Calabria judaica - Sud ebraico

Calabria judaica ~ Sud ebraico
Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria
con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione

Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé.
La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu.
Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta.
Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne).
Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; a
ttraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.

IN PRIMO PIANO: eventi e appuntamenti

27 gennaio 2019: Giorno della memoria

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lunedì 27 aprile 2020

Yom haZikkaron 5780 - Giorno del ricordo 2020

Il 3 Iyar (che quest’anno inizia la sera del 27 aprile), vigilia di Yom haAtzmaut (Giorno dell’indipendenza), 6 giorni dopo Yom ha Shoah (memoria dell’insurrezione del ghetto di Varsavia e delle vittime dello sterminio nazista), ricorre Yom haZikkaron, Giorno del ricordo, in memoria dei soldati morti per la difesa dello Stato di Israele, a cui in seguito è stato aggiunto il ricordo delle vittime del terrorismo.
Israele ricorda i suoi caduti, soldati e vittime del terrorismo
Yom haZikkaron - 8 maggio 2019



Noemi Di Segni, Presidente UCEI

Immagine dal sito della Comunità ebraica di Bologna https://www.comunitaebraicabologna.it/it/festivita/altre-festivita/yom-haatzmaut/2148-yom-hazikaron-27-aprile-2020

Nelle prossime ore celebreremo Yom HaZikaron, il Giorno del Ricordo. Il 4 di Iyar è la data scelta dallo Stato di Israele per commemorare i militari caduti per difendere la libertà del popolo ebraico e l’indipendenza dello Stato di Israele e le vittime civili degli attacchi del terrorismo. È un momento solenne e profondamente identitario a cui gli ebrei italiani partecipano con commozione, ricordando ciascuno dei 23.741 soldati caduti, 3.150 civili, stringendosi alle loro famiglie. Ma Yom HaZikaron è anche un momento di riflessione e consapevolezza: ci ricorda che libertà e democrazia hanno un prezzo, che abbiamo l’obbligo di non darle per scontante, che dobbiamo difenderle strenuamente. È un monito e un impegno che vale per Israele come per le altre nazioni libere.
In tempi in cui l’amore per il proprio paese viene confuso con la negazione dell’altro, con la compressione dei diritti di alcuni a favore di altri, vale la pena ricordare le parole della dichiarazione d’Indipendenza d’Israele del 1948, un evento che ci apprestiamo a festeggiare: “Lo Stato d’Israele sarà aperto per l’immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto dai profeti d’Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”.

El maleh rachamim (Dio pieno di misericordia)
  


La forza di Yom HaZikaron da Israel HaYom https://www.italiaisraeletoday.it/la-forza-di-yom-hazikaron/ , 7 dicembre 2019

di Aharon Karov
Undici anni fa restai gravemente ferito durante la guerra anti-Hamas a Gaza del gennaio 2009. Gli anni sono passati e mi sono sottoposto a un lungo processo di riabilitazione durante il quale cui ho dovuto imparare di nuovo a camminare, a parlare, a mangiare. Sono diventato padre, ho finito gli studi universitari e ho lavorato con i giovani a rischio per alcuni anni.
ono passati undici anni, ma il processo non è finito. Sono ancora impegnato in un lungo ed estenuante processo di riabilitazione mediante il quale sto imparando a gestire nel quotidiano le conseguenze delle lesioni che ho riportato. Per me, è ancora difficile esprimermi verbalmente e per iscritto e soffro di dolori, crisi epilettiche e altre difficoltà a causa di quel trauma.
In Israele vi sono decine di migliaia di veterani feriti che, come me, fanno i conti ogni giorno della loro vita con gli effetti delle ferite. Nei decenni da che esiste, questa nazione ha subito attacchi militari, attentati terroristici e guerre in cui ha perso molti soldati che vengono commemorati ogni anno a Yom HaZikaron, la Giornata della Rimembranza. Accanto a loro, vi sono decine di migliaia di feriti che convivono con il proprio dolore per anni.
Molte volte sentiamo la notizia di attacchi o attentati che hanno causato “solo” feriti e nessun morto, e istintivamente tiriamo un sospiro di sollievo. Ma io, quando sento che ci sono feriti, so perfettamente cosa dovranno subire quelle persone, ed è straziante. Molte hanno lesioni visibili, come arti mutilati o perdita della vista.

Kaddish, preghiera per i defunti, recitato dalla sua famiglia
nel luogo dell'uccisone di una vittima del terrorismo palestinese


Ma esistono anche danni non visibili, come il trauma cranico e lo stress post-traumatico. Coloro che soffrono di queste ferite sembrano a posto, e invece possono trovare impossibile dormire la notte, o pensare in modo ordinato e prendere decisioni, o devono fare i conti con altri tipi di difficoltà invalidanti che non tutti realizzano che li accompagneranno per sempre.
Cinque anni fa Israele ha stabilito una giornata dell’anno in cui rendere omaggio ai veterani feriti e invalidi. L’idea di stabilire questa giornata speciale è stata proposta da brave persone che volevano esprimere riconoscenza e gratitudine a tutti quelli fra loro che hanno donato la propria salute fisica e mentale per difendere il paese e i suoi abitanti.
Noi, i feriti, abbiamo bisogno di questa giornata perché l’abbraccio del popolo d’Israele ci dà la forza di rimanere in vita, di lavorare, di mettere su famiglia e di fare del bene nel mondo.
Per me questa giornata è molto significativa. Mi dà forza e mi sostiene nel mio lavoro quotidiano, contribuendo a infondere nei giovani gli ideali del nostro servizio militare. Come veterano ferito delle Forze di Difesa israeliane, ritengo che il giorno che ci onora sia molto importante. Mi auguro che lo stato, e in particolare il Ministero della difesa, facciano tutto il possibile per i feriti, soprattutto quando si tratta di curare le disabilità critiche che rimangono con noi per anni.

venerdì 24 aprile 2020

Donne partigiane calabresi - Qualche traccia

Dopo aver parlato della quasi sconosciuta vicenda dei partigiani calabresi, voglio oggi parlare della vicenda del tutto ignota delle donne partigiane calabresi.

Inizialmente avevo trovato quelle che mi erano sembrate molte notizie, poi... leggendole e confrontandole, ho visto che erano tutte semplici riproposizioni e variazioni di un unico articolo del meritevole Claudio Cavaliere, che qui di seguito ripropongo.
Sarebbe bello che associazioni calabresi come la Virginia Olper Monis o l'Associazione Toponomastica femminile, prendessero a cuore questa realtà, promuovendo iniziative e ricerche sul tema.
Alla fine aggiungo il ricordo di Teresa Gullace Talotta, di Cittanova (RC) dalla cui figura, nel film "Roma città aperta" , Roberto Rossellini fu ispirato per il personaggio di Pina, interpretato in modo splendido e indimenticabile da Anna Magnani... ma che sicuramente aveva un aCCCenTTO molto diverso!


Una “Resistenza taciuta” di migliaia di calabresi con figure di assoluto rilievo. E una Resistenza delle donne avvolta nel silenzio…
Claudio Cavaliere -
Da Calabria on web 

Come sempre, quando si parla di Calabria, c’è un’altra storia. Una storia a volte importante che però nel silenzio, nella discrezione, nel non detto, nell’ignoranza rischia di smontarsi da sola, morendo per mancanza d’aria o di alimentazione.
Per fortuna, a distanza di decenni, lentamente e grazie a numerosi storici, studiosi, istituti di ricerca, scrittori, prende sempre più piede una immagine un po’ diversa rispetto a quella stereotipata di questo pezzo di terra e dei suoi abitanti. Emblematica può essere la narrazione della Resistenza da sempre considerata esclusiva prerogativa delle popolazioni del Nord con i meridionali spettatori passivi di una vicenda fondativa della nostra democrazia. C’è invece - utilizzando il titolo di un libro a cura di Maria Bruzzone e Rachele Farina - una “Resistenza taciuta” che coinvolge migliaia di calabresi che solo da poco, grazie al lavoro meticoloso di catalogazione avviato in alcune regioni con le banche dati dei partigiani, sta emergendo in tutta la sua portata. Solo tra Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna furono migliaia i nativi calabresi attivi nella lotta partigiana con figure di assoluto rilievo meritevoli di medaglie al valor militare per forme di resistenza al nazi-fascismo (sette d’oro, sei d’argento e quattro di bronzo). Ancora meno nota è poi la reale portata dell’impegno femminile calabrese nella Resistenza che, al di là della facile retorica, sconta il pregiudizio che avvolse tutte le resistenti subito dopo la fine della guerra, in una Italia desiderosa di tornare al perbenismo ante guerra che aspirava a riportare le donne al loro ruolo tradizionale.
Così alle partigiane torinesi della brigata Garibaldi venne proibito dal Pci di sfilare dopo la liberazione, perché il partito voleva accreditarsi come forza rispettabile, mentre in molte altre città furono i capi brigata a consigliare alle donne di non sfilare o almeno di farlo senza armi o vestite da crocerossine o in borghese.
Alla sfilata non ho partecipato, ero fuori ad applaudire. Ho visto passare il mio comandante. Poi ho visto Mauri col suo distaccamento con le donne che avevano, insieme. Loro si che c’erano! Mamma mia! Per fortuna che non sono andata anche io. La gente diceva che eran delle puttane…(Intervista ad una partigiana nel film-documentario di Liliana Cavani “La donna nella Resistenza”).
Anche per questo non sapremo mai il numero esatto delle donne resistenti. Al termine della guerra bisognava richiedere la qualifica ai sensi del D.L. 21 agosto 1945 n. 518 per avere diritto al premio di solidarietà. Per essere riconosciute “partigiani combattenti” occorreva aver svolto almeno tre mesi in armi, aver partecipato a tre azioni di guerra o sabotaggio o avere fatto almeno tre mesi di carcere. Per quello di “patriota” si  richiedeva un impegno sostanziale e continuato, sotto forma di cessioni di denari, viveri, armi, munizioni, materiali sanitari, ospitalità clandestina, o aver fornito importanti informazioni ai fini di buon esito della lotta di liberazione. Nel solo Piemonte fu introdotta anche la qualifica di “benemerito”.
Moltissime, visto il rinnovato clima che spingeva verso un ritorno al privato delle donne, non richiesero mai la qualifica. Per molte altre, che avevano partecipato ad una resistenza civile senza armi, fatta di accoglienza, di cura, di preparazione e partecipazione agli scioperi, di boicottaggio delle fabbriche, non fu  possibile richiedere alcunché.
Le donne avevano combattuto non solo per la libertà, ma anche per affermare una Italia diversa per i loro diritti civili e sociali che solo molto lentamente furono ad esse concesse nonostante la nuova Costituzione.
Rimangono comunque i numeri ufficiali che parlano di 4.653 donne arrestate, torturate, condannate; 2.750 deportate nei campi di concentramento tedeschi e 623 fucilate o morte in combattimento. Ad esse furono conferite sedici medaglie d’oro al valor militare e diciassette d’argento.
Una grande onda di riflusso avvolse le donne nel dopoguerra. Le loro storie, il loro protagonismo, che sembra oggi scontato, fu nuovamente avvolto dal silenzio in una società che le spingeva a tornare nel familiare perché i luoghi di lavoro e di decisione venivano rioccupati dagli uomini.
Il discorso sulla Resistenza tutto declinato al maschile, sulla dimensione delle armi e del combattimento ha tagliato fuori per decenni la possibilità di una ricostruzione precisa della presenza femminile nella lotta di liberazione ed oggi che quasi tutte quelle persone non sono più in vita rimane difficile, sulla base della sola documentazione ufficiale, ricostruire il quadro reale della situazione a partire dai nomi e dalle storie.
I nomi di battaglia di alcune donne calabresi partigiane erano Cecilia, Cunegonda, Angiolina, Prima, Beba, Reginella, Nina, Lia Ferrero, Maia, Mina … Erano casalinghe, operaie, professoresse, contadine, alcune nemmeno maggiorenni quando scelsero di opporsi al nazi-fascismo. Oggi, di molte di loro, tranne il nome, non conosciamo praticamente nulla, non una foto in quel mondo smisurato che si chiama internet. Anche nei loro paesi di origine il ricordo sembra definitivamente perso. 
Alcune storie magnifiche sono venute alla luce grazie anche all'Istituto Calabrese per la Storia dell'Antifascismo e dell'Italia Contemporanea (ICSAIC) e all’ANPI che cercano meritoriamente di stimolare la ricerca, lo studio, di tenere accesa l’attenzione su una vicenda che man mano riserva sempre nuove sorprese.
Giuseppina Russo (nella foto, tratta dal Corriere della Calabria) di Roccaforte del Greco, una delle Api furibonde dell’omonimo libro che da organizzatrice degli scioperi nelle fabbriche finisce come partigiana combattente, dalla resistenza civile a quella armata.
Anna Cinanni, di Gerace, sorella di Paolo, che subì ripetute sevizie in carcere, una delle dodici biografie di partigiane contenute nel libro “La Resistenza taciuta” e nell’altro volume di Lentini-Guerrisi “I partigiani calabresi nell’Appennino ligure-piemontese”, anche lei protagonista di quel raffinato gioco delle apparenze alla base di episodi infinite volte narrati di donne che superano i posti di blocco con le loro sporte piene di volantini o munizioni - piene di politica e di guerra - esibendo i simboli della routine domestica o della femminilità inoffensiva.
Caterina Tallarico di Marcedusa, sorella del più noto comandante partigiano “Frico” che appena laureata in medicina sale in montagna e comincia a ricoprire il ruolo di medico nella brigata del fratello Federico esercitando non solo verso i partigiani feriti e bisognosi di cure, ma anche nei confronti di tedeschi e fascisti prigionieri. Per fortuna un suo libro autobiografico, “Una donna… un medico… una vita”, ci permette di avere tutte le informazioni di prima mano su di lei.
Anna Condò di Reggio Calabria, testimone della strage della Benedicta in cui fu ucciso il fratello.
E poi tante altre donne di cui conosciamo meno: Lucia Cosco (Catanzaro); Alba Lucio (Crotone); Assunta Lucio (Crotone); Maria Di Tocco (Vibo Valentia); Antonietta Oneglia (Catanzaro); Maria Carpino (Colosimi), Giacomina Fadel (Cosenza); Domenica Arcidiaco (San Lorenzo); Margherita Bazzani Gazagne (Sant'Ilario dello Ionio); Anna, Giulia e Tina Pontoriero (Rosarno); Maria Torello (Reggio Calabria); Maria Panuccio (Sant’Eufemia d’Aspromonte); Concetta Gangemi (Palmi); Pata Franceschina e Angela Pata (Mileto); Bice Di Tocco (Reggio Calabria); Isolina Ranieri (San Giorgio Morgeto); Carinda Forte (Saracena); Carmelina Montanari (Siderno); Maria Iaconetti (Carolei); Maria Barone (Vibo Valentia); Vuorinna Giovanna (Rossano Calabro)…

Il 25 aprile celebriamo ogni donna che si ribella!

Il tempo, il tempo, insomma, porta via… porta via la memoria, porta via le immagini, porta via un po’ tutto… ma come si fa a dimenticare? Non puoi dimenticare. Non puoi dimenticare perché noi abbiamo passato anni… anni atroci (Giacomina Ercoli, partigiana).

Antonio Orlando - 5 Settembre, 2019 © ICSAIC
Istituto calabrese per la storia dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea
Immagini dal sito dell'ANPI provinciale di Roma

Teresa Talotta Gullace
Cittanova (RC), 8 settembre 1906 - Roma, 3 marzo 1944
Proviene da una umile famiglia di contadini e braccianti; figlia di Vincenzo e Caterina Condello; nonostante la famiglia sia molto numerosa e c’è bisogno di aiuto, i genitori le permettono di frequentare la scuola tanto che riesce a completare l’intero ciclo delle elementari. A 17 anni sposa Girolamo Gullace, un muratore cittanovese, emigrato a Roma alla fine della Grande Guerra per fare il manovale in uno dei tanti cantieri della capitale. Dopo il matrimonio tentano di sistemarsi a Cittanova ma il lavoro scarseggia e così Girolamo si vede costretto a ritornare a Roma.
Si adattarono a vivere in uno dei quartieri più poveri, nella zona tra la stazione San Pietro e Via delle Fornaci, chiamata «la Valle dell’inferno» perché ospitava le baracche più fatiscenti in un’area, che pur essendo vicinissima al Vaticano, era fortemente degradata. La famiglia Gullace abitava in Vicolo del Vicario, proprio nella zona delle fornaci di mattoni, ed era formata da cinque figli, il più grande – Emilio – già in età per fare il soldato, gli altri tre maschietti erano in età scolare mentre la più piccola, Caterina, andava all’asilo dalle monache. Dopo il 1940, con l’arrivo dei tedeschi Girolamo aveva trovato lavoro in un cantiere edile di un’impresa tedesca e malgrado le vicissitudini accadute dopo l’8 settembre del 1943, questo fatto lo faceva sentire al riparo da persecuzioni ed arresti più della dichiarazione internazionale che aveva proclamato Roma, «città aperta».
Nei primi mesi del 1944 le truppe tedesche di occupazione, appoggiate dai fascisti, effettuano in continuazione massicci rastrellamenti tra la popolazione civile. L’obiettivo primario è quello di individuare, grazie a retate indiscriminate, i partigiani o gli sbandati o i disertori; in secondo luogo si tratta di reclutare forzatamente manodopera utile per lavori di supporto.  Girolamo Gullace viene catturato nella mattinata del 26 febbraio 1944 a seguito di un controllo da parte dei Carabinieri, nella zona di Porta Cavalleggeri e viene rinchiuso nella caserma dell’81° Fanteria in Viale Giulio Cesare.


Appresa la notizia dell’arresto del marito, Teresa, anche se in attesa del sesto figlio, si reca subito davanti alla caserma e tenta di parlare con Girolamo, di passargli qualche tozzo di pane e qualche indumento e di confortarlo. Per cinque mattine di seguito si reca in Viale Giulio Cesare, lì, davanti alla caserma, stazionano poche donne e, in qualche modo, complice qualche milite pietoso, riesce a comunicare con il marito. La mattina del 3 marzo, invece, vi è un assembramento mai visto perché nei due giorni precedenti sono stati rastrellati centinaia di uomini e ora i loro familiari pretendono di avere notizie e tumultuano e gridano contro i tedeschi. Da parte loro, i prigionieri, attaccati alle inferriate delle finestre, incitano i manifestanti invitandoli a venire in avanti. Lungo il marciapiede è stato disposto un cordone di soldati a protezione della caserma e questi, con i fucili spianati, impediscono alle donne di avanzare. Teresa, che ha portato con sé il figlioletto Umberto, capisce che il marito ha qualcosa da dirle, si spinge fin che può in avanti e il ragazzo riesce a capire che il padre vuole che vada al cantiere dove lavora per farsi rilasciare dai suoi datori di lavoro un attestato. Il ragazzo si allontana e Teresa viene risucchiata indietro dalla folla; senza scoraggiarsi, a forza di gomitate e spintoni, riesce nuovamente a guadagnare la prima fila, quella che fronteggia direttamente i tedeschi. Da questo momento in poi le versioni sull’accaduto sono contrastanti. Secondo una prima versione, si sarebbe spinta tanto in avanti, sostenuta anche dalla folla che gridava il suo nome, al punto da riuscire a raggiungere la finestra dove si trovava il marito e a lanciargli un involto. Nel ritornare indietro, un soldato tedesco la uccide con un colpo di fucile. Secondo un’altra versione, Teresa avrebbe tentato di superare lo schieramento dei soldati ma uno di questi le avrebbe sbarrato la strada e dopo un alterco abbastanza violento, nel corso del quale lei avrebbe sputato addosso al tedesco, questi, spianando un mitra, fa partire una raffica che colpisce la donna al ventre. Un terza versione sostiene che a ucciderla sia stato un SS, che a bordo di una moto, andava avanti e indietro lungo il viale, agitando un fucile e una pistola Luger e che sia stato proprio questo soldato a bordo della motocicletta a sbarrarle la strada, bloccandola al centro della carreggiata e, a quel punto, il soldato abbia sparato senza pensarci due volte. La versione più accreditata, parla di un sottoufficiale tedesco, un maresciallo delle SS, che all’improvviso esce dalla caserma, pistola in pugno, si avvicina a Teresa e, senza dire una parola, le spara un colpo dall’alto in basso, all’altezza della gola.
Anche le fasi successive all’assassinio risultano confuse. Un gruppo di donne circonda il corpo di Teresa e impedisce a chiunque di avvicinarsi e quando finalmente i soldati riescono a disperdere i dimostranti, scoprono che il corpo della donna è totalmente ricoperto di fiori. Altra versione sostiene che un gruppetto di partigiane, Laura Lombardo Radice, Carla Capponi, Marisa Musu, Adele Maria Jemolo e Marcella Lapiccirella, non appena vedono cadere la donna, pistola in pugno, tentano di aggredire il maresciallo tedesco che sta cercando di rientrare nella caserma. La folla, intuito quanto è successo, avanza contro i soldati chiedendo la liberazione dei prigionieri. Carla Capponi viene arrestata e riesce a liberarsi rocambolescamente della pistola, mentre la Musu le infila nella tasca del cappotto la tessera degli Universitari fascisti. L’arrivo di un’ambulanza della Croce Rossa sblocca la situazione, anche perché il comandante tedesco ordina l’immediata liberazione di Girolamo, che così può accompagnare la moglie all’obitorio. La Croce Rossa e il parroco assisteranno la famiglia in quel tragico frangente fornendo un primo soccorso materiale oltre che conforto nel dolore.
Nel pomeriggio un gruppo di Gappisti, comandato da Mario Fiorentini, nel nome di Teresa Gullace, assalta la caserma di Viale Giulio Cesare e nello scontro a fuoco che segue, vengono uccisi due fascisti (qualcuno dice tre) e una donna che stava uscendo dalla vicina chiesa di San Gioacchino. In quello stesso pomeriggio, viene diffuso un volantino clandestino, scritto probabilmente da Laura Lombardo-Radice e stampato da Pietro Ingrao, in cui si denuncia l’uccisione a freddo di una madre di cinque figli e in attesa di un sesto. Teresa Gullace diventa il simbolo della Resistenza delle donne romane.
Il 7 ottobre 1945, l’Unione Donne Italiane, a nome delle donne della Resistenza romana, appone sulla caserma di Viale Giulio Cesare, una lapide che ricorda il sacrificio della donna «simbolo dell’eroica resistenza romana».La protagonista del film di Roberto Rossellini «Roma città aperta», la «Sora Pina» - Anna Magnani - viene unanimemente identificata con Teresa Gullace.
Il 2 giugno 1976, nel 30° anniversario della Repubblica, la Presidenza della Regione Lazio conferisce a Teresa Gullace la medaglia d’oro della Resistenza, quale riconoscimento del suo sacrificio di madre e di moglie. Con Decreto del 31 marzo 1977, il Presidente della Repubblica le conferisce la medaglia d’oro al valor civile con la seguente motivazione: «Madre di cinque figlie ed alle soglie di una nuova maternità, non esitava ad accorrere presso il marito, imprigionato dai Nazisti, nel nobile intento di portargli conforto e speranza. Mentre invocava con coraggiosa fermezza la liberazione del coniuge, veniva barbaramente uccisa da un soldato tedesco». Il 25 aprile 1978 il Sindaco di Roma le conferisce la medaglia d’oro al valor civile.Il 24 aprile 1980 il Consiglio Comunale di Cittanova le conferisce la medaglia d’oro per merito civile e delibera, altresì, di intitolare a lei la via in cui è nata e di apporre una lapide sulla sua casa natale.
A Roma, nel 1989, il Liceo Scientifico che sorge nella zona di Cinecittà, è stato intitolato a Teresa Gullace e nell’atrio dell’istituto è stato collocato il busto scolpito da Ugo Attardi a lei dedicato.
Nel 1995, nel cinquantenario della fine della seconda guerra mondiale, Poste Italiane sceglie Teresa Gullace per rappresentare, nella quartina commemorativa, «le donne nella seconda guerra mondiale».
Teresa Talotta Gullace è l’unica donna a essere sepolta tra i caduti della Resistenza.

Nota bibliografica
- Giorgio Amendola,
Lettere a Milano, Editori Riuniti, Roma 1976;
- Laura Lombardo-Radice,
Soltanto una vita, Baldini-Castoldi-Dalai, Roma 2005;
- Stefano Roncoroni,
La storia di Roma citta aperta, Edizioni Le Mani, Bologna 2006;
- Antonio Orlando, “
Anna e Teresa” - il reale e l’immaginario nella vicenda di Teresa Gullace, «Rivista Calabrese di Storia del ’900», 1, 2014.

giovedì 23 aprile 2020

Fake news ebraiche calabresi: attenzione!

Riprendo il tema dei falsi indizi di ebraicità presenti in Calabria, dopo il post dedicato a Badolato.
Una fonte ricchissima di esempi è un gruppo Facebook (non lo cito per decenza e per evitare inutili pubblicità) che fa capo agli stessi ambienti che attribuiscono al 40% dei calabresi un'origine ebraica e che vedono in ogni cognome (o quasi, ma non dispero: di recente ho letto, da altri, che anche il cognome più diffuso in Italia, Rossi, sarebbe di origine ebraica!).

Questa foto (tratta dal sito AgeFotoStock) viene riferita a famiglia di poveri ebrei di Messina rifugiati a Palmi a seguito del Terremoto del 1908. Capisco che possa trarre la didascalia della foto, che dice “A Jewish family camping inside a railway wagon at Palmi (Calabria), Italy - made homeless by the earthquake at Messina, Sicily”, ma non si può accettare acriticamente qualsiasi cosa si legga, solo perché piace o perché fa comodo. Probabilmente si tratta di un errore di traduzione dall'italiano, o da un errore di stampa dell'inglese, magari c'era scritto qualcosa come “refujews” invece che “refugees”. Fatto sta che è sicuro che nel 1908 a Messina non c'erano famiglie ebree, né di queste si ha notizia a Palmi. Riconosco che anche io i primi tempi delle mie ricerche sull'ebraismo in Calabria ho peccato di eccessivo entusiasmo, ma io ero io, da solo, e la cosa poteva essere accettabile. Se sei un'organizzazione, e ti vuoi accreditare come seria, l'approfondimento di quello che pubblichi sarebbe doverosa.

Segue poi la foto del cartello stradale indicante una frazione di 66 abitanti, definita città: Accaria.
Di questo nome viene detto che deriva da quello del profeta biblico Zaccaria!
Sarebbe interessante sapere sulla base di quali fonti e di quali fenomeni fonetici o linguistici sia dovuto il passaggio da Zaccaria ad Accaria.
(L'immagine a lato è ricavata dallo Street View di Google Maps)

L'immagine che segue non riguarda la Calabria, ma rnde perfettamente l'idea degli equivoci che può generare la superficialità e la non conoscenza di una lingua. Si tratta della riproduzione del quadro del 1866 del pittore danese Carl Heinrich Bloch, dal titolo “Osteria romana” (qui presa dal sito Gusto.it). Nel gruppo di cui parliamo, la didascalia che accompagna il quadro è “Italian Jews. Ebrei italiani”.
Alla mia messa in dubbio, mi venne risposto che il quadro si intitola “Orientali romani” e che i romani
orientali all'epoca erano solo gli ebrei! Dovetti faticosamente spiegare che “osteria” (forse erano ingannati dall'inglese “eastern”, dal danese “østlige” o dal tedesco “östlich”) in italiano non significava “orientale”, ma indica una sorta di ristorante, una taverna, “tavern” in inglese. Alla fine mi fu risposto che forse sì, avevo ragione. Ma la didascalia non è stata cambiata.

Abbiamo poi la foto di un gioiello, che viene fatto passare per un “Monile con stella di David”, trovato in Calabria (immagine dal sito Lamezia storica. Si tratta in realtà della riproduzione di un cosiddetto “acchiappasogni” (“dreamcatcher” in inglese), come potete vedere da quest'altra riproduzione presa dal sito commerciale AliBaba  . Questo di AliBaba è una riproduzione molto più povera e modesta, da appendere allo specchietto retrovisore della macchina, “small dreamcatcher for car mirror”, ma non ci sono molti dubbi che si tratti dello stesso tipo di “monile”, appartenente alla tradizione culturale dei nativi americani. Come sia finito in Calabria un oggetto simile non è facile da capire, tanto più che non ne conosciamo l'epoca, ma non è neanche troppo difficile formulare qualche ipotesi.

Riportato come souvenir da un viaggio in America? Comprato in qualche negozio italiano?
Negli anni '70 a Roma si trovava molto facilmente, sia come ornamento che quasi come amuleto portafortuna, semisuperstizionistico protettore del sonno e freno agli incubi ed ai sogni cattivi.
Poi vabbeh, si può sostenere che i nativi americani in realtà siano ebrei, discendenti dalle 10 tribù disperse, come in realtà è stato già fatto, ma siamo al limite tra fantastoria e fantabiblistica.


Abbiamo infine la foto di due pagine di una Bibbia. Riguarda solo realtivamente gli ebrei di Calabria, in quanto la seconda parte della didascalia dice "This is what the Jews of southern Italy would have known well" (Questa è qualcosa che gli  italiani dell'Italia meridionale dovrebbero aver  ben conosciuto).
La didascalia originale diceva “Torah written in Italian with Hebrew characters” (Torah scritta in italiano con caratteri ebraici). Consultata la fonte che mi era stata gentilmente fornita, il sito della BibliotecaBodleiana (Bodleian Library) dell'Università di Oxford, ho cercato di spiegare che “Italian semicursive script”, come avevano scritto loro, non significava “italiano in caratteri ebraici", ma era uno stile di scrittura; nonostante mi abbiano risposto di non capire quello che intendevo dire, qualche giorno dopo hanno cambiato la didascalia, che ora dice correttamente “Torah written in Italian semicursive script” (Torah scritta in stile semicorsivo italiano).
Ottima cosa che Facebook permetta la visione delle modifiche di post e commenti!

That's enough! Questo è quanto, per il momento.
La morale? Diffidate della faciloneria di informazioni che, per quanto accattivanti, sono in realtà estremamente superficiali e nascono, nella migliore delle ipotesi, da ignoranza in materia.

mercoledì 22 aprile 2020

Partigiani calabresi

Apparentemente questo post (e il successivo che ho in programma, dedicato alle donne calabresi della Resistenza) non c'entra molto con il tema del blog. In realtà la Resistenza vide ebrei e non ebrei uniti o nel combattimento o nella protezione che i partigiani cercavano di offrire anche agli ebrei.
Forse in pochi sanno (anche io l'ho scoperta solo ora) della vicenda partigiana del celebre Raf Vallone, a cui dedico un ricordo particolare, come un cenno faccio a quello che credo sia uno dei partigiani calabresi più anziani, Pasquale Brancatisano di Samo (RC), Malerba, era il suo nome di battaglia, che recentemente è stato conosciuto da molti per il video inviato al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e la telefonata con cui questi ha voluto ringraziarlo.
Onore a lui, a loro e a tutti gli antifascisti calabresi.

Bollissimo video dell'associazione Aspromonte LiberaMente
Interviste a partigiani calabresi



25 Aprile 2017: ricordare per difendere la nostra libertà
Mantenere viva la memoria antifascista partendo dal ricordo di chi il fascismo lo ha combattuto sacrificando la propria vita.
Partendo da questa considerazione abbiamo voluto ricordare alcuni delle decine e decine di partigiani calabresi partiti per combattere il fascismo e caduti, quasi tutti giovani, nella resistenza.Giuseppe Albano di Gerace, Serafino Aldo Barbaro di Catanzaro, Donato Bendicenti di Rogliano, Fortunato Caccamo di Gallina, Pietro Cappellano di Amato, Dante Castellucci di Sant’Agata di Esaro, Antonio Cerra di Nicastro, Vinicio Cortese di Nicastro, Francesco d’Agostino di Cassano Ionio, Franco Lavinj di Reggio Calabria, Giovanbattista Mancuso di Palmi, Carlo Muraca di Carlopoli, Domenico Pennestrì di Reggio Calabria, Domenico Antonio Petruzza di Nicastro, Emilio Sacerdote di Vibo Valentia, Bruno Tuscano di Palizzi Marina, sono i nomi dei partigiani che in queste settimane sono apparsi su manifesti affissi, in più turni, sui muri cittadini, proprio per ricordare il contributo che la nostra terra ha dato alla liberazione dal nazifascismo.
Se non ricordiamo non possiamo comprendere” scrisse E. M. Forster. Ricordare dunque, per capire cosa è successo e cosa ancora può accadere. Mantenere vivo il ricordo di cosa fu il nazifascismo e cosa ci costò, la guerra, la miseria, la fame, i morti, il dolore. Ricordare il prezzo della nostra libertà. Vigilare affinché questa duri, attivarsi per difenderla. E da questa consapevolezza ricostruire un percorso che impedisca ai nuovi fascismi di riperpetrare l’orrore.

Quando la resistenza parlava calabrese
Eroi partigiani calabresi: il Gobbo, Attila, Italo Rossi e tanti altri
Dal gruppo Facebook Calabria meravigliosa - 25 aprile 2011


La nostra regione non fu flagellata dagli scontri per la “Liberazione”, ma il suo contributo non venne a mancare.
Sebbene gli eventi più importanti si svolsero prevalentemente nelle regioni del Centro-Nord bisogna considerare il contributo di sangue dato da cittadini meridionali alla lotta di liberazione. Dagli studi storici che hanno analizzato le bande per composizione sociale, si evince che furono circa 4.000 i partigiani meridionali in Piemonte di cui 600 furono calabresi. Qualche altro migliaio furono in Liguria. La maggior parte di loro erano operai immigrati, altri furono ex militari sbandati dall’esercito dopo la firma dell’armistizio (8 settembre 1943).
Foto d'epoca di Federico Tallarico, il Comandante "Frico", uno degli intervistati nel video
Dal sito ISAICstoria

A Genova uno dei primi organizzatori dei nuclei di montagna e teorico della necessità della lotta armata al regime fascista fu il calabrese Antonio Rossi, nato a Cardeto; già nel 1942 fu arrestato con l’accusa di propaganda sovversiva.


Foto di Italo Rossi, partigiano col padre e due fratelli
Dal sito Temi di storia
Vi furono tante brigate comandate da calabresi, quella più nota a tutti fu quella in cui operarono i fratelli Francesco, Italo, Bruno e il padre Oreste Rossi.
Oreste Rossi cadde fucilato da un plotone d’esecuzione a Castagneto Po a Torino (medaglia d’argento al valore militare). Italo fu insignito della medaglia d’oro al valore militare alla memoria. In suo onore fu soprannominata una divisione della I brigata Matteotti, la “Italo Rossi” appunto.
Per quanto riguarda Parma si hanno notizia di Vincenzo Barreca, classe 1920, dopo l’8 settembre, rientrò dalla Francia e raggiunse Col di Ferro (Cuneo), fino ad approssimarsi a Tortona ed operare nalla Val Cisa. Lo stesso Barreca dichiarò che del plotone della 2a brigata Beretta (Divisione Val Cisa), della quale era vicecomandante, con il nome di battaglia di “Zambo”, facevano parte i partigiani calabresi Francesco Giugno, proveniente da Natile Nuovo (Platì, RC), nome di Battaglia “Attila”; Salvatore Rizzo di Campora di Amantea (CS), nome di battaglia “turiddu”, Rocco Marfì, nato a Laureana di Borrello, classe 1922 (Rc); Salvatore Carrozza, da Taurianova, classe 1911, morto a Monticelli Terme (Pr) il 18 aprile 1944, XII Brigata Garibaldi; Bruno Geniale, da Cosenza, classe 1923, XII Brigata Garibaldi, deportato e morto nel campo di Mauthausen 18 marzo 1944; Vincenzo Errico, detto “Vitto”, da Verbicaro (Cosenza), classe 1922, I Brigata Julia, caduto a Grifola (Borgotaro) l'8 luglio del 1944 durante un combattimento contro reparti tedeschi che tentavano di raggiungere Borgotaro provenienti dal versante ligure.
In Liguria operò invece un altro calabrese: Marco “Pietro” Perpiglia (1910- 1983). Oppositore del regime fascista e patriota, nacque nel 1910 a Roccaforte del Greco. Fu un fervido sostenitore del Partito comunista di cui fu un tesserato. Partì come volontario in Spagna, al seguito della XII Brigata internazionale “Garibaldi” per battersi contro il generale Franco. Subita la sconfitta, fu mandato in Francia dove fu internato in un campo di concentramento. Consegnato ai fascisti di Mussolini, fu trasferito nella prigione di La Spezia e, successivamente, mandato al confine nell’isola di Ventotene. Soltanto dopo la caduta della dittatura fascista riuscì a ricongiungersi con la moglie Giuseppina Russo a La Spezia. Nella città ligure ebbe un ruolo di primo piano nell’attività sindacale per la quale venne anche arrestato. Si unì poi ai partigiani in Liguria dove combatte fino al giorno della liberazione (25 aprile 1945). Ritornato a La Spezia, iniziò a militare attivamente nel Partito comunista della città. Diresse anche la sezione Sud-Arsenale del partito. Rientrò a Roccaforte del Greco nei primi anni ‘60. Qui mori nel 1983. A lui è intitolata una piazza del paese.

 

Raf Vallone, partigiano calabrese sfuggito alle SS. E non era un film

di Letterio Licordari
Testo e foto dal sito dal sito ISAICstoria
Se si ricorda Raf Vallone la mente va subito a quei capolavori in bianco e nero del cinema italiano neorealista del dopoguerra intitolati “Riso amaro”, “Il cammino della speranza”, “Non c’è pace tra gli ulivi” o “Camicie Rosse”. O a quelle magistrali interpretazioni teatrali dei drammi di Arthur Miller, soprattutto al capolavoro “Uno sguardo dal ponte”. O ancora alla stagione degli indimenticabili sceneggiati televisivi, da “Il Mulino del Po” a “Jane Eyre”. Ma a far uscire l’edizione straordinaria de “L’Unità” di Torino per dare la notizia prima di altri della definitiva liberazione dal nazifascismo, il 25 aprile del 1945, c’era lui, assieme a Davide Lajolo, che della testata era redattore capo. Vallone era uomo del sud, nativo di Tropea, figlio di emigranti ante guerra, che si era laureato prima in Filosofia e poi in Giurisprudenza, avendo come docenti, tra gli altri, Luigi Einaudi e Leone Ginzburg.
Dotato di grande poliedricità, non era tuttavia un secchione che viveva col capo chinato sui libri, anzi, era appassionato di calcio, e con la maglia del Torino, nel 1935, vinse finanche una “Coppa Italia”. Faceva il servizio militare a Tortona, e già manifestava la sua passione per la recitazione (tra i preferiti, i testi di Pirandello) intrattenendo con la sua filodrammatica i militari quel di Ovada, quando ci fu l’armistizio, nel ’43. Tra quei militari anche gli ufficiali Oscar Luigi Scalfaro e Giulio Palma, che rivedrà tanti anni dopo a Cosenza al Teatro Rendano (vedi foto). Poco dopo divenne partigiano.
Questa sua scelta venne fortemente influenzata dall’amicizia con Vincenzo Ciaffi, un illustre latinista (che curò le traduzioni di Arbitro Petronio, il Satyricon e altre opere) appassionato anche di filosofia e di teatro, ma soprattutto convinto antifascista già dal 1929, quando aveva aderito al movimento “Giustizia e Libertà” che faceva capo a Carlo Rosselli e che in seguito aveva dato vita ai primi nuclei italiani clandestini grazie a Ferruccio Parri, Ernesto Rossi, i citati “maestri” Leone Ginzburg e Giulio Einaudi, Vittorio Foa, Carlo Levi, Cesare Pavese, Riccardo Bauer e molti altri. Entrato in contatto con Antonio Bernieri, uomo di lettere anche lui, fondatore del Partito Socialista Rivoluzionario Italiano e da poco rimesso in libertà dopo essere stato oggetto di particolari attenzioni dall’OVRA, Vallone era stato incaricato di scambiare alcuni importanti messaggi con altri antifascisti.
A Bernieri, in occasione di uno di questi incontri, aveva consegnato un libro. Si trattava di “Nuova York” di John Roderigo DosPassos, uno scrittore statunitense, nel quale era annotata una frase in codice: “Abbiamo gli stessi interessi, credo che questo romanzo ti piacerà”. Vennero scoperti e catturati. Vallone venne convocato in questura, dove gli misero sotto gli occhi il libro con il messaggio, in seguito venne arrestato e tradotto a Como: qui, in una palestra divenuta un carcere, confesserà a un repubblichino di essere antifascista ma non fece il nome di nessun compagno. Spesso la componente aleatoria ha un peso importante nella vita delle persone, perché tra Vallone e il repubblichino si instaurò una sorta di complicità e di tolleranza, e quest’ultimo lo preavvertì della deportazione in Germania in un campo di concentramento e del fatto che il solo agente di scorta avrebbe avuto la pistola senza munizioni (a tal punto era ridotta la Repubblica Sociale di Salò). Ma, quasi come fosse uno di quei film che avrebbe interpretato dopo la fine di quella assurda guerra, durante le fasi del trasferimento riuscì a fuggire, gettandosi nelle acque gelide del lago e salvandosi dalle raffiche delle SS.
Riuscì a tornare a Torino, dove continuò, nelle file del Partito d’Azione, l’attività di propaganda contro il regime nazifascista e a dare una mano ai partigiani delle Langhe. È lì che conobbe Davide Lajolo, il cui nome di battaglia era “Ulisse”, giornalista e scrittore, ma anche un ex gerarca fascista che era arrivato anche a essere Segretario Federale del PNF di Ancona e che aveva convintamente sconfessato il suo passato dopo l’armistizio. Lajolo gli era stato presentato da un amico comune che aveva letto alcune sue critiche teatrali e lo aveva ascoltato leggere poesie di Montale dalla sede Rai allora nella Mole Antonelliana. Iniziò così la collaborazione tra Vallone e Lajolo, che curarono l’edizione torinese de “L’Unità”, della quale il futuro attore divenne il responsabile della pagina culturale. Una terza pagina che si avvaleva anche di firme di prestigio, da Italo Calvino a Ludovico Geymonat, da Massimo Mila a Cesare Pavese.  Togliatti andava spesso alle riunioni di redazione. Vallone era l’unico a non essere iscritto al Partito, non gli era piaciuta la lettura della storia del Partito bolscevico, nella quale Trotzky non appariva affatto, per lui la politica era, anzitutto, rigore morale e intellettuale. Non prese mai la tessera, quella menzogna proprio non l’aveva digerita. Ma quando a Togliatti fece presente di non essere tesserato, il leader comunista rispose sorridendo:  “Però fai una bella terza pagina!” E su quella terza pagina, che curava alternandola alla recitazione di Garcia Lorca e Buchner presso il Teatro Gobetti, tra riproposizioni dei classici latini e scritti di autori della sinistra, non solo italiana, un giorno il regista Giuseppe De Santis, uno dei maestri del neorealismo italiano, lesse una sua inchiesta sulle mondine del vercellese. Da questi, Vallone ricevette una telefonata, e iniziò così a pieno titolo, dopo due timide apparizioni in lavori di Goffredo Alessandrini nel ’42, la carriera di attore di successo, con “Riso amaro”. Era il 1949, la guerra era già un ricordo lontano, anch’esso amaro.

Dal Corriere della Calabria:
il partigiano Malerba e il Presidente Mattarella