Calabria judaica - Sud ebraico

Calabria judaica ~ Sud ebraico
Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria
con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione

Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé.
La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu.
Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta.
Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne).
Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; a
ttraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.

IN PRIMO PIANO: eventi e appuntamenti

27 gennaio 2019: Giorno della memoria

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giovedì 29 settembre 2016

Nitzavim 5776





שבת שלום!
SHABBAT SHALOM!


Shabbat 28 Elul 5776 (1° ottobre 2016)

Parashat Nitzavim: Devarim (Deuteronomio) 29,9-30,20
Haftarah:Isaia 61,10-63,9 (sef.); Giosué 24,1-18 (it.)

Questi precetti che io ti comando oggi non ti sono nascosti, né lontani. Non sono in cielo, onde tu debba dire: “Chi mai salirà per noi in cielo, e li prenderà per noi, e ce li farà udire, perché possiamo eseguirli?”. Né sono oltre mare, onde tu dica: “Chi passerà per noi oltre mare, e li prenderà per noi, e ce li farà udire, acciocché possiamo eseguirli?”. Ma la cosa ti è molto vicina: tu l’hai nella bocca e nella mente, per poterla eseguire .


La Legge non è nei cieli, bensì nella tua bocca e nel tuo cuore, affinché tu la esegua
Se si accetta che la Torà è stata data da D-o non si può dire, allora, che “i tempi sono cambiati” e che la Torà non può venire applicata nella sua forma originaria.
Meditiamo sul fatto che a Rosh Hashanà, pur essendo una piccola creatura, stringeremo un patto con l'infinito D-o Onnipotente


Rav Eliahu Birnbaum
Parashà Nitzavim - Il patto di ognuno di noi

Ogni cultura concepisce forme diverse di relazione ed impegno tra le persone e le istituzioni. Noi ci rapportiamo alle persone ed alle istituzioni, per iscritto o oralmente, sia attraverso le emozioni, che l’intelletto, che la legge. In questa parashà la Torà pone di fronte a noi una formula diversa di impegno: il Patto.
Il Patto che formula la Torà prevede la necessità di due parti, chiaramente differenziate ed obbligatoriamente presenti, che accettano il patto in modo esplicito. Da un lato abbiamo Dio, dall’altro il popolo di Israele composto da persone che, nel momento in cui viene stipulato il Patto, si rivolgono a Dio al singolare come se fossero un unico individuo. Il patto si realizza sempre tra due parti che mantengono la loro indipendenza ma che non sono obbligatoriamente uguali o reciprocamente equivalenti. Il concetto di Patto è applicabile al rapporto tra Dio e l’uomo, a quello di un uomo con sua moglie, a quello tra due uomini o a quello tra istituzioni con usi ed ideologie differenti: due uomini o entità “uguali” non hanno bisogno di un patto. Sarebbe inutile fare un patto con se stessi.
A differenza di quanto accade per i contratti, le norme e le leggi – tutte queste sono formulazioni umane di relazioni a termine – il Patto è fondato sul concetto di fedeltà al di sopra dei benefici. Un patto necessita e stabilisce un impegno comune ed un obiettivo al quale tendono i contraenti – che diventano alleati – a cui vengono subordinati gli elementi di differenza.
Il mondo nel quale viviamo ha contribuito a debilitare nel popolo ebraico, il concetto e la conseguenza del patto. Le relazioni interpersonali e tra le istituzioni si basano su norme e contratti che variano in funzione delle circostanze. Di fatto gran parte della crisi dell’Ebraismo nel mondo post-moderno deriva dall’assenza del “patto” nella vita quotidiana degli ebrei, l’indebolimento della loro connessione con l’Ebraismo, con il resto del popolo ebraico, con la memoria collettiva, con la Diaspora e lo Stato di Israele.
Allo stesso modo, gran parte della soluzione alla crisi generale che affrontiamo sta in un rinnovamento individuale di ciascuno del “patto” ereditato, quale mezzo per tornare ad avere una identità collettiva forte e sana, che sia valida per tutti noi e renda valido quel patto che, in ogni momento della nostra vita, ci ha protetto e ci protegge, ci ha impegnato e ci impegna.

Rav Riccardo Pacifici
Discorsi sulla Torà

Dopo i solenni ammonimenti e i gravi presagi annunciati nella Parashà delle Tokhechoth letta la scorsa settimana, ecco in questa odierna un altro poderoso discorso di Mosè, un'altra pagina di eccezionale elevatezza rivolta al popolo d'Israele. Dissi e ripeto oggi che in questi discorsi finali c'è un crescendo di solennità che colpisce anche il più superficiale lettore, c'è in questi discorsi un pathos religioso, un fremito ed un ardore sacro che impone il più assoluto rispetto.
In essi la figura di Mosè si staglia in tutta la sua imponente grandezza. Ecco qui in questa Parashà di Nizzavim il profeta ammonisce ancora una volta il popolo intorno alla fedeltà del patto; ecco il profeta proclamare che a questo patto si sono impegnati tutti i figli d'Israele, dai capi ai più umili gregari; dagli anziani ai fanciulli e non solo; ma anche tutti coloro che non sono presenti, ma che discenderanno nella catena delle generazioni da quelli d'Israele, sono tutti impegnati nell'adempimento del patto. Patto impegnativo per tutti : la defezione di una famiglia, di una tribù potrebbe diffondersi, provocare il castigo per tutto il popolo; il male sorto in una pianta o in un angolo della vigna d Israele, potrebbe inquinare e guastare senza rimedio tutta la seminagione di Dio!
L'animo del sommo profeta è assillato da questo incubo: l'infedeltà del popolo all'idea. Questo pensiero dominante induce il profeta a ritornare in questi ultimi discorsi sul tema fondamentale, ed egli non risparmia di prospettare al popolo anche le più terribili conseguenze. Qui, in questa Parashà è il quadro della futura sorte che sarà riserbata alla terra d'Israele, se il popolo sarà infedele a Dio. Quella terra che Israele sta per conquistare, quella terra, la cui decantata fertilità aveva stupefatto gli scettici esploratori che erano andati a percorrerla, quella terra che veniva annunciata come la terra fluente latte e miele, quella terra sarà ridotta a una landa desolata, se il popolo non saprà attuarvi un nuovo sistema di vita. La terra d'Israele, allora, sarà la terra dei peccatori e subirà la sorte di Sodoma e Gomorra, di quelle città, la cui catastrofica punizione doveva rimanere proverbiale negli annali dei popoli antichi. La terra d'Israele sarà divorata dal sole e dallo zolfo, che ne farannosparire ogni traccia di vegetazione, e alle generazioni lontane, allo straniero che verrà e che stupito da questo funesto spettacolo chiederà il perché di tanta desolazione, si annuncerà chiaramente il motivo di tale immenso castigo: "Sono essi che hanno abbandonato il Dio dei loro padri, e il patto che con loro strinse dopo averli fatti uscire dall'Egitto, sono essi che sono andati a servire altri dei, inchinandosi a loro, dei che mai avevano conosciuto; perciò l'ira del Signore si è scatenata su questa terra, rovesciando su di essa tutta la maledizione scritta in questo libro, perciò il Signore li ha staccati dalla loro terra..." (Deut. XXIX, 23 e seg.).
Questo il quadro funesto, ma di impressionante verità, che Mosè traccia al popolo: ma ad esso egli sente il bisogno di far seguire un ulteriore annuncio che fa presagire la futura rinascita dopo la distruzione. Guardate, egli dice, il Signore che così punisce, è Iddio giusto, voi sarete lontani, in altra terra, ma anche di là potrete ricercarlo, e se voi ricercherete Iddio e tornerete a Lui, anche di mezzo alla dispersione, il Signore tornerà a voi, Egli tornerà, e ripristinerà la tua condizione, avrà pietà di te, e ti raccoglierà di mezzo a tutte le genti fra le quali ti avrà disperso (Deut., XXX, 1 e segg.). Non dubitare dunque, o Israele, anche se un grave e tremendo castigo dovesse piombare su di te. Accettalo con rassegnazione, è il castigo di Dio, e tu, come dice la parola della sapienza, non disprezzarlo, o figlio mio, e non avere a vile la Sua riprensione, perché, quegli che Iddio ama, riprende, ammonisce e come un padre Egli vuole il bene del proprio figlio. Per coloro che ammonisce, dolce sarà il Suo ammonimento e su di essi scenderà la benedizione di Dio.



mercoledì 28 settembre 2016

Chiara Corazziere sul patrimonio ebraico in Calabria

In un post dell’inizio dell’anno (Giorno della Memoria 2016 a Reggio) riportavo un articolo da Strilli.it in cui si parlava di due interventi, uno di Pasquale Faenza sulla Judeca di Bova (su cui si può trovare il suo interessante articolo in Calabria sconosciuta, n. 147/148, di luglio-dicembre 2015 ), e l’altro di Chiara Corazziere, di cui propongo qui il bell’articolo, di grande valore scientifico, Ilprogetto di identità e la ri-significazione dei luoghi. Il patrimonio ebraicoin Calabria tratto da Tafter Journal.
Per non appesantire il testo, ho eliminato note e bibliografia, che potrete consultare sulla pagina internet.

Il progetto di identità e la ri-significazione dei luoghi. Il patrimonio ebraico in Calabria
di Chiara Corazziere

Premessa
Nell’ultimo decennio si assiste a una volontà più decisa di reinterpretare il rapporto tra cultura europea e popolo ebraico, per troppo tempo ricondotto esclusivamente agli orrori della Shoah e di guidare, invece, la tendenza positiva verso la scoperta del patrimonio culturale ebraico, tangibile e intangibile: siti archeologici, antiche sinagoghe e cimiteri, bagni rituali, quartieri ebraici, monumenti e memoriali, archivi e biblioteche, tradizioni, musei specializzati per lo studio, la protezione e la promozione della vita ebraica e i manufatti religiosi e della vita quotidiana.
Organi quali il Consiglio d’Europa, già dal 2005 con il riconoscimento dell’Itinerario culturale del patrimonio ebraico tra i Grandi itinerari del Consiglio d’Europa e l’UCEI (Unione Comunità Ebraiche Italiane), sin dall’Intesa con lo Stato italiano del 1987, sono impegnati a verificare e rivendicare quante più testimonianze possibili relative al patrimonio ebraico e si interessano a renderle visibili e monitorate secondo azioni efficaci che individuano circuiti di fruizione già inseriti nel contesto di iniziative nazionali ed europee.
Di contro, nei piccoli centri calabresi, quali sono nella maggior parte dei casi quelli che ospitano gli antichi quartieri ebraici - le giudecche - si assiste al lento abbandono della memoria dei luoghi la cui identità vive ancora latente sotto i segni delle trasformazioni successive all’espulsione degli ebrei dall’Italia meridionale.
La predisposizione di iniziative quali il Progetto Meridione con cui l’UCEI ricerca e tenta di mappare le permanenze ancora visibili in Calabria e Sicilia o la Giornata Europea della Cultura Ebraica, sempre a cura dell’UCEI, che coinvolge già alcuni comuni calabresi non risolve, nei fatti, la necessità di un’organizzazione territoriale sistematica per il riconoscimento, la tutela e la valorizzazione del patrimonio superstite in Calabria, né l’urgenza di concepire una metodologia di indagine dei contesti locali. Offre un primo accenno di risposta, invece, alla totale o parziale mancanza di consapevolezza sociale e all’esigenza di fare del recupero dell’identità dei luoghi la forza delle realtà locali a fronte del rischio di omogeneizzazione e di appiattimento culturale.
Il fenomeno da arginare è qui proprio quello di un’identità ignorata, spesso, dagli stessi abitanti del quartiere ma anche da quegli studiosi e dalle istituzioni preposte al controllo del patrimonio ebraico che, pur tentando negli ultimi anni di ricostruire il passaggio del popolo ebraico in Calabria, vi riescono solo in parte, a volte, per l’impossibilità di reperire materiale verificato sulle permanenze o per la mancanza di un metodo di lettura efficace delle tracce sopravvissute.
In contesti dove funzioni e significati sono facilmente modificabili e in cui continui processi di trasformazione urbana hanno riconosciuto ai luoghi analizzati valori diversi dagli originari, il quartiere ebraico in quanto tale vive oggi in uno stato di quasi invisibilità.
Se consideriamo le giudecche come una porzione di spazio sociale un tempo dotato di funzioni e norme atte a organizzare l’interazione di elementi simbolici e a fornire agli abitanti una chiave interpretativa e allo stesso tempo constatiamo la perdita delle funzioni e quindi dell’interpretazione originaria, allora è intuibile che un processo di significazione è maggiormente efficace quanto più la società è in grado di assegnare un’identità indipendentemente dalla funzione che quella porzione di spazio svolgeva o svolge ancora. Se all’invisibilità del luogo dovuto alla perdita della capacità interpretativa dell’osservatore si associa anche l’assenza di una programmazione ampia del territorio a partire dagli organi di rango più elevato a quelli locali si intuisce il ruolo fondamentale che la ricerca disciplinare può avere in termini di elaborazione di un progetto di identità, sia a livello di sistema territoriale, sia a quello dei singoli contesti locali, per un’azione propositiva atta a stabilire una connessione coerente tra recupero di significati derivanti da risorse non più riproducibili, progetto di nuovi elementi e contesto, risorse esistenti e nuove forme di sviluppo sociale ed economico.
Un progetto di identità così concepito, rappresenta, nella realtà, l’unico mezzo per indurre le giudecche alla connessione ad altre reti locali che ugualmente qualificano e identificano il territorio e a quelle di rango più elevato nazionali e internazionali, con tutte le ricadute in termini di azioni di tutela e anche di sviluppo territoriale che ne deriverebbero.
Se il “preservare il patrimonio immateriale è importante quanto conservare e proteggere l’ambiente costruito” e nell’ottica di una conservazione e valorizzazione sostenibile che sveli la cultura e la memoria dei luoghi e individui nel patrimonio ebraico, oltre che una risorsa non rinnovabile, anche un fattore di sviluppo a cui attribuire nuovi valori d’uso a partire e in coerenza con la funzione originaria, il progetto di identità può essere anche il mezzo più efficace per ottimizzare le opportunità di conoscenza e condurre a esiti coerenti con le azioni propositive attuabili.

Permanenze e tracce di un’identità urbana riconoscibile
La lunga permanenza degli ebrei in Calabria - dal IV al XVI sec. d.C. - ha lasciato elementi tangibili su città e territorio, delineando un modello urbano riconoscibile grazie alla ricorrenza di costanti insediative che, verificate nei contesti di riferimento, i quartieri ebraici - le giudecche - calabresi, portano alla definizione di un modello urbano ebraico.
La presenza di insediamenti ebraici in Italia meridionale fino all’espulsione dal Regno di Napoli decretata dall’editto del 1541 di Isabella d’Aragona e Ferdinando il Cattolico è una realtà ben documentata nonostante sia nettamente differenziata a seconda dei periodi storici.
È soprattutto nel periodo aragonese che la Calabria si connota come luogo di forte presenza ebraica, a testimonianza sia di una maggiore tolleranza rispetto ai secoli precedenti sia di un clima economico fiorente garantito proprio dalle attività gestite dagli ebrei. “Pochi sanno che in Calabria c’erano 102 paesi dove gli ebrei vivevano”; tante sono le giudecche nel XV secolo che inserite a pieno nella vita cittadina, assumono anch’esse quelle connotazioni ricorrenti che fissano nel tempo le permanenze ancora riconoscibili.
Gli ebrei calabresi non conosceranno mai la residenza coatta in quartieri appositamente concepiti ma anche nelle realtà in cui beneficiano di un’alta integrazione sociale scelgono comunque di vivere in zone isolate, che solo grazie all’espansione del centro storico e quindi per ragioni indipendenti dalla volontà della comunità ebraica, possono mutarsi in periferiche o, al contrario, in aree interne al centro abitato.
 “Gli Ebrei si spostarono in aree culturali separate non già a causa di pressioni esterne ma per deliberato proposito. I fattori che favorivano la fondazione da parte degli Ebrei di comunità localmente separate debbono essere cercati nel carattere delle tradizioni ebraiche, nelle abitudini e nei costumi non soltanto degli stessi Ebrei ma anche degli abitanti delle città medievali in generale. Agli Ebrei la comunità geograficamente separata e socialmente isolata sembrava offrire le condizioni migliori per seguire i loro precetti religiosi, per preparare i cibi in conformità al rituale religioso stabilito, per seguire le loro leggi dietetiche, per frequentare la sinagoga tre volte al giorno per le preghiere, per partecipare alle numerose funzioni di vita comunitaria che il dovere religioso imponeva a ogni membro della comunità”.
In seguito all’editto di espulsione, il popolo ebraico, dopo averla abitata sin dai romani, abbandona la Calabria e scompare nel giro di quattro mesi lasciando tracce nella storia, nella tradizione, tracce fisiche sul territorio che il tempo ha lentamente coperto e alterato, ma non cancellato del tutto. In alcuni casi la città attuale ha solo celato il volto delle giudecche, delle sinagoghe e degli altri edifici essenziali alla vita del quartiere.
Se la presenza degli ebrei in Calabria è ampiamente testimoniata da fonti documentarie e d’archivio, da studi a diversa connotazione - storica, letteraria economica - si è poco scritto sulle giudecche, sul loro impianto e sulle architetture che vi sorgono.
È pur vero che cinquecento anni di pausa hanno alterato quei segni la cui ricerca, oggi, per collocare la giudecca e ricostruirne la struttura, richiede uno studio paziente e che si basi su un approccio non consueto, come non consuete - o almeno alle quali non siamo abituati - sono le regole che determinano questi insediamenti. “Qui di tante umili storie, vissute spesso nel più travagliato quotidiano ma anche nella più caparbia fedeltà al proprio credo, non rimane altro che un toponimo, per molti ormai incomprensibile”.
La rilettura della tradizione insediativa ebraica, dalla quale si deduce un legame profondo e indissolubile con il passato, conduce alla constatazione delle grandi potenzialità di un’organizzazione flessibile del territorio e la ricchezza di un “habitat dinamico, di un approccio progettuale fondato sulle esigenze d’uso più che su regole compositive”, qual è quello dei quartieri ebraici.
Considerando, tuttavia, proprio questo carattere non stanziale e adeguabile a qualsiasi contesto, rappresentato dalle comunità diffuse a livello globale, si potrebbe avanzare l’ipotesi che il popolo ebraico non abbia mai costruito e quindi lasciato, nonostante le permanenze riconoscibili, un patrimonio, nel senso tradizionale del termine.
Se per patrimonio culturale si intende, però, l’espressione di una civiltà e della sua evoluzione - che giustifica di conseguenza una concezione di tutela e salvaguardia - considerata essenzialmente come l’insieme degli avvenimenti che hanno segnato l’evoluzione di una società e come strumenti per la costruzione di uno sviluppo culturalmente fondato, non si può omettere, allora, che la cultura ebraica “può vantare una presenza bimillenaria ed ininterrotta nella penisola italica e sulle sue isole, ultimo terminale oggi di una tradizione che secondo lo storico Arnaldo Momigliano rappresenta una componente della cultura italiana fin dalle origini del cristianesimo e prima ancora”.
E poco peso ha, in questo senso, la non aderenza ai modelli dominanti, perché, in Calabria, anche nell’utilizzo di spazi e a volte costruzioni preesistenti, la cultura ebraica fa si che questa sorta di nomadismo venga reinterpretato in maniera originale rispetto al contesto, ma secondo un modello urbano, quello ebraico, sempre uguale a se stesso. Anche nei momenti di maggiore emarginazione, infatti, questa minoranza non ha mai cessato di cercare nel rapporto ripetitivo con il territorio, la forza della propria resistenza.
Per potersi insediare, infatti, la comunità ebraica ha bisogno di eseguire delle costanti: accostarsi a un centro di potere - temporale e spirituale che sia - che ne tuteli la sopravvivenza, a cui offrire in cambio ricchezza, non solo economica, ma tecnica, scientifica e culturale. Ma soprattutto collocare i nodi funzionali di un aggregato organico che le permetta di perseguire la propria identità nei termini che le sono peculiari e legati alla dimensione spaziale: un corso d’acqua dolce o una sorgente, un luogo dove pregare attorno al quale raccogliere le case e le botteghe, un luogo lontano per seppellire i morti ed espletare i lavori ritenuti impuri.
Se ne deduce, quindi, che le giudecche così concepite hanno valore di patrimonio solo se viste nella loro complessità, quasi ad attribuire proprio al loro essere aggregato di nodi funzionali che non conoscono gerarchie e quindi tutti egualmente irrinunciabili, il valore di unico monumento, portatore di memoria e identità. La funzione memoriale che le giudecche possono assolvere riguarda prioritariamente la conservazione dell’identità materiale il cui valore si riferisce, tuttavia, alla memoria sopravvissuta alle trasformazioni avvenute e in atto.
E infatti, di fronte alla nozione di stampo prettamente occidentale di monumento storico, il patrimonio urbano ebraico si fonda,al contrario, su quelle invarianti ai processi di trasformazione, desunte dall’interpretazione degli elementi del modello, tipiche del funzionalismo insediativo ebraico, che, proprio perché ricorrenti oltre che immutate nel tempo, possono considerarsi non più solo percezioni, ma elementi necessari alla configurazione della comunità stessa.
Nel caso delle giudecche calabresi, quindi, tali invarianti, pur senza le pretese dimensionali ed estetiche dei monumenti propriamente detti e anche se contestualizzate in una dimensione che vive dinamiche differenti da quelle che l’hanno generata costituiscono, proprio perché manifestazione fisica di una modalità unica dell’occupare un luogo, il concetto stesso di patrimonio urbano ebraico.
D’altronde quando si discute della nozione di patrimonio, anche nel senso generale del termine e si intende un insieme di oggetti appartenenti a una parte rappresentativa della storia, che in quanto tali devono essere preservarti e conservarti, si mira ad assegnare loro un significato che va al di là del loro valore d’uso e della loro funzionalità.
È convinzione diffusa, quindi, che su un’esperienza spaziale per così dire dinamica e non stabile, il popolo ebraico ha effettivamente saputo costruire un patrimonio di idee ed esperienze che non rappresenta solo l’espressione di una civiltà in un determinato periodo, ma la testimonianza di una identità che ha la sua forza nel perpetrarsi uguale nello svolgersi della storia passata, presente e probabilmente, futura.
Il progetto d’identità per la ri-significazione dei luoghi
Elaborare una metodologia di intervento, anche se nei riguardi di insediamenti che, come si è visto, si comportano secondo una matrice costante è comunque un’operazione difficoltosa. Tuttavia nei centri minori, quali sono nella maggior parte dei casi quelli che in Calabria ospitano le giudecche, gli impianti sono stati meno soggetti a modificazioni insensate del tessuto urbano e mantengono ancora un rapporto di proporzione tra le parti e di dialogo tra i diversi quartieri che corrispondono, a grandi linee, alle fasi storiche di evoluzione del centro, almeno a una delle quali appartiene il quartiere ebraico.
Qui il tempo ha mantenuto i tessuti omogenei nella complessità delle stratificazioni storiche e le emergenze riconoscibili; ne consegue che leggere e interpretare i segni della storia e magari tradurli in atti progettuali sia in questi contesti più semplice e quanto mai dovuto.Tanto più che le odierne politiche urbane, infatti, sono vicine al tema della riscoperta dell’identità dei luoghi, se considerata come componente di azioni più ampie - e che investono i settori economico, sociale etc. - che concorrano alla rivitalizzazione dei piccoli centri.
Come tutti i brani del centro storico, anche la giudecca subisce le dinamiche della vita moderna né sarebbe pensabile o auspicabile che il centro storico non si adeguasse al nuovo rapporto con una città in continuo mutamento. Ma com’è normale che avvenga in centri in cui la crescita demografica è quasi nulla e dove spesso si assiste a fenomeni di abbandono, i quartieri ebraici non hanno subito grosse trasformazioni se non quelle dettate dal traffico veicolare o dal cambio di destinazione a quartieri esclusivamente residenziali.
Il fenomeno da arginare, piuttosto, è quello dell’abbandono della memoria di questi luoghi la cui identità vive latente sotto i segni delle stratificazioni storiche successive al momento in cui gli ebrei lasciano l’Italia meridionale; identità ignorata, spesso, dagli abitanti dello stesso quartiere ma anche da quegli studiosi e dalle istituzioni ebraiche che negli ultimi anni tentano di ricostruire la storia ebraica in Calabria riuscendovi solo in parte, a volte, per la mancanza di conoscenza del territorio o per l’impossibilità di reperire materiale verificato sulle permanenze o per la carenza di uno specifico metodo di lettura delle tracce sopravvissute.
I quartieri ebraici, invece, sono in alcuni casi, non solo riconoscibili, ma parti spesso insostituibili del centro storico, se valutati nelle loro peculiarità identitarie. E al pari del centro storico, secondo quei dettami diventati punti fermi nella teoria della conservazione, la giudecca andrebbe considerata nel suo insieme e non nei suoi monumenti.
Ma la salvaguardia della giudecca come congelamento dei valori storici che le appartengono non è la strategia più adeguata a queste realtà perché, se da una parte i valori che detiene non lo sono nel senso classico del termine, dall’altra è comunque un tessuto vivente, che potrebbe subire nuove trasformazioni.
La giudecca andrebbe piuttosto considerata un unico organismo che non vive più i significati originari ma ne porta i segni che, interpretati secondo un’azione progettuale adeguata, potrebbero rivelare l’identità celata e rivitalizzare il tessuto, anche nelle dinamiche contemporanee. Perché, come si è detto, la giudecca non ha monumenti nel senso classico del termine, né una gerarchia degli spazi o dei nodi funzionali; il suo valore è nel suo insieme, nell’essere sempre uguale a se stessa perché fondata su una rete di significati efficaci in ogni luogo, ma inutili se considerati per parti, perché concepiti allo scopo di perpetrare la ricerca di una memoria.
E proprio perché non attinenti ai canoni classici del tessuto storico, le giudecche potrebbero essere il luogo per una sperimentazione progettuale, nel rispetto della dualità identità/trasformazione. La giudecca potrebbe diventare l’identità altra rispetto a quella del centro storico che rappresenta, da sempre, soprattutto nei piccoli centri quali quelli cui si riferisce, l’anima dell’aggregato urbano. Quello delle giudecche appare un campo stimolante per cercare i segni della memoria storica e con una metodologia appositamente concepita, tradurli in un progetto coerente, con il vantaggio della dimensione limitata del campo d’azione che può garantirne più facilmente il controllo della qualità.
Sicuramente il primo nesso da stabilire è quello tra recupero dei significati, il progetto di nuovi elementi e il contesto, modificato rispetto all’originario.
L’atto del recuperare non si riferisce, qui, al contesto puramente fisico, ma piuttosto al piano dei valori intangibili cui seguono, certamente, delle azioni reali; e il progetto è sicuramente da intendersi come il legante con il passato e il pretesto per un futuro di cambiamento.
E per un campo d’intervento come la giudecca la formula più congrua, nell’ottica di un recupero interpretativo che ne sveli la cultura e la memoria dei luoghi, appare proprio quella del progetto d’identità, concepito essenzialmente su due azioni: preservare e valorizzare.
La prima - è facilmente intuibile - si riferisce a una traccia già esistente, risultato, spesso, di un lungo processo evolutivo; la seconda, invece, alle possibilità che quella traccia cessi di essere latente, ritorni a essere visibile e comprensibile e concorra, nella migliore delle ipotesi, a processi di sviluppo del contesto a cui appartiene, nel tempo attuale. Le tracce cui ci si riferisce, perché possano essere oggetto delle due azioni, devono appartenere a un’eredità storica consolidata, sia in termini materiali sia immateriali e, soprattutto, vanno prima rintracciate e decodificate.
Il contesto sul quale si elabora un progetto di identità è, quindi, quello della stratificazione storica, l’obiettivo è quello della riscoperta e della ri-significazione, il mezzo è il metodo interpretativo. Se si pensa alla città come a una stratificazione complessa, è intuibile - se non immediato - il quadro degli infiniti segni, che sovrapposti, accostati gli uni agli altri, nascosti o dominanti compongono la trama del patrimonio culturale; è meno chiaro, invece, la loro organizzazione per strati, siano essi compiuti, non ultimati, non più riconoscibili se non allo sguardo del solo esperto o ignorati dalle nuove dinamiche dell’abitare contemporaneo.
Se ne deduce che l’indagine storica, oltre che necessaria, è l’unico mezzo efficace alla ridefinizione degli strati; di conseguenza, il metodo interpretativo, pur nelle numerose fasi di trasformazione cui è soggetta la città, se ben concepito, è in grado di cogliere quei caratteri, fisici o mentali, che nel loro permanere in modo costante, hanno concorso al riconoscimento di una appartenenza e di una immagine di identità urbana.
Riconosciuti quei segni dissonanti che alterano gli equilibri raggiunti in seguito a lunghi processi evolutivi, ma rintracciate, soprattutto, quelle costanti presenti nei diversi processi di trasformazione, allora questi segni definiscono il patrimonio di specificità su cui fondare un progetto che sia in grado di raccontarne il processo formativo, di prefigurarne un destino compatibile con lo sviluppo e la cui realizzazione sia fonte di identità collettiva. Restituire a un luogo un’identità non esaurisce lo scopo se gli elementi identitari rintracciati non vengono riletti anche “nei termini prospettivi di una tensione verso un progetto di trasformazione, capace di fondare le sue scelte su un principio di conservazione degli elementi storici e dei valori stratificati” e la memoria collettiva non diventa generatrice di opportunità e, accanto al compito della conservazione di risorse non più generabili, non assolve anche quello della proposizione.
Come in ogni progetto di identità e ri-significazione è necessario evidenziare l’esistenza di fattori che presentano forti margini di imprevedibilità quali, per esempio, la mutabilità a cui sono soggette le risorse intangibili e quindi i significati assegnati ai luoghi nel tempo da chi conduce il progetto e chi lo recepisce.
Non è valutabile, poi, la capacità degli organi preposti allo svolgimento di un progetto di identità che può apparire efficace oggi, a provvedere alla sua sopravvivenza e flessibilità nel futuro soprattutto se si insiste ad adottare il mercato come cartina di tornasole della fenomenologia culturale in processi che dimostrano la propria efficacia solo a lunga scadenza.
Non è prevedibile, soprattutto, il grado di sedimentazione e mantenimento di un’identità sociale che processi formativi e informativi possono inizialmente creare nella popolazione. E anche l’attività didattica che dovrebbe accompagnare la realizzazione di programmi di questo tipo rappresenta una strategia i cui risultati sono visibili solo a lungo termine.
Il successo o il fallimento di una strategia culturale di rigenerazione urbana, quindi, per quanto ben concepita, dipende sempre dalla negoziazione di significato che coinvolge i potenziali consumatori del contesto specifico e dal grado di coinvolgimento dei portatori di interesse che si trovano sul territorio, secondo un risultato che non sarà comunque prevedibile e stabile nel tempo bensì sempre e soltanto l’esito mutevole di un processo continuamente aperto.
Il progetto di identità, quindi, può diventare il volano per lo sviluppo locale solo alla precisa condizione che vi sia coerenza tra l’immagine interna - quella percepita dalla popolazione locale - e quella esterna legata alla capacità del sistema di regia del territorio - pubbliche amministrazioni, agenzie per lo sviluppo ecc. - di mantenere in vita un circolo virtuoso di relazioni tra i diversi attori che intervengono nel processo di ri-significazione del patrimonio e di recepire i processi di diffusione in modo fertile piuttosto che creare barriere difensive rendendo statico il patrimonio culturale e annullandone qualsiasi connotazione progressiva.

Non è da trascurarsi, infine, l’abitudine radicata alle pratiche settoriali che fa si che anche i programmi intesi a costruire reti e sistemi appaiano ai destinatari solo come un mero strumento di distribuzione di risorse. Atteggiamento che impedisce l’emergere di modelli di comportamento coerenti e progetti funzionali alle attività di sistema e naturalmente, il raggiungimento di risultati in linea con gli obiettivi previsti, oltre che, nella maggior parte dei casi, la distruzione di risorse non più generabili.

Lessemi semitici in un'area della Calabria

In un recente post (Ebraico e calabrese: analogie e paralleli linguistici) citavo l’articolo del professor Ariel Shalomo, sulla presenza di termini ebraici in un’area della Calabria tra le province di Vibo e Reggio. Affermavo di trovare poco convincenti alcune sue ipotesi, che a mio parere trovano una migliore e più coerente spiegazione in un’origine latina o greca di alcune etimologie, o in fenomeni fonetici propri del calabrese. Vi propongo qui l’articolo integrale (che a sua volta è però l'estratto di una ricerca molto più ampia e articolata), tratto dal sito Judeche.org, con alcune aggiunte e integrazioni (evidenziate dal colore blu) dall’articolo pubblicato dallo stesso professor Shalomo in Yamim Acherim.


L’area in esame si trova a cavallo tra le province di Vibo e Reggio, grosso modo un triangolo con i vertici formati dai comuni di Arena, Galatro e Laureana di Borrello. La cartina attuale non inganni.
Un tempo questi tre universitas erano finitime: tutti gli altri paesi erano solo dei casali di loro pertinenza. La presenza ebraica è attestata in tutti e tre sia dai documenti governativi che dagli atti notarili, per non parlare della toponomastica che attesta la presenza di Giudecche ecc.
La presenza araba invece non viene mai menzionata eppure i lessemi arabi sono frequenti quasi quanto quelli ebraici. Questa, che all’apparenza potrebbe sembrare una contraddizione, in realtà è una risorsa importante nella definizione di una risposta.
Per ora limitiamoci a segnalarla. I lessemi ebraici ed arabi diffusi nell’area presentano un aspetto significativo in comune: la perfetta aderenza tra il significato ed il significante sia nel dialetto che nella lingua di partenza.
Con una leggera sbavatura talvolta nella forma per quella differenza di pronuncia che è tipica di tutte le lingue, oppure di una lingua usata da popolo altro! Ma analizziamo da vicino questi lessemi, ricordandoci di scomodare alfine il grande Primo Levi che ci darà una mano, tranne che in un punto significativo.
Nel suo racconto “Argento” tratto da “Il sistema periodico” egli fa una rassegna importante delle parole in uso tra gli Ebrei torinesi. Segnalava come buona parte di esse fossero in realtà dei dispregiativi in specie quelli riferiti alle persone. E valga il vero, perché anche tra i nostri lessemi gli spregiativi sono la maggioranza.
1) Primo Levi: Il sistema periodico. Incominciamo con l’esame di un lessema presente in tutte due, praticamente uguale nel significante e assolutamente identico nel significato: Shavérta in A. M. e Havertà in Levi che sottolinea “è voce ebraica storpiata, sia nella forma sia nel significato, un’arbitraria forma femminile di Havér = compagno, e vale domestica, ma contiene l’idea accessoria della donna di bassa estrazione, e di credenze e costumi diversi, che si è costretti ad albergare sotto il nostro tetto. La Havertà è malevolmente curiosa delle usanze e dei discorsi dei padroni di casa, tanto da obbligare questi a servirsi in sua presenza di un gergo particolare, di cui evidentemente fa parte il termine havertà medesimo.
Lo stesso lessema Attilio Milano lo ritrova nel giudaico-romanesco e a tal proposito scrive “ricalcando le numerose parole italiane che al femminile hanno una terminazione in tà, gli ebrei romani erano soliti prendere delle parole ebraiche maschili e - noncuranti di come fosse formato il femminile nella lingua di origine - ne creavano una speciale nella loro parlata, aggiungendovi la finale tà; così come da chaver hanno fatto chavertà (invece di chaverà)”.
Prima di passare in rassegna una parte di questo gergo particolare in uso nell’Alto Mesima, una domanda sorge spontanea: chi è questa “donna di bassa estrazione, e di credenze e costumi diversi, malevolmente curiosa ecc.”?
2) Sarà per caso una “guya”, lessema che riporta anche Levi e che conserva la stessa valenza negativa sia in ebraico che nel dialetto dell’A. M dove spesso viene associato ad un aggettivo irripetibile. Non è raro assuma il valore di persona che vive alle spalle degli altri.
Da qui, con l’aggiunta del prefisso in, deriva nguyare, nel senso di rovinare, perdere una persona.
Altro lessema interessante è Sharamideu: è un composto nel senso che è formato dal verbo ebraico Shar (Cantare) e Amidà, una preghiera che nel rito ortodosso è prima recitata dai fedeli in silenzio e poi ripetuta ad alta voce dallo chazzan. Il significato che ne deriva è quello di una persona sciocca, che compie cose prive di senso, che urtano il buon gusto e sono controproducenti. Ricorda un po’ quel modo dire yiddish per definire una persona senza sale nella zucca:”è uno che cade di schiena e si graffia il naso”.
2) Ibid. Mesciumiayu da mesciumad o mesummad che nel dialetto indica la persona che fa le cose di nascosto, il falso sembiante, che “nasconde la coda tra le gambe” non molto diverso quindi dall’uso nelle comunità ebraiche italiane per indicare i rinnegati.
Talonihu da talonud nel senso di sparlare di una persona, per sminuirne il prestigio o infangarne la memoria. Karavèja da Karavà persona insipida, di poco conto ecc.
Nzaccanutu da zhaqèn nel senso di invecchiato, simile quindi al zachenne del giudaico-romanesco.
Ciote da shoteh, nel senso di semplicione, scemo, che il Calorni attesta con identifico significato e nella forma sciotè tra gli ebrei mantovani.
Malamaziaju, sventura, parola composta dall’aggettivo italiano male e dal sostantivo ebraico mazal (fortuna). È presente anche nel bagitto livornese, così come za’arearlo (nel senso di angustiare) a cui corrisponde nell’A. M. zahariari.
Majishah, parola composta dal possessivo italiano sincopato ma e dal sostantivo ebraico isha (donna). È presente anche nel bagitto livornese tra le parole tabù per indicare la Madonna, seppur nella forma aissa. È un dispregiativo.
Rurù, rurà (bastardo, maledetto) dall’ebraico aruràh con identico significato.
Quasi tutti i lessemi che presentano una matrice ebraica hanno una valenza negativa e giustamente il Milano annota che queste parole “non vi sono introdotte a capriccio, ma per corrispondere a una necessità o a una opportunità. Necessità di prendere a prestito delle parole che non hanno il loro equivalente nella lingua del luogo, ed opportunità di servirsi di termini di gergo per velare il proprio pensiero in presenza di speciali ascoltatori”.
Anche la sintassi presenta i suoi riscontri ed i prestiti dall’ebraico. Mi limiterò qui a segnalarne solo alcuni. L’aggettivo in funzione di attributo spesso segue il nome a cui si riferisce. Se il nome ha l’articolo anche l’aggettivo presenta l’articolo. Es. A. M. ”Prendimi la sedia la piccola”.
Nel passaggio dal singolare al plurale spesso cambia la forma del nome, aggiungendo una vocale nella prima sillaba o sostituendola. Non è raro la parola cambi anche di genere. Ebr. laila - leilot / A. M. notta-nuattiIl possessivo posto come suffisso al sostantivo. Ebr. Avinu-Padre nostro/ A:M. Zianu-nostro zio.
Ho lasciato per ultimo gli arabismi perché suffragano in buona parte quella che è la mia tesi di fondo: le parole arabe vennero portate qui dagli Ebrei in fuga dal Nord Africa. Alcuni di essi magari prima si fermarono in Sicilia e poi passarono sul Continente dopo l’espulsione del 1492 o magari vi giunsero direttamente attratti dalle lusinghe del regno di Federico. Il richiamo era in realtà irresistibile qualora si pensi che durante il califfato almohade si “osteggiava apertamente la presenza di non-musulmani nel dar al-Islam, e talvolta prospettava loro la scelta tra la conversione e la morte, s’intende per coloro che avessero continuato a vivere nei territori almohadi e non avessero tentato la fuga”.
5) Di conseguenza, son molti quelli che scappano nel XIII secolo, anche perché l’area del Garbum(il Maghreb) in quel periodo era stato investito da una carestia devastante, dovuta alla siccità. Le conversioni comunque pare siano state numerose. Teniamola a mente questa situazione di terrore e di esodo perché ci tornerà utile nell’esame di alcuni arabismi.
Infatti, accanto ai numerosi lessemi che spesso conservano la purezza semantica originaria (basta citare quello più tristemente famoso di Mafia nel senso di bellezza, eleganza, prestanza fisica) altri ve ne sono che , storpiati, esprimono disprezzo. Magari proprio nei confronti di quel popolo (caso francamente singolare) e di quella lingua di cui sono dei calchi. Ne citerò solo alcuni
Caiccu probabilmente da Caid: Approfittatore;uno a cui piace sfruttare il prossimo.
Mahammetta (per la traduzione fate voi!) invece è l’essere del quale si ha una paura terribile. È quello che complica la vita degli uomini, anzi che spesso rende loro la vita impossibile. Un vero e proprio diavolo!
Arabbuni o meglio “fare le cose all’arabbuni”: in questa espressione si registra sia il raddoppio della lettera b (tipico del dialetto calabrese) che l’accrescitivo uni presente anche nel giudeo-arabo (sebbene nella forma un). La connotazione semantica comunque resta fortemente negativa, perché allude a cose fatte di fretta, con irruenza, senza la necessaria ponderazione. Praticamente a casaccio.
Un’altra parola dalla forte pregnanza semantica è Shesha. È presente sia nell’ebraico che nell’arabo. Nella prima lingua può avere diverse sfumature semantiche (diavolo-serpe;il numero sei, ecc. ). Tuttavia è l’arabo che suggerisce la traduzione più convincente: il copricapo in uso presso i musulmani del Nord Africa. Ancora una volta un rimando preciso a questa terra ed una connotazione negativa. Per cui “Fare le cose a shesha” significa “fare le cose a cappello” cioè a casaccio proprio come l’etimo “arabbuni”. ecc.
Anche l’onomastica presenta le sue lusinghe, ma bisogna procedere cauti perché il terreno è malfermo e “Il piede messo in fallo diventa caduta e la caduta precipizio” avvertiva Gongora.
La trascrizione dei nomi infatti spesso non era sicura.
“In altre parole qual’era la lingua, quali le assonanze o le comodità linguistiche, e a volte il capriccio dell’ufficiale, del notaio, che in quel momento decidevano come mettere sulle carte un suono diverso, un’aspirazione non conosciuta nella lingua latina o nel volgare”.
6) Molti lavoravano di fantasia, per cui poteva capitare che allo stesso nome ebraico corrispondessero più nomi in italiano e all’opposto un nome italiano traducesse diversi nomi ebraici. L’infaticabile (e compianto) Umberto Cassuto riportava il seguente esempio: Simone traduce sia Shemuel che Shim’on;mentre Mosè veniva reso Musà, Muscato, Moscato ecc.
7) Gli Ebrei erano soliti poi nei rapporti interni usare nomi appartenenti alla loro tradizione biblica o postbiblica e comunque ad essa assimilati;nei rapporti verso l’esterno invece solitamente scelgono un nome locale che corrisponde in qualche modo al nome ebraico.
8) Questa doppia nominazione si trova spesso trascritta nei documenti con il nome ebraico separato da quello latino o greco dall’espressione ha-nikrà oppure ha-mechunè.
Ma vediamo un attimo questi cognomi. Sono abbastanza diffusi sia quelli di diretta ascendenza biblica che quelli portati notoriamente da Ebrei.
Tra i primi riportiamo: David, Raffaele, Emanuele, Daniele, Simone, Gesuele, ecc. Tra i secondi Montagnese, Ciancio, Arieti, Tedesco, Lo Presti, ecc.
Quello che sorprende però (e conferma!) è la presenza di cognomi e soprattutto soprannomi che alludono direttamente al mondo ebraico, ma pur sempre attraverso la mediazione della lingua araba.
Tra i cognomi ne segnaliamo alcuni alquanto anomali e presenti in quest’area: il rarissimo Talomo, praticamente un hapax. L’orientalista Bruno Chiesa in un interessante saggio sul giudeo-arabo riporta: “Quanto alla lettera s, s, sono sostituite dalla t (=t), per cui si avrà talom per salom ”. Allo stesso modo Brahò presente come nome anche nella Genizah per Abramo. Altri invece lo fanno derivare da Baruch. Altro cognome interessante che rimanda al giudeo-arabo è Gioghà. Nel Maghreb si scrive djehà, ma si pronuncia giuhà. Lo stesso vale per l’altra versione araba di questo nome khojà, ma la pronuncia è sempre la stessa. Ciò che colpisce di questa parola è il significato in arabo:”deviare dalla retta via”. Esiste anche la maschera di juhà nel dialetto , ma questo esula per ora dal nostro lavoro.
I soprannomi poi sono ancora più numerosi dei cognomi ed occorre fare delle precisazioni importanti. Pur essendoci un chiaro rimando al giudeo-arabo di alcuni di essi, i fruitori ne ignorano ormai il significato originario, quello per cui magari son stati creati. È chiaro comunque che un tempo essi erano molto più importanti degli stessi cognomi, non foss’altro che per il fatto di non essere imposti dall’alto e dall’esterno, ma nascevano e morivano dentro la comunità di appartenenza;quindi erano molto sentiti e sovente di forte pregnanza semantica. Solitamente si tramandavano per diverse generazioni per via matrilineare.
Vediamone qualcuno:
Bushaccu: è un composto perché è formato dalla Kunya, cioè il prefisso arabo d’onore per indicare la paternità di qualcuno (in questo caso Abu) più la forma islamizzata per isaac
Tzera da zera: seme
Zizzu da aziza aziz: è di origine berbera ed indica il colore blu;ma è anche il nome di un luogo e di una tribù. Inoltre, di blu erano costretti a vestirsi gli Ebrei in alcune aree del Nord Africa. Questo colore verrà poi sostituito dal giallo.
Tzotta da zot: donna in senso spregiativo
Cariyyotto da cariot: cuscini
È probabile che gli Ebrei non conoscessero al-arabiyya ossia il corretto ed alto arabo, ma avessero una conoscenza limitata dell’arabo, una specie di dialetto locale. Attenzione! Conoscere però non vuol dire parlare, bensì usare. In questo senso ha ragione Benedetto Rocco, quando scrive che la maggior parte degli Ebrei avevano una conoscenza limitata alle parole più importanti. Il moresco parlato dagli Ebrei, influì sul dialetto lasciando alcuni arabismi.
9) La lingua è quindi una testimonianza irrinunciabile per una ricostruzione attenta ed attendibile delle comunità ebraiche del Sud Italia. Perché essa “ha rappresentato il mezzo fondamentale della conservazione della propria identità religiosa-culturale nel corso dei secoli per l’ebraismo”.
10) Ed il giudeo-arabo in tal senso gioca un ruolo fondamentale. A tal proposito Bruno Chiesa scrive: “l’impressione è che ci si trovi dinnanzi a un campo di ricerca pieno di promesse e pressoché sconfinato”. Anche se qualcuno accusò a suo tempo Joshua Blau (uno dei pionieri in questi studi) di “sionismo linguistico”. E ti pareva!
11) Non ci resta che chiudere con Primo Levi e con quel punto significativo che avevamo lasciato in sospeso. Nel suo racconto giustamente sottolineava che il gergo degli Ebrei torinesi era “un linguaggio di confine e di transizione” ma non gli affidava nessuna valenza storica.
12) Non sono d’accordo su questo ultimo aspetto, perché le parole spesso hanno una valenza storica più pregante di qualsiasi altra cosa. Per intendersi, la cultura materiale non ha lasciato nulla di importante sulla presenza degli Ebrei in quest’area remota della Calabria (o magari –lo spero- non è stata cercata bene) tranne che i soliti impolverati documenti spesso intraducibili e redatti da qualche avido ufficiale o distratto notaio. Tutto il resto magari è stato distrutto dalla violenza cieca e dal fanatismo degli uomini. Prima e soprattutto dopo l’espulsione.
Le parole no! Restano. E diventano pane di tutti, anche quando non ci son più quelli che le han lievitate nella gioia come nella sofferenza. E sono testimoni ben più attendibili e duraturi di tutte le altre fonti storiche. “Io sono infatti convinto che, se si può riuscir a seguire attraverso un lungo numero di secoli la sorte delle singole parole ebraiche introdottesi nella parlata dei vari gruppi di ebrei italiani, si può contemporaneamente giungere a provare che esse hanno avuto una eccezionale resistenza, nel senso che quelle che si rinvengono oggi sono le stesse che erano in uso nei secoli più lontani di cui si ha o si vorrebbe avere notizia”.
13) E magari mutano di senso ed esprimono disprezzo proprio nei confronti di quel popolo che le ha inventate. È il caso di Hodìu, che il Beccani ritrova anche nel Bagitto livornese per indicare l’ebreo;da Iehudi: un apporto linguistico secondo lui degli ebrei in fuga dal Portogallo.
14) Ma ormai il senso è ben altro: chiamare ad alta voce, gridare. Giustamente Umberto Fortis scrive che “solo quella parlata così ricca di allusioni e di sfumature particolari, avrebbe potuto dar accesso, al di là di ogni documento storico, ad un vero recupero del ‘volto’ minore, per così dire, della ‘piccola storia’del ghetto italiano, quasi un ritorno alle proprie più profonde origini”.
15) Fermo restando che a causa della sua povertà lessicale, della sua fragilità sintattica, del suo essere circoscritta a pochi campi semantici (quello del disprezzo per lo più e della chiusura verso l’esterno), questa parlata non fu mai “lo specchio di una civiltà completamente articolata, ma soltanto la faccia familiare e tradizionale di una vita orientata per il resto sui dialetti circostanti”.

16) Le parole restano quindi anche quando si è costretti al silenzio, come accadde ai marrani. In quel posto remoto dove la mano del tiranno non potrà mai giungere senza il nostro consenso: la memoria. “Memoriam quoque ipsam cum voce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset oblivisci quam tacere” scrive Tacito nell’ Agricola: “La memoria stessa, perfino, avremmo perso se fosse stato in nostro potere tacere come dimenticare”. Ma i marrani non dimenticarono.