Dopo
aver parlato della quasi sconosciuta vicenda dei partigiani
calabresi, voglio oggi parlare della vicenda del tutto ignota delle donne partigiane calabresi.
Inizialmente
avevo trovato quelle che mi erano sembrate molte notizie, poi...
leggendole e confrontandole, ho visto che erano tutte semplici
riproposizioni e variazioni di un unico articolo del
meritevole Claudio Cavaliere, che qui di seguito ripropongo.
Sarebbe
bello che associazioni calabresi come la Virginia Olper Monis o
l'Associazione Toponomastica femminile, prendessero a cuore questa
realtà, promuovendo iniziative e ricerche sul tema.
Alla fine aggiungo il ricordo di Teresa Gullace Talotta, di Cittanova (RC) dalla cui figura, nel film "Roma città aperta" , Roberto Rossellini fu ispirato per il personaggio di Pina, interpretato in modo splendido e indimenticabile da Anna Magnani... ma che sicuramente aveva un aCCCenTTO molto diverso!
Una
“Resistenza taciuta” di migliaia di calabresi con figure di
assoluto rilievo. E una Resistenza delle donne avvolta nel silenzio…
Claudio
Cavaliere - Da
Calabria on web
Come
sempre, quando si parla di Calabria, c’è un’altra storia. Una
storia a volte importante che però nel silenzio, nella discrezione,
nel non detto, nell’ignoranza rischia di smontarsi da sola, morendo
per mancanza d’aria o di alimentazione.
Per
fortuna, a distanza di decenni, lentamente e grazie a numerosi
storici, studiosi, istituti di ricerca, scrittori, prende sempre più
piede una immagine un po’ diversa rispetto a quella stereotipata di
questo pezzo di terra e dei suoi abitanti. Emblematica può essere la
narrazione della Resistenza da sempre considerata esclusiva
prerogativa delle popolazioni del Nord con i meridionali spettatori
passivi di una vicenda fondativa della nostra democrazia. C’è
invece - utilizzando il titolo di un libro a cura di Maria Bruzzone e
Rachele Farina - una “Resistenza taciuta” che
coinvolge migliaia di calabresi che solo da poco, grazie al lavoro
meticoloso di catalogazione avviato in alcune regioni con le banche
dati dei partigiani, sta emergendo in tutta la sua portata. Solo tra
Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna furono migliaia i nativi
calabresi attivi nella lotta partigiana con figure di assoluto
rilievo meritevoli di medaglie al valor militare per forme di
resistenza al nazi-fascismo (sette d’oro, sei d’argento e quattro
di bronzo). Ancora meno nota è poi la reale portata dell’impegno
femminile calabrese nella Resistenza che, al di là della facile
retorica, sconta il pregiudizio che avvolse tutte le resistenti
subito dopo la fine della guerra, in una Italia desiderosa di tornare
al perbenismo ante guerra che aspirava a riportare le donne al loro
ruolo tradizionale.
Così
alle partigiane torinesi della brigata Garibaldi venne proibito dal
Pci di sfilare dopo la liberazione, perché il partito voleva
accreditarsi come forza rispettabile, mentre in molte altre città
furono i capi brigata a consigliare alle donne di non sfilare o
almeno di farlo senza armi o vestite da crocerossine o in borghese.
“Alla
sfilata non ho partecipato, ero fuori ad applaudire. Ho visto passare
il mio comandante. Poi ho visto Mauri col suo distaccamento con le
donne che avevano, insieme. Loro si che c’erano! Mamma mia!
Per
fortuna che non sono andata anche io. La gente diceva che eran delle
puttane…”
(Intervista
ad una partigiana nel film-documentario di Liliana Cavani “La
donna nella Resistenza”).
Anche
per questo non sapremo mai il numero esatto delle donne resistenti.
Al termine della guerra bisognava richiedere la qualifica ai sensi
del D.L. 21 agosto 1945 n. 518 per avere diritto al premio di
solidarietà. Per essere riconosciute “partigiani combattenti”
occorreva aver svolto almeno tre mesi in armi, aver partecipato a tre
azioni di guerra o sabotaggio o avere fatto almeno tre mesi di
carcere. Per quello di “patriota” si richiedeva un impegno
sostanziale e continuato, sotto forma di cessioni di denari, viveri,
armi, munizioni, materiali sanitari, ospitalità clandestina, o aver
fornito importanti informazioni ai fini di buon esito della lotta di
liberazione. Nel solo Piemonte fu introdotta anche la qualifica di
“benemerito”.
Moltissime,
visto il rinnovato clima che spingeva verso un ritorno al privato
delle donne, non richiesero mai la qualifica. Per molte altre, che
avevano partecipato ad una resistenza civile senza armi, fatta di
accoglienza, di cura, di preparazione e partecipazione agli scioperi,
di boicottaggio delle fabbriche, non fu possibile richiedere
alcunché.
Le
donne avevano combattuto non solo per la libertà, ma anche per
affermare una Italia diversa per i loro diritti civili e sociali che
solo molto lentamente furono ad esse concesse nonostante la nuova
Costituzione.
Rimangono
comunque i numeri ufficiali che parlano di 4.653 donne arrestate,
torturate, condannate; 2.750 deportate nei campi di concentramento
tedeschi e 623 fucilate o morte in combattimento. Ad esse furono
conferite sedici medaglie d’oro al valor militare e diciassette
d’argento.
Una
grande onda di riflusso avvolse le donne nel dopoguerra. Le loro
storie, il loro protagonismo, che sembra oggi scontato, fu nuovamente
avvolto dal silenzio in una società che le spingeva a tornare nel
familiare perché i luoghi di lavoro e di decisione venivano
rioccupati dagli uomini.
Il
discorso sulla Resistenza tutto declinato al maschile, sulla
dimensione delle armi e del combattimento ha tagliato fuori per
decenni la possibilità di una ricostruzione precisa della presenza
femminile nella lotta di liberazione ed oggi che quasi tutte quelle
persone non sono più in vita rimane difficile, sulla base della sola
documentazione ufficiale, ricostruire il quadro reale della
situazione a partire dai nomi e dalle storie.
I nomi
di battaglia di alcune donne calabresi partigiane erano Cecilia,
Cunegonda, Angiolina, Prima, Beba, Reginella, Nina, Lia Ferrero,
Maia, Mina … Erano casalinghe, operaie, professoresse, contadine,
alcune nemmeno maggiorenni quando scelsero di opporsi al
nazi-fascismo. Oggi, di molte di loro, tranne il nome, non conosciamo
praticamente nulla, non una foto in quel mondo smisurato che si
chiama internet. Anche nei loro paesi di origine il ricordo sembra
definitivamente perso.
Alcune
storie magnifiche sono venute alla luce grazie anche all'Istituto
Calabrese per la Storia dell'Antifascismo e dell'Italia Contemporanea
(ICSAIC) e all’ANPI che cercano meritoriamente di stimolare la
ricerca, lo studio, di tenere accesa l’attenzione su una vicenda
che man mano riserva sempre nuove sorprese.
Giuseppina
Russo (nella foto, tratta dal Corriere della Calabria) di Roccaforte del Greco, una delle Api furibonde
dell’omonimo libro che da organizzatrice degli scioperi nelle
fabbriche finisce come partigiana combattente, dalla resistenza
civile a quella armata.
Anna
Cinanni, di Gerace, sorella di Paolo, che subì ripetute sevizie
in carcere, una delle dodici biografie di partigiane contenute nel
libro “La Resistenza taciuta” e nell’altro volume di
Lentini-Guerrisi “I partigiani calabresi nell’Appennino
ligure-piemontese”, anche lei protagonista di quel raffinato gioco
delle apparenze alla base di episodi infinite volte narrati di donne
che superano i posti di blocco con le loro sporte piene di volantini
o munizioni - piene di politica e di guerra - esibendo i simboli
della routine domestica o della femminilità inoffensiva.
Caterina
Tallarico di Marcedusa, sorella del più noto comandante
partigiano “Frico” che appena laureata in medicina sale in
montagna e comincia a ricoprire il ruolo di medico nella brigata del
fratello Federico esercitando non solo verso i partigiani feriti e
bisognosi di cure, ma anche nei confronti di tedeschi e fascisti
prigionieri. Per fortuna un suo libro autobiografico, “Una donna…
un medico… una vita”, ci permette di avere tutte le informazioni
di prima mano su di lei.
Anna
Condò di Reggio Calabria, testimone della strage della Benedicta
in cui fu ucciso il fratello.
E
poi tante altre donne di cui conosciamo meno: Lucia
Cosco
(Catanzaro); Alba
Lucio
(Crotone); Assunta
Lucio
(Crotone); Maria
Di Tocco
(Vibo Valentia); Antonietta
Oneglia
(Catanzaro); Maria
Carpino
(Colosimi), Giacomina
Fadel
(Cosenza); Domenica
Arcidiaco
(San Lorenzo); Margherita
Bazzani Gazagne
(Sant'Ilario dello Ionio); Anna,
Giulia e Tina Pontoriero
(Rosarno); Maria
Torello
(Reggio Calabria); Maria
Panuccio
(Sant’Eufemia d’Aspromonte); Concetta
Gangemi
(Palmi); Pata Franceschina e Angela Pata (Mileto); Bice
Di Tocco
(Reggio Calabria); Isolina
Ranieri
(San Giorgio Morgeto); Carinda
Forte
(Saracena); Carmelina
Montanari
(Siderno); Maria
Iaconetti (Carolei);
Maria
Barone
(Vibo Valentia); Vuorinna
Giovanna
(Rossano Calabro)…
Il
25 aprile celebriamo ogni donna che si ribella!
“Il
tempo, il tempo, insomma, porta via… porta via la memoria, porta
via le immagini, porta via un po’ tutto… ma come si fa a
dimenticare? Non puoi dimenticare. Non puoi dimenticare perché noi
abbiamo passato anni… anni atroci”
(Giacomina
Ercoli,
partigiana).
Istituto
calabrese per la storia dell'antifascismo e dell'Italia
contemporanea
Immagini dal sito dell'ANPI provinciale di Roma
Teresa
Talotta Gullace
Cittanova
(RC), 8 settembre 1906 - Roma, 3 marzo 1944
Proviene
da una umile famiglia di contadini e braccianti; figlia di Vincenzo e
Caterina Condello; nonostante la famiglia sia molto numerosa e c’è
bisogno di aiuto, i genitori le permettono di frequentare la scuola
tanto che riesce a completare l’intero ciclo delle elementari. A 17
anni sposa Girolamo Gullace, un muratore cittanovese, emigrato a Roma
alla fine della Grande Guerra per fare il manovale in uno dei tanti
cantieri della capitale. Dopo il matrimonio tentano di sistemarsi a
Cittanova ma il lavoro scarseggia e così Girolamo si vede costretto
a ritornare a Roma.
Si
adattarono a vivere in uno dei quartieri più poveri, nella zona tra
la stazione San Pietro e Via delle Fornaci, chiamata «la Valle
dell’inferno» perché ospitava le baracche più fatiscenti in
un’area, che pur essendo vicinissima al Vaticano, era fortemente
degradata. La famiglia Gullace abitava in Vicolo del Vicario, proprio
nella zona delle fornaci di mattoni, ed era formata da cinque figli,
il più grande – Emilio – già in età per fare il soldato, gli
altri tre maschietti erano in età scolare mentre la più piccola,
Caterina, andava all’asilo dalle monache. Dopo il 1940, con
l’arrivo dei tedeschi Girolamo aveva trovato lavoro in un cantiere
edile di un’impresa tedesca e malgrado le vicissitudini accadute
dopo l’8 settembre del 1943, questo fatto lo faceva sentire al
riparo da persecuzioni ed arresti più della dichiarazione
internazionale che aveva proclamato Roma, «città aperta».
Nei
primi mesi del 1944 le truppe tedesche di occupazione, appoggiate dai
fascisti, effettuano in continuazione massicci rastrellamenti tra la
popolazione civile. L’obiettivo primario è quello di individuare,
grazie a retate indiscriminate, i partigiani o gli sbandati o i
disertori; in secondo luogo si tratta di reclutare forzatamente
manodopera utile per lavori di supporto. Girolamo Gullace
viene catturato nella mattinata del 26 febbraio 1944 a seguito di un
controllo da parte dei Carabinieri, nella zona di Porta Cavalleggeri
e viene rinchiuso nella caserma dell’81° Fanteria in Viale Giulio
Cesare.
Appresa
la notizia dell’arresto del marito, Teresa, anche se in attesa del
sesto figlio, si reca subito davanti alla caserma e tenta di parlare
con Girolamo, di passargli qualche tozzo di pane e qualche indumento
e di confortarlo. Per cinque mattine di seguito si reca in Viale
Giulio Cesare, lì, davanti alla caserma, stazionano poche donne e,
in qualche modo, complice qualche milite pietoso, riesce a comunicare
con il marito. La mattina del 3 marzo, invece, vi è un assembramento
mai visto perché nei due giorni precedenti sono stati rastrellati
centinaia di uomini e ora i loro familiari pretendono di avere
notizie e tumultuano e gridano contro i tedeschi. Da parte loro, i
prigionieri, attaccati alle inferriate delle finestre, incitano i
manifestanti invitandoli a venire in avanti. Lungo il
marciapiede è stato disposto un cordone di soldati a protezione
della caserma e questi, con i fucili spianati, impediscono alle donne
di avanzare. Teresa, che ha portato con sé il figlioletto Umberto,
capisce che il marito ha qualcosa da dirle, si spinge fin che può in
avanti e il ragazzo riesce a capire che il padre vuole che vada al
cantiere dove lavora per farsi rilasciare dai suoi datori di lavoro
un attestato. Il ragazzo si allontana e Teresa viene risucchiata
indietro dalla folla; senza scoraggiarsi, a forza di gomitate e
spintoni, riesce nuovamente a guadagnare la prima fila, quella che
fronteggia direttamente i tedeschi. Da questo momento in poi le
versioni sull’accaduto sono contrastanti. Secondo una prima
versione, si sarebbe spinta tanto in avanti, sostenuta anche dalla
folla che gridava il suo nome, al punto da riuscire a raggiungere la
finestra dove si trovava il marito e a lanciargli un involto. Nel
ritornare indietro, un soldato tedesco la uccide con un colpo di
fucile. Secondo un’altra versione, Teresa avrebbe tentato di
superare lo schieramento dei soldati ma uno di questi le avrebbe
sbarrato la strada e dopo un alterco abbastanza violento, nel corso
del quale lei avrebbe sputato addosso al tedesco, questi, spianando
un mitra, fa partire una raffica che colpisce la donna al ventre. Un
terza versione sostiene che a ucciderla sia stato un SS, che a bordo
di una moto, andava avanti e indietro lungo il viale, agitando un
fucile e una pistola Luger e che sia stato proprio questo soldato a
bordo della motocicletta a sbarrarle la strada, bloccandola al centro
della carreggiata e, a quel punto, il soldato abbia sparato senza
pensarci due volte. La versione più accreditata, parla di un
sottoufficiale tedesco, un maresciallo delle SS, che all’improvviso
esce dalla caserma, pistola in pugno, si avvicina a Teresa e, senza
dire una parola, le spara un colpo dall’alto in basso, all’altezza
della gola.
Anche
le fasi successive all’assassinio risultano confuse. Un gruppo
di donne circonda il corpo di Teresa e impedisce a chiunque di
avvicinarsi e quando finalmente i soldati riescono a disperdere i
dimostranti, scoprono che il corpo della donna è totalmente
ricoperto di fiori. Altra versione sostiene che un gruppetto di
partigiane, Laura Lombardo Radice, Carla Capponi, Marisa Musu, Adele
Maria Jemolo e Marcella Lapiccirella, non appena vedono cadere la
donna, pistola in pugno, tentano di aggredire il maresciallo tedesco
che sta cercando di rientrare nella caserma. La folla, intuito quanto
è successo, avanza contro i soldati chiedendo la liberazione dei
prigionieri. Carla Capponi viene arrestata e riesce a liberarsi
rocambolescamente della pistola, mentre la Musu le infila nella tasca
del cappotto la tessera degli Universitari fascisti. L’arrivo di
un’ambulanza della Croce Rossa sblocca la situazione, anche perché
il comandante tedesco ordina l’immediata liberazione di Girolamo,
che così può accompagnare la moglie all’obitorio. La Croce Rossa
e il parroco assisteranno la famiglia in quel tragico frangente
fornendo un primo soccorso materiale oltre che conforto nel dolore.
Nel
pomeriggio un gruppo di Gappisti, comandato da Mario Fiorentini, nel
nome di Teresa Gullace, assalta la caserma di Viale Giulio Cesare e
nello scontro a fuoco che segue, vengono uccisi due fascisti
(qualcuno dice tre) e una donna che stava uscendo dalla vicina chiesa
di San Gioacchino. In quello stesso pomeriggio, viene diffuso un
volantino clandestino, scritto probabilmente da Laura Lombardo-Radice
e stampato da Pietro Ingrao, in cui si denuncia l’uccisione a
freddo di una madre di cinque figli e in attesa di un sesto. Teresa
Gullace diventa il simbolo della Resistenza delle donne romane.
Il
7 ottobre 1945, l’Unione Donne Italiane, a nome delle donne della
Resistenza romana, appone sulla caserma di Viale Giulio Cesare, una
lapide che ricorda il sacrificio della donna «simbolo dell’eroica
resistenza romana».La protagonista del film di Roberto Rossellini
«Roma città aperta», la «Sora Pina» - Anna Magnani - viene
unanimemente identificata con Teresa Gullace.
Il
2 giugno 1976, nel 30° anniversario della Repubblica, la Presidenza
della Regione Lazio conferisce a Teresa Gullace la medaglia d’oro
della Resistenza, quale riconoscimento del suo sacrificio di madre e
di moglie. Con Decreto del 31 marzo 1977, il Presidente della
Repubblica le conferisce la medaglia d’oro al valor civile con la
seguente motivazione: «Madre di cinque figlie ed alle soglie di una
nuova maternità, non esitava ad accorrere presso il marito,
imprigionato dai Nazisti, nel nobile intento di portargli conforto e
speranza. Mentre invocava con coraggiosa fermezza la liberazione del
coniuge, veniva barbaramente uccisa da un soldato tedesco». Il 25
aprile 1978 il Sindaco di Roma le conferisce la medaglia d’oro al
valor civile.Il 24 aprile 1980 il Consiglio Comunale di Cittanova le
conferisce la medaglia d’oro per merito civile e delibera, altresì,
di intitolare a lei la via in cui è nata e di apporre una lapide
sulla sua casa natale.
A Roma, nel 1989, il Liceo Scientifico che
sorge nella zona di Cinecittà, è stato intitolato a Teresa Gullace
e nell’atrio dell’istituto è stato collocato il busto scolpito
da Ugo Attardi a lei dedicato.
Nel 1995, nel cinquantenario della
fine della seconda guerra mondiale, Poste Italiane sceglie Teresa
Gullace per rappresentare, nella quartina commemorativa, «le donne
nella seconda guerra mondiale».
Teresa
Talotta Gullace è l’unica donna a essere sepolta tra i caduti
della Resistenza.
Nota
bibliografica
- Giorgio
Amendola, Lettere
a Milano,
Editori Riuniti, Roma 1976;
- Laura
Lombardo-Radice, Soltanto
una vita,
Baldini-Castoldi-Dalai, Roma 2005;
- Stefano
Roncoroni, La
storia di Roma citta aperta,
Edizioni Le Mani, Bologna 2006;
- Antonio
Orlando, “Anna
e Teresa” - il reale e l’immaginario nella vicenda di Teresa
Gullace,
«Rivista Calabrese di Storia del ’900», 1, 2014.