoi costumi, le sue leggi, i suoi privilegi. La judeca di Nicastro per la sua posizione geografica costituiva un punto di riferimento e di ospitalità per gli ebrei di passaggio che, specialmente in periodi di persecuzione, si spostavano da sud verso la Calabria settentrionale. Sotto gli aragonesi risulta tra quelle che erano sottoposte periodicamente ad un apprezzamento o catasto generale dei beni. L'operazione veniva eseguita sotto la sorveglianza di un commissario regio. Le dichiarazioni venivano controllate e poi trasmesse a Napoli. C'erano poi altri balzelli da pagare come il rimborso del salario di mille ducati per il bajulo generale, il sussidio agli eventuali inquisitori, il compenso quando gli ebrei della judeca erano esentati dal segno distintivo. C'erano inoltre le altre tasse a cui gli ebrei nicastresi dovevano concorrere al pari dei cristiani in occasione di ricorrenze a corte, come matrimoni, incoronazioni, nascite di figli, ed anche in caso di guerra. Erano i cosiddetti donativi o collette. Una tassa specifica e particolare da pagare era la morthafa che consentiva agli ebrei la libertà di culto. Essa era versata al vescovo che esercitava la sua giurisdizione sulla judeca per mezzo di alcuni canonici della cattedrale. Proprio sulla riscossione di questo tributo particolare scoppiarono spesso contrasti tra il vescovo e l'Università in quanto entrambi lo pretendevano.
La popolazione nicastrese dimostrò sempre, se non proprio intolleranza nei confronti degli ebrei, una palese diffidenza. In quei tempi di estrema miseria gli ebrei erano guardati con invidia e avversione soprattutto a causa della loro ricchezza. Però essi erano indispensabili non solo per i ceti abbienti bisognosi di denaro, ma anche per il popolo che ricorreva a loro per piccoli prestiti a interesse o a pegni onde poter far fronte alle esose imposizioni fiscali. Quale lingua parlavano gli ebrei di Nicastro? Come comunicavano con la gente? In famiglia tra loro o quando non volevano farsi capire dai cristiani parlavano ovviamente in ebraico. Invece con gli altri, almeno dal 1200 in poi - come sostengono gli esperti in materia - si esprimevano in una sorta di linguaggio che aveva per base il dialetto locale al quale si intrecciavano termini del vocabolario ebraico. Una caratteristica degli ebrei era quella di dare al loro discorrere una particolare intonazione, pronunciando le parole in modo diverso (come oggi gli extracomunitari). Dall'esame di alcuni registri fiscali conservati presso l'Archivio di Stato di Napoli si ricava che anche nella judeca di Nicastro, come in altri centri calabresi, gli ebrei erano commercianti in tessuti (seta, lana, cotone) e gioielli. Alcuni, utilizzando le acque del torrente Canne, facevano i conciatori di pelli e i tintori di panni, altri commerciavano in frumento e bestiame e in altri generi commestibili. Altri mestieri erano la lavorazione del ferro e del rame nelle caratteristiche forge, l'oreficeria e l'argenteria. Un capitano tutelava l'ordine del quartiere. L'ingresso della judeca veniva aperto all'alba e chiuso al tramonto. Perciò i cristiani vi potevano entrare solo di giorno per fare acquisti o chiedere prestiti a interesse o in cambio di pegni.
Pur costituendo una comunità emarginata e non partecipando alla vita politica e amministrativa, gli ebrei nicastresi, superando le difficoltà linguistiche, si inserirono prepotentemente nel tessuto economico ed avevano per questo una costante presenza giornaliera nel mercato sottostante il quartiere giudaico e, soprattutto, un ruolo preponderante nelle fiere che si tenevano a Nicastro e nei paesi vicini. A partire dal 1476 essi ottennero che, se l'inaugurazione della fiera coincideva con il sabato o con altra festività ebraica, i mercanti ebrei che vi erano affluiti fossero esentati dal partecipare al solenne corteo di apertura con tutte le autorità pubbliche e il gonfalone cittadino in testa.
Accanto a quelli più facoltosi, che esercitavano soprattutto la mercatura, c'erano anche i piccoli artigiani, i merciaioli, i cosiddetti rivenduglioli. Tutti insieme con le loro varie attività costituirono il primo vero e proprio nucleo di industriosi imprenditori, contribuendo con la loro intraprendenza ed operosità alla trasformazione economica del territorio nicastrese. La loro presenza economica era esclusivamente urbana sia perché l'agricoltura costituiva l'occupazione meno rispondente alle attitudini degli ebrei sia perché per legge era loro vietato di diventare proprietari terrieri. Però non bisogna dimenticare che furono proprio loro ad introdurre la lavorazione della seta con tutto ciò che questa attività comportava in termini di lavoro, di commercio, di circolazione del denaro. Ricordiamo che Catanzaro nel 1400 era il principale mercato serico d'Italia e che questa attività era quasi completamente concentrata in mani ebraiche. Inoltre gli ebrei furono i primi ad introdurre la tintura dei drappi con l'indaco.
La judeca di Nicastro, come tutte le altre, dovette essere abbandonata dagli ebrei in seguito alla prammatica di espulsione del 1510. Non tutti però lasciarono il territorio. I più, infatti, cercarono rifugio nelle zone interne. Un gruppo trovò accoglienza e sistemazione a Zangarona, villaggio di albanesi, sorto nella metà del XV secolo insieme ad altri casali di origine albanese come Vena di Maida, Amato e Gizzeria. Zangarona è un esempio non solo di solidarietà, ma di pacifica convivenza di due etnie. In particolare non solo dalla judeca di Nicastro, ma anche da quella di Amantea, diverse famiglie ebraiche si rifugiarono all'interno al di là del Reventino, in teritorio di Martirano e nella valle del fiume Salso in territorio di Conflenti Soprani. Questa località, assai internata, offriva tutti i requisiti che consentivano loro di poter continuare a mantenere la propria identità e ad esercitare le loro attività: località appartata e ricchezza di acqua. L'acqua abbondante dei ruscelli di quel sito garantiva loro lo sviluppo di attività tipiche che sarebbero rimaste nella popolazione di Conflenti Soprani: conciatori di pelli, tintori, cestai, barilai, pettinai, lavoratori della cera e del miele. Furono essi, inoltre, a introdurre anche nei paesi del Reventino la coltura del gelso e la lavorazione della seta.
Il vuoto lasciato dagli ebrei a Nicastro nel campo del prestito a interesse si cercò di colmarlo con l'istituzione del Monte di Pietà che, come si legge nello statuto, aveva lo scopo di "dare prestiti su pegni senza agio per i poveri". Esso però, - come denunciava il vescovo di Nicastro - essendo finito ben presto nelle mani di affaristi, deviò dalla finalità benefica prevista dal Concilio di Trento come "commodum pauperum previis pignoribus". Anziché dare i prestiti ai poveri bisognosi, gli amministratori li davano a se stessi e ai propri congiunti impegnando però - come denunciava il vescovo - oggetti di nessun valore quali "pezze e stracci di lana e tela i quali per essere stati impegnati per più di 15 anni sono consumati da tarme e sorci". Il vescovo cercò di correre ai ripari perché il Monte di Pietà non andasse del tutto in rovina. Pertanto deputò il vicario vescovile e il cappellano maggiore della cattedrale, un procuratore e un notaio per verificare i conti e far pagare quelli che avevano sottratto i soldi. Ma dovette amaramente constatare che, per recuperare i soldi rubati, ci sarebbero state molte difficoltà dal momento che, essendo gli amministratori del Monte dei laici, non si sarebbero fatti processare dal tribunale ecclesiastico. Il popolo, vivendo nella miseria, oppresso dal bisogno, era costretto a ricorrere all'usura specialmente in seguito a sciagure e calamità. In questo caso i Monti di Pietà dovevano soccorrere le popolazioni così come conclamavano gli statuti. Invece proprio le masse contadine restavano escluse dai prestiti che erano esclusivo appannaggio dei ceti abbienti. Proprio questi ricchi divennero gli usurai cristiani.
Ad essi, una volta sparita la terribile concorrenza ebraica, si doveva rivolgere la povera gente specialmente dopo le calamità che causavano lutti e distruggevano i raccolti. A quanto risulta dai documenti notarili, gli usurai cristiani richiedevano interessi di ben due carlini al mese per ogni ducato prestato e cioè il 200/% al mese e il 2400% l'anno. Inoltre, poiché la povera gente era costretta a garantire i prestiti anche sulla casa, sul bestiame o sul piccolo appezzamento di terra, in caso di insolvenza gli usurai cristiani pignoravano questi beni lasciando sul lastrico i poveri debitori insolventi. Nell'archivio di Stato di Lamezia Terme ci sono a centinaia gli atti notarili che documentano questi autentici delitti a danno della povera gente. E i nomi di questi usurai cristiani appartenevano a note famiglie con grandi patrimoni fondiari. Di fronte a questa situazione la popolazione nicastrese, come quella di altri centri del regno di Napoli, inviò una supplica al sovrano chiedendo di far ritornare gli ebrei esternandogli "il bisogno grandissimo che teneno de li ebrei per li pagamenti fiscali quali serriano impossible poternosi pagare senza de la stancia de quili". In effetti, Carlo V, per rispondere a tutte le richieste in tale senso, il 23 novembre 1520 emanò un editto con cui venivano richiamati nel regno gli ebrei a particolari condizioni. Alcuni ebrei fecero ritorno anche a Nicastro. Ma l'opposizione della Chiesa "contra obstinatissimam judaeorum perfidiam", affidata alle prediche di preti e frati, scatenò nuovamente l'odio contro quelli che avevano cercato di trarre profitto dall'editto. La cacciata definitiva degli ebrei dal regno di Napoli avvenne nel 1702 pochi anni prima che finisse la dominazione spagnola sostituita da quella degli Asburgo d'Austria (1734).
Quale fu il destino della judeca di Nicastro? Le poche famiglie ebraiche convertite al cristianesimo e integrate grazie a matrimoni misti restarono nelle loro abitazioni e col tempo persero completamente la loro identità ed appartenenza. Il resto del quartiere, che si snoda verso l'alto della timpa a partire dal ponte sul Canne proprio nelle vicinanze della confluenza col Niola (chiamato allora Ponticello o Piedichiuso), fu occupato in parte inizialmente da alcuni abitanti dei vicini quartieri dopo che le case abbandonate dagli ebrei fuggiaschi furono messe all'incanto. L'occupazione totale e massiccia del quartiere avvenne dopo la disastrosa alluvione del 6 gennaio 1563 del Canne e del Niola. Fu interamente sommerso il rione denominato Le capanne che sorgeva proprio a ridosso del Canne. Gli scampati occuparono le case del soprastante quartiere ebraico della judeca, oggi chiamato Timpone. Anche la piccola sinagoga, posta al centro del quartiere, fu adibita inizialmente ad abitazione da chi l'aveva acquistata. Essa fu trasformata in chiesa a metà del '700. Infatti, nel 1720 un certo D. Orazio Vicino, prima di morire, lasciò al vescovo quella casa di sua proprietà in cambio di un certo numero di messe in suffragio della sua anima. Alcuni anni dopo un suo figlio di nome D. Antonio Vicino, d'accordo col vescovo, su quella casa fece costruire la chiesa, dedicandola a S. Agazio, soldato romano martire, e ottenendo che essa fosse considerata de jure patronatus della sua famiglia.

Il ponte della Judeca e la Judeca negli anni '20.

martedì 15 maggio 2007

Ferramonti (dal libro di Carlo Spartaco Capogreco)


http://www.bethshlomo.it/ferstoryit.htm

Con l'avvento al potere di Hitler e con l'inizio delle persecuzioni razziali, molti furono gli ebrei che fuggirono trovando un rifugio in Italia. Dal 23 ottobre 1941 il flusso di immigrazione aumentò moltissimo, perché da parte di Himmler venne dato l'ordine di arrestare tutti gli ebrei, e così quasi tutta l'Europa divenne una grande trappola. Il Ministero degli esteri diede il permesso a tutti gli ebrei che lo desiderassero di venire ad abitare in Italia, a patto che non avessero partecipato ad attività dei partiti antifascisti. Vennero istituiti comitati di assistenza per i poveri, mentre per i ricchi si crearono molte agevolazioni fiscali per facilitare il trasferimento dei soldi nelle banche italiane. Nel 1938 erano già presenti in Italia più di 4000 ebrei, in maggioranza tedeschi ed austriaci. Gli ebrei si stanziarono per la maggior parte nelle città di: Bolzano, Milano, Roma, Fiume e Genova. Agli ebrei che provenivano dagli altri paesi era concesso facilmente il permesso di soggiorno.
Col decreto del 7 settembre 1938 il Governo iniziò una politica antiebraica, stabilendo l'espulsione dai territori italiani degli ebrei con permesso di soggiorno rilasciato dopo il 1919. Nonostante il decreto ,il flusso si interuppe solo nel 1940, con l'entrata in guerra dell'Italia alleata della Germania. Il Ministero degli interni però capì di non poter estradare tutte queste persone, perché erano già state espulse dai loro paesi d'origine, ormai in guerra, e quindi furono internati in appositi luoghi che potevano essere o comuni di internamento o appositi campi di concentramento. Il Ministero, quindi, già dal 1939 diede incarico ad autorità periferiche circa i provvedimenti da adottare. Gli ebrei, anche se con permesso di soggiorno, erano considerati cittadini di paesi in guerra con l'Italia che arrecavano danno alla sicurezza del Paese.
I campi di concentramento vennero progettati nell'Italia meridionale, dove il Ministero aveva già rinchiuso in precedenza i membri dei partiti antifascisti. Alla fine di maggio del 1940 erano già pronti più di 4700 posti nei campi di concentramento. Fu dato l'incarico alla ditta Parini di Roma di fare dei preventivi per altri due campi di concentramento muniti di baracche in legno ed edifici in muratura per gli uffici di direzione. L'unico vero campo di concentramento, munito anche di cinta di filo spinato, fu costruito a Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza, in Calabria. Molti ebrei, una notte come tante altre, vennero prelevati dalle loro case e portati nelle carceri e alla richiesta di spiegazioni, nonostante avessero mostrato il loro permesso di soggiorno, furono loro negate, ed il giorno dopo furono portati in stazione, scortati da agenti di pubblica sicurezza e caricati su un treno diretto ad una ignota destinazione. Questa destinazione prese poi il nome di Ferramonti.
Nonostante l'apparenza di lager come quelli nazisti, il campo di Ferramonti si trasformò in una vera e propria cittadina munita di scuole, sinagoghe, biblioteca, asili, circoli culturali, filatelici, e addirittura un parlamento interno che aveva il compito di tenere i contatti con la direzione e far risolvere i problemi degli internati. Tra i compiti dei capi camerata c'era anche quello di distribuire i sussidi statali a tutta la baracca. Il parlamento era formato dai capi camerata eletti a votazioni e un capo dei capi che doveva parlare l'italiano per mantenere il contatto con la direzione. Proprio per la sua posizione all’estremo Meridione italiano il campo rappresentò la salvezza per molti ebrei che, ancora prima che giungesse l'ordine di sterminio, furono liberati dalle brigate inglesi sbarcate in Sicilia, il 14 settembre del 1943.
Il 20 giugno 1940 prese il comando del campo il comandante di pubblica sicurezza Paolo Salvatore. Su uno spiazzo polveroso, che al primo accenno di pioggia diventava un lago, sorgevano le baracche, costruite spesso con l'aiuto degli ebrei stessi che venivano assunti per mancanza di mano d'opera.
Le procedure che venivano sbrigate all'interno del campo subito dopo l'arrivo erano le seguenti: gli internati venivano sottoposti alle formalità burocratiche e subito dopo venivano loro assegnate le baracche. Veniva poi consegnata la dotazione prevista, cioè due cavalletti, un'asse ,un materasso, un guanciale, due coperte, due lenzuola ed un piccolo asciugamano. All'entrata del campo vi erano alcuni edifici in muratura in cui erano alloggiate le guardie, il direttore, la segreteria e la direzione. La guarnigione del campo era composta da un segretario, un dattilografo, due motociclisti con moto Guzzi 500 e un'autista con un'Alfa Romeo 1750. Per il controllo del perimetro era presente una milizia comandata dal capomanipolo Tallarico, con delle camicie nere reclutate dai paesi vicini. All'interno invece vi erano dieci agenti di sicurezza agli ordini del maresciallo Gaetano Marrari.
Vi era anche un'infermeria diretta dal dottor Rossi, che non aveva nessun titolo, ma dopo molte lamentele venne sostituito da medici internati che riuscirono a creare un vero pronto soccorso funzionante 24 ore su 24 con una farmacia fornita.
Il 10 luglio 1939 venne reso noto il regolamento del campo, che prevedeva tre appelli al giorno (divenuti poi uno ogni due giorni), il divieto di uscire dalle baracche prima delle 7 e dopo le 21, inoltre non si potevano leggere riviste politiche e non si potevano utilizzare apparecchi fotografici, anche se esistono alcune foto del campo. Il direttore adottò sempre un comportamento di massima tolleranza, pur nell'apparenza di pieno rispetto del regolamento, per non subire controlli accurati da parte del Ministero. Molto presto, a causa della zona malsana, alcuni internati morirono per scabbia e malaria e così nel cimitero comunale di Tarsia comparvero delle stelle di Davide. Venne aperta una mensa comunale, che tuttavia venne subito chiusa a causa del cibo pessimo, e venne costruita una cucina in ogni baracca.
Nel campo, dopo il decreto che obbligava tutti gli ebrei presenti in Italia ad essere rinchiusi in campi di concentramento, giunsero diversi ebrei provenienti da diversi stati, poiché non era mai stata cancellata la legge che permetteva l'immigrazione di chiunque lo desiderasse. Con l'arrivo di questi ebrei, come un gruppo di 400 ebrei chiamati bengasioti perché catturati in Africa (in verità provenivano da Budapest, e si erano trovati lì con l'intento di imbarcarsi per la Palestina, viaggio che non avvenne per la conquista dell'Africa da parte dell'Italia e l'arresto degli ebrei). Oltre a questo gruppo erano anche presenti ebrei di altri paesi come Germania, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, ecc. L'arrivo di tutti questi ebrei che non parlavano italiano e che avevano un modo di vivere diverso da quello degli ebrei già presenti in Italia da diversi anni, provocò diversi problemi all'organizzazione interna, che però riuscì a non modificarsi troppo.
A Ferramonti, vista la durata della permanenza, si iniziarono a fondare alcuni ritrovi come la biblioteca, che all'inizio disponeva di 68 libri, ma che grazie all'aiuto di Israel Kalk raggiunse la quota di qualche centinaio. Venivano inoltre inviati aiuti sotto forma di vestiti e giochi e fu finanziata la costruzione dei bagni. Si aprirono diversi corsi di lingue e perfino una scuola che seguiva il programma delle scuole pubbliche, modificato appositamente per gli studenti presenti nel campo e provenienti da diversi paesi.
Il campo poteva ospitare fino a 2000 persone, era una vera e propria città di baracche tutte bianche costruite in legno su un basamento di calcestruzzo con la pianta ad U. Sulle pareti lunghe potevano essere messi fino a 30 posti letto e il tratto trasversale avrebbe dovuto accogliere i servizi igienici. Il campo era stato edificato in una zona paludosa, che con le piogge si riempiva subito di pozze malsane in cui sovente stagnava la malaria, per questo gli ebrei credevano di essere stati rinchiusi in quei luoghi per facilitarne la morte, e spesso chiedevano il trasferimento in altri campi. Il campo costò sette milioni.
Oltre alla biblioteca e alla scuola fu costruito il Tempio, di 35 metri per 5, con 5 finestre sui lati lunghi, e con al centro vi era lo spazio per la tevà [il pulpito] e l'Aron Hakodesh [il mobile in cui sono custoditi i rotoli della Legge]; dal soffitto scendevano trenta candelabri in legno con due candele ciascuno. L'Aron aveva due tende, una bianca e una azzurra ,con al centro un Maghen David [Stella di David] di nastro dorato. Vi erano 400 posti a sedere su panche anch’esse in legno. Alla fine del secondo anno l'organizzazione di Ferramonti acquistava una nuova figura che era quella di giudice di pace, e nello stesso tempo si chiese una parte del cimitero di Tarsia per seppellire i morti ebrei. Il 24 marzo 1942 giunse al campo Riccardo Pacifici, rabbino capo di Genova. Al momento della visita erano presenti nel campo 1400 ebrei.
Alla fine del secondo anno venne sostituito il direttore del campo, e arrivò al posto di Salvatore Mario Fraticelli. Le cose all'interno non cambiarono molto poiché anche Fraticelli si dimostrò disponibile e premuroso; egli dovette solo limitare il rilascio dei permessi d'uscita, che prima era molto frequente.
Finalmente il 14 settembre 1943 giunse a Ferramonti un carro della brigata inglese a portare la fine della guerra e la libertà per gli internati. Molti internati andarono sulle colline adiacenti e molti altri, invece rimasero ancora nel campo, perché le loro città di origine erano ancora in piena guerra. Purtroppo, nonostante il campo di Ferramonti fosse stato liberato, in quelli stessi giorni nel Nord Italia iniziò una vera e propria repressione fisica degli ebrei presenti, spesso mandandoli nei lager nazisti.
Il campo venne preso dagli alleati e modificato in una base, molti internati si misero al servizio dell'esercito britannico. Il 10 ottobre si ebbe un grande momento di gioia quando arrivò un mezzo della Brigata Ebraica, che aveva come simbolo di riconoscimento un Maghen David. Il campo di Ferramonti fu di molto aiuto ai paesi intorno, perché all'interno vi erano molte persone di cultura e molti medici, che potevano aiutare tutti i malati dei paesi vicini.
La maggior parte degli ebrei che si salvarono dopo la guerra riuscì finalmente a partire per Israele, dopo un breve corso sull'utilizzo delle armi e sulla vita dei kibbutz.

venerdì 11 maggio 2007

Gli ebrei in Calabria

Conferenza tenuta a Bova Marina (RC) il 19 gennaio 1999
Augusto Cosentino

Il problema della religione nella Calabria meridionale tardoantica si è imposto ai nostri occhi in questi ultimi anni con grande urgenza e, a leggere i dati in modo complessivo, con una grande varietà di sfaccettature. Il ritrovamento della sinagoga di Bova Marina è l’ultimo tassello di un quadro variegato e composito che comprende nella zona gran numero di culti e di varianti di culti che testimonia di una complessità altrimenti sconosciuta e finora pressoché ignorata dagli storici.
La sinagoga di Bova Marina è datata ai secoli IV-VI d.C. Si tratta di un periodo in cui è avvenuto forse uno spostamento dei gangli vitali ed economici della regione. Sembrerebbe che Scyle, che dovrebbe corrispondere al nostro centro bovese ubicato nella zona di San Pasquale, avrebbe avuto il sopravvento sui più antichi centri di Leucopetra e Decastadium (rispettivamente Lazzaro e Melito). Il quarto secolo sembra inoltre un’epoca cruciale per la storia degli Ebrei della zona, ma anche per quanto riguarda la cristianizzazione della Calabria. Nello stesso secolo abbiamo altre due testimonianze che, seppur di minor importanza monumentale rispetto alla sinagoga bovese, rappresentano pur sempre due segni coevi di presenze ebraiche nella zona: da un’area cimiteriale di Lazzaro abbiamo una lampada in terracotta con il simbolo evidentemente giudaico della menorah[1]. Da Reggio proviene invece un frammento di iscrizione in greco[2], leggibile [Sunagwgh t]wn Ioudaiwn[3]. Sono queste le più antiche e sicure testimonianze della presenza di popolazioni giudaiche nella Calabria meridionale. Anche San Girolamo, nel suo epistolario, parla di "gente ebrea per nazione approdata su queste terre".
Alla stessa epoca appartengono pure i segni certi e incontrovertibili della presenza cristiana in queste zone. Sia le fonti storiche, sia quelle epigrafiche più antiche sono databili appunto a quest’epoca cruciale per quanto riguarda l’intera storia della cristianità con l’epocale svolta costantiniana.
Già testimonianza di cristianesimo appare il rescritto costantiniano del 21 ottobre 312-313. Inoltre nel VI Sinodo di Sardica, del 342 o 343, troviamo citati i vescovi delle Eparchie dei Bruzi[4].
Due documenti epigrafici cristiani fortunatamente datati e di indubbio carattere cristiano provengono da Taurianum (del 348) e da Locri (del 391). Altri sono databili per caratteristiche epigrafiche a questo secolo (uno da Taurianum della metà del IV; forse databile ancora al IV l’iscrizione conservata in un apografo cartaceo con la frase si deus pro nobis quis contra nos? tratta dall’epistola paolina Rom. VIII, 31).
Ancora al nostro IV secolo è attribuibile il primo impianto attorno al sepolcro venerato di San Fantino a Palmi.
Inoltre il Morisani nel suo Marmora Rhegina cita alcune catacombe che sarebbero emerse a Reggio, mentre il Frangipane cita un cubicolo funerario, ritrovato nei pressi dell’attuale Capo d’Armi, in cui sarebbe stato affrescato un paleocristiano Daniele tra i leoni.
Un altro elemento da notare riguardo alle culture ebraica e cristiana nella Calabria meridionale, è il loro legame con il mondo dell’Africa settentrionale. Alcuni studiosi notano la pertinenza dell’edificio sinagogale bovese con le coeve costruzioni di tale tipo della Palestina. La presenza degli Ebrei nella Calabria meridionale dovette essere in relazione con la felice posizione geografica nei confronti dell'Africa settentrionale[5]. Anche se non è possibile affermare che essi detenessero il monopolio dei commerci con quelle terre, dovettero però senza dubbio avere una posizione di grande importanza in quei flussi economici. I segni dei legami con la cultura nord-africana sono numerosi. Probabilmente lungo quegli stessi canali commerciali, che facevano dei porti della Calabria dei punti di approdo intermedi sulla strada sud-nord in direzione di Roma, dovette viaggiare pure la cristianizzazione. La comunità ebraica di Roma, con sporadiche presenze già in età tardo repubblicana, ebbe un periodo fiorente durante l'impero di Augusto. Alterne furono le sue fortune nel I sec., fino alla massiccia immigrazione forzata che seguì la distruzione di Gerusalemme del 70. Alcuni studiosi sottolineano inoltre come l’asse sud-nord dei commerci si muterà, con gli stravolgimenti dei secoli IV-VI (in particolare con l’invasione vandala), in un asse est-ovest, che porterà alla bizantinizzazione della Calabria. Segno di questo nuovo asse commerciale è dato nell’archeologia dalla parziale sostituzione della sigillata africana con quella anatolica del tipo ‘Late Roman c’, ben presente negli strati archeologici di fine V secolo (ad esempio a Scolacium).
Inoltre lo storico Paul Arthur ha a lungo insistito sulla possibile produzione calabrese delle anfore di tipo Keay LII, ben note in Calabria, delle quali in vari scavi di Roma sono stati ritrovati molti esemplari segnati con la menorah e con il chismòn.
Intendo inoltre segnalare in questa sede alcuni interessanti segni di culti di altra natura testimoniati in Calabria. Presso la collezione Capialbi di Vibo Valentia sono conservate alcune gemme incise e iscritte relative ai culti di divinità gnostiche (tipo Abraxas), raccolte e pubblicate dallo stesso erudito vibonese. Altre tre gemme similari sono state pubblicate dal Marchese Taccone sempre nell’800, ma oggi se ne sono perse le tracce. Questi oggetti di squisita fattura artistica potrebbero provenire dal mercato antiquario e non dirci nulla riguardo al territorio. Ma potrebbero pure essere relative a scoperte fortuite avvenute nella zona ed essere quindi arrivate in mano ai due eruditi calabresi ottocenteschi che le pubblicarono.
Inoltre nella grande messe di notizie utili che possiamo desumere dalle Epistole di papa Gregorio Magno, intendo segnalarne due che sembrano andare in questa stessa direzione. Se in quella in cui si scomunica un presbitero accusato di idolatria possiamo riconoscere i segni delle persistenze pagane o di una sorta di sincretismo pagano-cristiano nella regione, in un’altra troviamo la notizia della presenza di manichei nella zona di Squillace.
Dunque senza dubbio nel IV secolo troviamo in questa zona della Calabria la presenza di cristiani e di ebrei. Certo la ben nota casualità dei rinvenimenti archeologici in territorio calabrese potrebbe essere complice di questa ricostruzione. Il silenzio attorno al periodo precedente non è necessariamente prova certa di una mancanza. Non possiamo insomma negare che già in precedenza essi fossero presenti in questo territorio. Possiamo solo dire che non abbiamo certezze storiche. Certo però, pur nello scarso numero di testimonianze, non paragonabili ad altre zone d’Italia, è rilevante il fatto che siano così numerose quelle concentrate nel secolo IV, periodo che senza dubbio fu protagonista di grandi eventi e sconvolgimenti che portarono all’epocale passaggio dall’antichità al medioevo. Se dunque non possiamo dire che sicuramente furono quelli di IV secolo i primi cristiani ed ebrei a mettere piede in questa zona, possiamo però affermare senza ombra di dubbio che fu questo secolo che vide il fiorire di queste presenze in contrasto con la sporadicità dei tre secoli precedenti.
Comunque per dovere di completezza storica dobbiamo citare le testimonianze seppure incerte delle epoche precedenti. Per quanto riguarda la presenza di Ebrei in Calabria, abbiamo la Cronaca di Achimaaz, un testo databile forse all'XI sec., che riporta la memoria di una diaspora nell’Italia meridionale connessa con l'arrivo di prigionieri deportati dopo la distruzione di Gerusalemme del 70[6]. Questo elemento è abbastanza generico e la fonte è troppo tarda per essere di grande utilità. Alcuni studiosi sembrano propendere per una certa veridicità della fonte. E' probabile che, in uno scalo commerciale importante lungo le rotte che conducevano dal medio-oriente e dall'Africa settentrionale a Roma come era Reggio esistessero già delle comunità o singoli che svolgessero la loro attività di mercanti o mediatori[7]. Certo è comunque che dopo la riduzione di Gerusalemme a colonia romana e la dispersione dei figli di Israele nell'Impero le loro presenze aumentarono sensibilmente nelle varie città italiane[8]. Ma nota giustamente Ariel Toaff come "there is no definite evidence of the presence of Jews there until the first half of the fourth century"[9].
Anche per quanto riguarda la prima evangelizzazione cristiana della zona abbiamo una data riferibile al I sec. d.C. Si tratta dell’ormai nota biografia del proto-vescovo e proto-martire reggino, Santo Stefano da Nicea, che sarebbe stato nominato da San Paolo in persona insieme con un ausiliario dal nome incerto (Suera) a capo di una modesta comunità. Il martirologio del vescovo e di alcuni correligionari è contenuto nel Sinassario Costantinopolitano ed è databile all’VIII-IX sec. Non è questa la sede adatta per riproporre una discussione che seppur spesso viziata da posizioni preconcette, non è giunta ancora oggi a dare un parola definitiva sulla fondatezza o meno della tradizione episcopale reggina.
Ora la sinagoga bovese sembra scomparire nel VI secolo. La distruzione del centro è stata da qualche studioso collegata con la guerra greco-gotica. La fedeltà degli Ebrei ai Goti, che portò alla totale distruzione della ricca comunità di Napoli ad opera delle truppe bizantine, potrebbe essere messa in relazione con l’abbandono improvviso della nostra sinagoga?
Comunque sia abbiamo uno iato notevole nella presenza ebraica nella nostra zona e in genere in tuta la Calabria. Le successive testimonianze di presenze ebraiche sono relative al X secolo. Quella più certa è relativa alla Calabria settentrionale, che fu certamente influenzata dalla ricca comunità ebraica pugliese. Infatti sappiamo bene come il colto medico ebreo Shabbatai ben Abraham Donnolo si trasferì in Calabria da Oria nel 940, dove venne in contatti non sempre amichevoli con San Nilo di Rossano (Bios). Piuttosto sporadica sono invece due testimonianze del cronista arabo Ibn al Athir e dello storico tedesco Thietmar, riguardanti un giudeo di nome Kalonimos, che combattè e morì per Ottone II nella battaglia di Stilo dell’anno 982. Ancora il Brebion di Reggio, databile all’XI secolo, ci informa della presenza di una Ebraikh, cioè probabilmente, secondo il Mosino, di una sinagoga, nel territorio, altrimenti ignoto, di Soumpesa[10].
Due secoli dopo le attestazioni della presenza di Ebrei in questa zona diventeranno finalmente numerose, come testimoniato da due documenti, entrambi del 1276 (Cedula subventionis in Justitiariatu Vallis Crati et Terre Jordane; Taxatio generalis subventionis in Justitiariatu Calabrie), relativi al gettito fiscale di 14 comunità ebraiche calabresi[11]. Si noti che tra queste troviamo citata anche la Iodeca de Bova. La distanza cronologica tra la nostra sinagoga e le testimonianze è eccessiva per mettere in relazione i due fatti, ma non possiamo escludere totalmente una lunga sopravvivenza, con alterne fortune, di una comunità di Ebrei. D’altro canto si noti come la comunità bovese è affiancata da un grande numero di altre giudecche presenti nella zona: Reggio, Pentedattilo, San Lorenzo, Motta San Giovanni, Bianco ecc. Di queste comunità oggi non resta traccia se non vagamente nella toponomastica (e, secondo il Dito, nel dialetto). Tra i termini ancora oggi usati in Calabria abbiamo quelli di Judeca, Sinagoga, Schola e Meschite. Nella toponomastica troviamo alcune località come Judeu e Judiu, mentre la vie reggine Giudecca e Aschenez segnalano la zona occupata anticamente dal ghetto di quella città, lungo le mura a sud della porta Mesa.
Tali comunità così numerose, diedero origine ad una fioritura culturale senza precedenti, legata particolarmente all’industria e al commercio, primo fra tutti quello della seta, il cui allevamento e lavorazione furono importate proprio dagli Ebrei in queste terre. Si sarà sempre trattato di comunità ben distinte tra i Gentili, secondo la tradizione di gran parte della Diaspora ebraica, ma anche ben integrate nella vita economica dei vari centri, fino a divenirne, in alcuni casi, veri punti di forza.
La grande importanza culturale del centro ebraico reggino porterà all’edizione del primo libro ebraico a stampa. Si tratta del Commento alla Torah dell’erudito Rashi di Troyes, edito a Reggio Calabria nell’anno 1475 da Abraham ben Itzchaq ben Garton.

[1] Il ritrovamento è avvenuto in una necropoli tardo-romana, con frequenze di IV-VI sec. Nella stessa zona ci sono anche resti di presenze cristiane
[2] Costabile 1988, p. 261 e passim pone l'accento sul fatto che la comunità ebraica era, almeno da questa attestazione, ellenofona, mentre quella cristiana propenderebbe per la latinizzazione
[3] CIJ Prol 635b
[4] Atanasio d’alessandria Apol. Contra Arianos PG 25, col. 725A
[5] Costabile 1988, p. 261
[6] Kaufmann 1896
[7] Dito 1916, p. 7
[8] Ruderman 1990, p. 22
[9] Toaff 1972, col. 33
[10] Ed. Guillou, p. 18, rigo 257
[11] "Cedula subventionis in Justitiariatu Vallis Crati et Terre Jordane" e "Taxatio generalis subventionis in Justitiaratu Calabriae" citati da Dito 1916, pp. 5-6

martedì 8 maggio 2007

Dopo 500 anni, matrimonio ebraico in Calabria

IL RITO E' STATO CELEBRATO IN CASTELLO NORMANNO DI LAMEZIA TERME
Lamezia Terme (CZ) , 9 Maggio 2007

Per la prima volta dopo cinquecento anni nel castello normanno di Lamezia Terme e' stato celebrato un matrimonio ebraico, che ha unito una coppia di americani, Lupe Torres Ugent e Andrew Alan Ewart.
A celebrare il rito e' stata la prima donna rabbino italiana, Barbara Aiello, esponente di punta dell'ebraismo progressivo, tendenza nata negli ambienti liberal ebraici statunitensi; la donna e' rientrata in Calabria nella primavera scorsa, dopo aver guidato la comunita' ebraica progressiva di Milano.
La cerimonia ha avuto inizio con un piccolo corteo dietro i quattro portatori della Chuppa', il baldacchino sotto il quale si celebra il rito del matrimonio e che rappresenta la camera nuziale e l'amore di Dio.
Rabbi Barbara ha aperto la cerimonia con la benedizione di una coppa di vino, creando uno spazio sacro sotto la Chuppa', dove e' avvenuta la lettura di un brano della bibbia che il nonno di Andy gli regalo' in occasione del suo dodicesimo compleanno.
Tra i due sposi la promessa d'amore e quindi lo scambio degli anelli, che, secondo Rabbi Barbara, hanno una importanza grandissima perche' sono ''il simbolo dell'amore infinito, perche' tenendovi per mano gli anelli fanno il simbolo dell'infinito o il numero otto''.
Il rabbino ha offerto sette benedizioni mentre, prima la sposa e poi lo sposo, hanno fatto sette giri l'una intorno all'altro e viceversa.
Tra le persone che hanno assistito alla cerimonia c'era tanta emozione e c'e' anche chi ha versato qualche lacrima di felicita'.
Ma la cerimonia non e' ancora conclusa perche' la sposa e lo sposo dividono il bicchiere di vino (che per l'occasione e' un Ciro' di Calabria) nella coppa Kiddush.
E intanto Rabbi Barbara ha recitato una antica formula: ''Vivano a lungo nella prosperita' e nella pace e, con tutti gli amici che li circondano, giungano la felicita' del tuo regno per il nostro Signore Amen''.
Infine il bicchiere nel quale c'era il vino, avvolto in un panno, e' stato schiacciato.
Anche questa particolarita' e' una delle tradizioni del matrimonio ebraico secondo cui ogni sorso del bicchiere e' una benedizione e allunga la vita degli sposi.
E finalmente, probabilmente tanto atteso dagli sposi e dai loro familiari, si e' vista la coppia di sposi baciarsi mentre il loro capo era coperto da un drappo giunto dal Sudan.
La scelta del luogo non e' stata casuale: secondo ricerche storiche, sembra che ai piedi del Castello Normanno di Nicastro, a Lamezia Terme, vivesse una comunita' di rifugiati ebrei provenienti dalla Spagna delle persecuzioni di Ferdinando e Isabella di Castiglia.
Al termine della cerimonia Rabbi Barbara si e' intrattenuta con i due sposi conversando e illustrando il significato religioso del matrimonio.
Alla coppia è stato consegnato anche l'antico certificato Ketubah che, secondo Rabbi Barbara, è un documento importante perché ha anticipato, nella storia dei matrimoni, ogni documento civile relativo all'unione di due persone.
(ANSA)

Bisogna specificare che la rabbina appartiene alla comunità ebraica riformata, che NON è riconosciuta dall'ebraismo maggioritario italiano, che non ammette il rabbinato femminile.