Per non appesantire il testo,
ho eliminato note e bibliografia, che potrete consultare sulla pagina internet.
Il progetto di identità e la
ri-significazione dei luoghi. Il patrimonio ebraico in Calabria
di Chiara Corazziere
Premessa
Nell’ultimo decennio si
assiste a una volontà più decisa di reinterpretare il rapporto tra cultura
europea e popolo ebraico, per troppo tempo ricondotto esclusivamente agli
orrori della Shoah e di guidare, invece, la tendenza positiva verso la scoperta
del patrimonio culturale ebraico, tangibile e intangibile: siti archeologici,
antiche sinagoghe e cimiteri, bagni rituali, quartieri ebraici, monumenti e
memoriali, archivi e biblioteche, tradizioni, musei specializzati per lo
studio, la protezione e la promozione della vita ebraica e i manufatti
religiosi e della vita quotidiana.
Organi quali il Consiglio
d’Europa, già dal 2005 con il riconoscimento dell’Itinerario culturale del
patrimonio ebraico tra i Grandi itinerari del Consiglio d’Europa e l’UCEI (Unione
Comunità Ebraiche Italiane), sin dall’Intesa con lo Stato italiano del 1987,
sono impegnati a verificare e rivendicare quante più testimonianze possibili
relative al patrimonio ebraico e si interessano a renderle visibili e
monitorate secondo azioni efficaci che individuano circuiti di fruizione già
inseriti nel contesto di iniziative nazionali ed europee.
Di contro, nei piccoli
centri calabresi, quali sono nella maggior parte dei casi quelli che ospitano
gli antichi quartieri ebraici - le giudecche - si assiste al lento abbandono
della memoria dei luoghi la cui identità vive ancora latente sotto i segni
delle trasformazioni successive all’espulsione degli ebrei dall’Italia
meridionale.
La predisposizione di
iniziative quali il Progetto Meridione con cui l’UCEI ricerca e tenta di
mappare le permanenze ancora visibili in Calabria e Sicilia o la Giornata
Europea della Cultura Ebraica, sempre a cura dell’UCEI, che coinvolge già
alcuni comuni calabresi non risolve, nei fatti, la necessità di un’organizzazione
territoriale sistematica per il riconoscimento, la tutela e la valorizzazione
del patrimonio superstite in Calabria, né l’urgenza di concepire una
metodologia di indagine dei contesti locali. Offre un primo accenno di
risposta, invece, alla totale o parziale mancanza di consapevolezza sociale e
all’esigenza di fare del recupero dell’identità dei luoghi la forza delle
realtà locali a fronte del rischio di omogeneizzazione e di appiattimento
culturale.
Il fenomeno da arginare è
qui proprio quello di un’identità ignorata, spesso, dagli stessi abitanti del
quartiere ma anche da quegli studiosi e dalle istituzioni preposte al controllo
del patrimonio ebraico che, pur tentando negli ultimi anni di ricostruire il
passaggio del popolo ebraico in Calabria, vi riescono solo in parte, a volte,
per l’impossibilità di reperire materiale verificato sulle permanenze o per la
mancanza di un metodo di lettura efficace delle tracce sopravvissute.
In contesti dove funzioni
e significati sono facilmente modificabili e in cui continui processi di
trasformazione urbana hanno riconosciuto ai luoghi analizzati valori diversi
dagli originari, il quartiere ebraico in quanto tale vive oggi in uno stato di
quasi invisibilità.
Se consideriamo le
giudecche come una porzione di spazio sociale un tempo dotato di funzioni e
norme atte a organizzare l’interazione di elementi simbolici e a fornire agli
abitanti una chiave interpretativa e allo stesso tempo constatiamo la perdita
delle funzioni e quindi dell’interpretazione originaria, allora è intuibile che
un processo di significazione è maggiormente efficace quanto più la società è
in grado di assegnare un’identità indipendentemente dalla funzione che quella
porzione di spazio svolgeva o svolge ancora. Se all’invisibilità del luogo dovuto
alla perdita della capacità interpretativa dell’osservatore si associa anche
l’assenza di una programmazione ampia del territorio a partire dagli organi di
rango più elevato a quelli locali si intuisce il ruolo fondamentale che la
ricerca disciplinare può avere in termini di elaborazione di un progetto di
identità, sia a livello di sistema territoriale, sia a quello dei singoli
contesti locali, per un’azione propositiva atta a stabilire una connessione
coerente tra recupero di significati derivanti da risorse non più
riproducibili, progetto di nuovi elementi e contesto, risorse esistenti e nuove
forme di sviluppo sociale ed economico.
Un progetto di identità
così concepito, rappresenta, nella realtà, l’unico mezzo per indurre le
giudecche alla connessione ad altre reti locali che ugualmente qualificano e
identificano il territorio e a quelle di rango più elevato nazionali e
internazionali, con tutte le ricadute in termini di azioni di tutela e anche di
sviluppo territoriale che ne deriverebbero.
Se il “preservare il
patrimonio immateriale è importante quanto conservare e proteggere l’ambiente
costruito” e nell’ottica di una conservazione e valorizzazione sostenibile che
sveli la cultura e la memoria dei luoghi e individui nel patrimonio ebraico, oltre
che una risorsa non rinnovabile, anche un fattore di sviluppo a cui attribuire
nuovi valori d’uso a partire e in coerenza con la funzione originaria, il
progetto di identità può essere anche il mezzo più efficace per ottimizzare le
opportunità di conoscenza e condurre a esiti coerenti con le azioni propositive
attuabili.
Permanenze e tracce di
un’identità urbana riconoscibile
La lunga permanenza degli
ebrei in Calabria - dal IV al XVI sec. d.C. - ha lasciato elementi tangibili su
città e territorio, delineando un modello urbano riconoscibile grazie alla
ricorrenza di costanti insediative che, verificate nei contesti di riferimento,
i quartieri ebraici - le giudecche - calabresi, portano alla definizione di un
modello urbano ebraico.
La presenza di insediamenti
ebraici in Italia meridionale fino all’espulsione dal Regno di Napoli decretata
dall’editto del 1541 di Isabella d’Aragona e Ferdinando il Cattolico è una
realtà ben documentata nonostante sia nettamente differenziata a seconda dei
periodi storici.
È soprattutto nel periodo
aragonese che la Calabria si connota come luogo di forte presenza ebraica, a
testimonianza sia di una maggiore tolleranza rispetto ai secoli precedenti sia
di un clima economico fiorente garantito proprio dalle attività gestite dagli
ebrei. “Pochi sanno che in Calabria c’erano 102 paesi dove gli ebrei vivevano”;
tante sono le giudecche nel XV secolo che inserite a pieno nella vita
cittadina, assumono anch’esse quelle connotazioni ricorrenti che fissano nel
tempo le permanenze ancora riconoscibili.
Gli ebrei calabresi non
conosceranno mai la residenza coatta in quartieri appositamente concepiti ma
anche nelle realtà in cui beneficiano di un’alta integrazione sociale scelgono
comunque di vivere in zone isolate, che solo grazie all’espansione del centro
storico e quindi per ragioni indipendenti dalla volontà della comunità ebraica,
possono mutarsi in periferiche o, al contrario, in aree interne al centro
abitato.
“Gli Ebrei si spostarono in aree culturali
separate non già a causa di pressioni esterne ma per deliberato proposito. I
fattori che favorivano la fondazione da parte degli Ebrei di comunità
localmente separate debbono essere cercati nel carattere delle tradizioni
ebraiche, nelle abitudini e nei costumi non soltanto degli stessi Ebrei ma
anche degli abitanti delle città medievali in generale. Agli Ebrei la comunità
geograficamente separata e socialmente isolata sembrava offrire le condizioni
migliori per seguire i loro precetti religiosi, per preparare i cibi in
conformità al rituale religioso stabilito, per seguire le loro leggi
dietetiche, per frequentare la sinagoga tre volte al giorno per le preghiere,
per partecipare alle numerose funzioni di vita comunitaria che il dovere
religioso imponeva a ogni membro della comunità”.
In seguito all’editto di
espulsione, il popolo ebraico, dopo averla abitata sin dai romani, abbandona la
Calabria e scompare nel giro di quattro mesi lasciando tracce nella storia, nella
tradizione, tracce fisiche sul territorio che il tempo ha lentamente coperto e
alterato, ma non cancellato del tutto. In alcuni casi la città attuale ha solo
celato il volto delle giudecche, delle sinagoghe e degli altri edifici
essenziali alla vita del quartiere.
Se la presenza degli
ebrei in Calabria è ampiamente testimoniata da fonti documentarie e d’archivio,
da studi a diversa connotazione - storica, letteraria economica - si è poco
scritto sulle giudecche, sul loro impianto e sulle architetture che vi sorgono.
È pur vero che
cinquecento anni di pausa hanno alterato quei segni la cui ricerca, oggi, per
collocare la giudecca e ricostruirne la struttura, richiede uno studio paziente
e che si basi su un approccio non consueto, come non consuete - o almeno alle
quali non siamo abituati - sono le regole che determinano questi insediamenti.
“Qui di tante umili storie, vissute spesso nel più travagliato quotidiano ma
anche nella più caparbia fedeltà al proprio credo, non rimane altro che un
toponimo, per molti ormai incomprensibile”.
La rilettura della
tradizione insediativa ebraica, dalla quale si deduce un legame profondo e
indissolubile con il passato, conduce alla constatazione delle grandi
potenzialità di un’organizzazione flessibile del territorio e la ricchezza di
un “habitat dinamico, di un approccio progettuale fondato sulle esigenze d’uso
più che su regole compositive”, qual è quello dei quartieri ebraici.
Considerando, tuttavia,
proprio questo carattere non stanziale e adeguabile a qualsiasi contesto,
rappresentato dalle comunità diffuse a livello globale, si potrebbe avanzare
l’ipotesi che il popolo ebraico non abbia mai costruito e quindi lasciato,
nonostante le permanenze riconoscibili, un patrimonio, nel senso tradizionale
del termine.
Se per patrimonio
culturale si intende, però, l’espressione di una civiltà e della sua evoluzione
- che giustifica di conseguenza una concezione di tutela e salvaguardia -
considerata essenzialmente come l’insieme degli avvenimenti che hanno segnato
l’evoluzione di una società e come strumenti per la costruzione di uno sviluppo
culturalmente fondato, non si può omettere, allora, che la cultura ebraica “può
vantare una presenza bimillenaria ed ininterrotta nella penisola italica e
sulle sue isole, ultimo terminale oggi di una tradizione che secondo lo storico
Arnaldo Momigliano rappresenta una componente della cultura italiana fin dalle
origini del cristianesimo e prima ancora”.
E poco peso ha, in questo
senso, la non aderenza ai modelli dominanti, perché, in Calabria, anche
nell’utilizzo di spazi e a volte costruzioni preesistenti, la cultura ebraica
fa si che questa sorta di nomadismo venga reinterpretato in maniera originale
rispetto al contesto, ma secondo un modello urbano, quello ebraico, sempre
uguale a se stesso. Anche nei momenti di maggiore emarginazione, infatti,
questa minoranza non ha mai cessato di cercare nel rapporto ripetitivo con il
territorio, la forza della propria resistenza.
Per potersi insediare,
infatti, la comunità ebraica ha bisogno di eseguire delle costanti: accostarsi
a un centro di potere - temporale e spirituale che sia - che ne tuteli la
sopravvivenza, a cui offrire in cambio ricchezza, non solo economica, ma
tecnica, scientifica e culturale. Ma soprattutto collocare i nodi funzionali di
un aggregato organico che le permetta di perseguire la propria identità nei
termini che le sono peculiari e legati alla dimensione spaziale: un corso
d’acqua dolce o una sorgente, un luogo dove pregare attorno al quale
raccogliere le case e le botteghe, un luogo lontano per seppellire i morti ed
espletare i lavori ritenuti impuri.
Se ne deduce, quindi, che
le giudecche così concepite hanno valore di patrimonio solo se viste nella loro
complessità, quasi ad attribuire proprio al loro essere aggregato di nodi
funzionali che non conoscono gerarchie e quindi tutti egualmente
irrinunciabili, il valore di unico monumento, portatore di memoria e identità.
La funzione memoriale che le giudecche possono assolvere riguarda
prioritariamente la conservazione dell’identità materiale il cui valore si
riferisce, tuttavia, alla memoria sopravvissuta alle trasformazioni avvenute e
in atto.
E infatti, di fronte alla
nozione di stampo prettamente occidentale di monumento storico, il patrimonio
urbano ebraico si fonda,
al
contrario, su quelle invarianti ai processi di trasformazione, desunte
dall’interpretazione degli elementi del modello, tipiche del funzionalismo
insediativo ebraico, che, proprio perché ricorrenti oltre che immutate nel
tempo, possono considerarsi
non più solo percezioni, ma elementi necessari alla configurazione della
comunità stessa.
Nel caso delle giudecche
calabresi, quindi, tali invarianti, pur senza le pretese dimensionali ed
estetiche dei monumenti propriamente detti e anche se contestualizzate in una
dimensione che vive dinamiche differenti da quelle che l’hanno generata
costituiscono, proprio perché manifestazione fisica di una modalità unica
dell’occupare un luogo, il concetto stesso di patrimonio urbano ebraico.
D’altronde quando si
discute della nozione di patrimonio, anche nel senso generale del termine e si
intende un insieme di oggetti appartenenti a una parte rappresentativa della
storia, che in quanto tali devono essere preservarti e conservarti, si mira ad
assegnare loro un significato che va al di là del loro valore d’uso e della
loro funzionalità.
È convinzione diffusa,
quindi, che su un’esperienza spaziale per così dire dinamica e non stabile, il
popolo ebraico ha effettivamente saputo costruire un patrimonio di idee ed
esperienze che non rappresenta solo l’espressione di una civiltà in un
determinato periodo, ma la testimonianza di una identità che ha la sua forza
nel perpetrarsi uguale nello svolgersi della storia passata, presente e
probabilmente, futura.
Il progetto d’identità
per la ri-significazione dei luoghi
Elaborare una metodologia
di intervento, anche se nei riguardi di insediamenti che, come si è visto, si
comportano secondo una matrice costante è comunque un’operazione difficoltosa.
Tuttavia nei centri minori, quali sono nella maggior parte dei casi quelli che
in Calabria ospitano le giudecche, gli impianti sono stati meno soggetti a
modificazioni insensate del tessuto urbano e mantengono ancora un rapporto di
proporzione tra le parti e di dialogo tra i diversi quartieri che
corrispondono, a grandi linee, alle fasi storiche di evoluzione del centro,
almeno a una delle quali appartiene il quartiere ebraico.
Qui il tempo ha mantenuto
i tessuti omogenei nella complessità delle stratificazioni storiche e le
emergenze riconoscibili; ne consegue che leggere e interpretare i segni della
storia e magari tradurli in atti progettuali sia in questi contesti più
semplice e quanto mai dovuto.
Tanto più che le odierne politiche urbane, infatti, sono vicine al
tema della riscoperta dell’identità dei luoghi, se considerata come componente di azioni più ampie - e
che investono i settori economico, sociale etc. - che concorrano alla
rivitalizzazione dei piccoli centri.
Come tutti i brani del
centro storico, anche la giudecca subisce le dinamiche della vita moderna né
sarebbe pensabile o auspicabile che il centro storico non si adeguasse al nuovo
rapporto con una città in continuo mutamento. Ma com’è normale che avvenga in
centri in cui la crescita demografica è quasi nulla e dove spesso si assiste a
fenomeni di abbandono, i quartieri ebraici non hanno subito grosse
trasformazioni se non quelle dettate dal traffico veicolare o dal cambio di
destinazione a quartieri esclusivamente residenziali.
Il fenomeno da arginare,
piuttosto, è quello dell’abbandono della memoria di questi luoghi la cui
identità vive latente sotto i segni delle stratificazioni storiche successive
al momento in cui gli ebrei lasciano l’Italia meridionale; identità ignorata,
spesso, dagli abitanti dello stesso quartiere ma anche da quegli studiosi e
dalle istituzioni ebraiche che negli ultimi anni tentano di ricostruire la
storia ebraica in Calabria riuscendovi solo in parte, a volte, per la mancanza
di conoscenza del territorio o per l’impossibilità di reperire materiale
verificato sulle permanenze o per la carenza di uno specifico metodo di lettura
delle tracce sopravvissute.
I quartieri ebraici,
invece, sono in alcuni casi, non solo riconoscibili, ma parti spesso
insostituibili del centro storico, se valutati nelle loro peculiarità
identitarie. E al pari del centro storico, secondo quei dettami diventati punti
fermi nella teoria della conservazione, la giudecca andrebbe considerata nel
suo insieme e non nei suoi monumenti.
Ma la salvaguardia della
giudecca come congelamento dei valori storici che le appartengono non è la
strategia più adeguata a queste realtà perché, se da una parte i valori che
detiene non lo sono nel senso classico del termine, dall’altra è comunque un
tessuto vivente, che potrebbe subire nuove trasformazioni.
La giudecca andrebbe
piuttosto considerata un unico organismo che non vive più i significati
originari ma ne porta i segni che, interpretati secondo un’azione progettuale
adeguata, potrebbero rivelare l’identità celata e rivitalizzare il tessuto,
anche nelle dinamiche contemporanee. Perché, come si è detto, la giudecca non
ha monumenti nel senso classico del termine, né una gerarchia degli spazi o dei
nodi funzionali; il suo valore è nel suo insieme, nell’essere sempre uguale a
se stessa perché fondata su una rete di significati efficaci in ogni luogo, ma
inutili se considerati per parti, perché concepiti allo scopo di perpetrare la
ricerca di una memoria.
E proprio perché non
attinenti ai canoni classici del tessuto storico, le giudecche potrebbero
essere il luogo per una sperimentazione progettuale, nel rispetto della dualità
identità/trasformazione. La giudecca potrebbe diventare l’identità altra
rispetto a quella del centro storico che rappresenta, da sempre, soprattutto
nei piccoli centri quali quelli cui si riferisce, l’anima dell’aggregato
urbano. Quello delle giudecche appare un campo stimolante per cercare i segni
della memoria storica e con una metodologia appositamente concepita, tradurli
in un progetto coerente, con il vantaggio della dimensione limitata del campo d’azione
che può garantirne più facilmente il controllo della qualità.
Sicuramente il primo
nesso da stabilire è quello tra recupero dei significati, il progetto di nuovi
elementi e il contesto, modificato rispetto all’originario.
L’atto del recuperare non
si riferisce, qui, al contesto puramente fisico, ma piuttosto al piano dei
valori intangibili cui seguono, certamente, delle azioni reali; e il progetto è
sicuramente da intendersi come il legante con il passato e il pretesto per un
futuro di cambiamento.
E per un campo
d’intervento come la giudecca la formula più congrua, nell’ottica di un
recupero interpretativo che ne sveli la cultura e la memoria dei luoghi, appare
proprio quella del progetto d’identità, concepito essenzialmente su due azioni:
preservare e valorizzare.
La prima - è facilmente
intuibile - si riferisce a una traccia già esistente, risultato, spesso, di un
lungo processo evolutivo; la seconda, invece, alle possibilità che quella
traccia cessi di essere latente, ritorni a essere visibile e comprensibile e
concorra, nella migliore delle ipotesi, a processi di sviluppo del contesto a
cui appartiene, nel tempo attuale. Le tracce cui ci si riferisce, perché
possano essere oggetto delle due azioni, devono appartenere a un’eredità
storica consolidata, sia in termini materiali sia immateriali e, soprattutto,
vanno prima rintracciate e decodificate.
Il contesto sul quale si
elabora un progetto di identità è, quindi, quello della stratificazione
storica, l’obiettivo è quello della riscoperta e della ri-significazione, il
mezzo è il metodo interpretativo. Se si pensa alla città come a una
stratificazione complessa, è intuibile - se non immediato - il quadro degli
infiniti segni, che sovrapposti, accostati gli uni agli altri, nascosti o
dominanti compongono la trama del patrimonio culturale; è meno chiaro, invece,
la loro organizzazione per strati, siano essi compiuti, non ultimati, non più
riconoscibili se non allo sguardo del solo esperto o ignorati dalle nuove
dinamiche dell’abitare contemporaneo.
Se ne deduce che
l’indagine storica, oltre che necessaria, è l’unico mezzo efficace alla
ridefinizione degli strati; di conseguenza, il metodo interpretativo, pur nelle
numerose fasi di trasformazione cui è soggetta la città, se ben concepito, è in
grado di cogliere quei caratteri, fisici o mentali, che nel loro permanere in
modo costante, hanno concorso al riconoscimento di una appartenenza e di una
immagine di identità urbana.
Riconosciuti quei segni
dissonanti che alterano gli equilibri raggiunti in seguito a lunghi processi
evolutivi, ma rintracciate, soprattutto, quelle costanti presenti nei diversi
processi di trasformazione, allora questi segni definiscono il patrimonio di
specificità su cui fondare un progetto che sia in grado di raccontarne il
processo formativo, di prefigurarne un destino compatibile con lo sviluppo e la
cui realizzazione sia fonte di identità collettiva. Restituire a un luogo
un’identità non esaurisce lo scopo se gli elementi identitari rintracciati non
vengono riletti anche “nei termini prospettivi di una tensione verso un
progetto di trasformazione, capace di fondare le sue scelte su un principio di
conservazione degli elementi storici e dei valori stratificati” e la memoria
collettiva non diventa generatrice di opportunità e, accanto al compito della
conservazione di risorse non più generabili, non assolve anche quello della
proposizione.
Come in ogni progetto di
identità e ri-significazione è necessario evidenziare l’esistenza di fattori
che presentano forti margini di imprevedibilità quali, per esempio, la
mutabilità a cui sono soggette le risorse intangibili e quindi i significati
assegnati ai luoghi nel tempo da chi conduce il progetto e chi lo recepisce.
Non è valutabile, poi, la
capacità degli organi preposti allo svolgimento di un progetto di identità che
può apparire efficace oggi, a provvedere alla sua sopravvivenza e flessibilità
nel futuro soprattutto se si insiste ad adottare il mercato come cartina di
tornasole della fenomenologia culturale in processi che dimostrano la propria
efficacia solo a lunga scadenza.
Non è prevedibile,
soprattutto, il grado di sedimentazione e mantenimento di un’identità sociale
che processi formativi e informativi possono inizialmente creare nella
popolazione. E anche l’attività didattica che dovrebbe accompagnare la
realizzazione di programmi di questo tipo rappresenta una strategia i cui
risultati sono visibili solo a lungo termine.
Il successo o il
fallimento di una strategia culturale di rigenerazione urbana, quindi, per
quanto ben concepita, dipende sempre dalla negoziazione di significato che
coinvolge i potenziali consumatori del contesto specifico e dal grado di
coinvolgimento dei portatori di interesse che si trovano sul territorio,
secondo un risultato che non sarà comunque prevedibile e stabile nel tempo
bensì sempre e soltanto l’esito mutevole di un processo continuamente aperto.
Il progetto di identità,
quindi, può diventare il volano per lo sviluppo locale solo alla precisa
condizione che vi sia coerenza tra l’immagine interna - quella percepita dalla
popolazione locale - e quella esterna legata alla capacità del sistema di regia
del territorio - pubbliche amministrazioni, agenzie per lo sviluppo ecc. - di
mantenere in vita un circolo virtuoso di relazioni tra i diversi attori che
intervengono nel processo di ri-significazione del patrimonio e di recepire i
processi di diffusione in modo fertile piuttosto che creare barriere difensive
rendendo statico il patrimonio culturale e annullandone qualsiasi connotazione
progressiva.
Non è da trascurarsi,
infine, l’abitudine radicata alle pratiche settoriali che fa si che anche i
programmi intesi a costruire reti e sistemi appaiano ai destinatari solo come
un mero strumento di distribuzione di risorse. Atteggiamento che impedisce
l’emergere di modelli di comportamento coerenti e progetti funzionali alle
attività di sistema e naturalmente, il raggiungimento di risultati in linea con
gli obiettivi previsti, oltre che, nella maggior parte dei casi, la distruzione
di risorse non più generabili.