Parashat Ki Tavo: Devarim (Deuteronomio) 26,1-29,8
Haftarah:Isaia 60,1-22 (sef.); Giosué 8,30-9,27 (it.)
Istruzioni di Moshè,
leggi della decima, resoconti e...
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Nell'era messianica si
vedrà come il male in realtà è bene e come le maledizioni in realtà sono
benedizioni
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La missione di Israel
nel mondo è quella di dare esempio di spiritualità e proprio questo merita il
rispetto altrui
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Il destino di Israel,
quello di essere la nazione spiritualmente più elevata, si avvererà con o
senza l’adesione volontaria da parte del popolo stesso
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L'importanza della
dedizione di questa tribù allo spirito e non alla materia era tale da
causarla di non partecipare alla distribuzione della Terra
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Un agricoltore non
avrebbe potuto gioire pienamente per il raccolto della terra che aveva già
ricevuto, se un altro collega ne era ancora privo
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Parashat Ki Tavo – Onestà verso le
proprie origini
Rav Pierpaolo Pinchas Punturello
Il senso profondo del proprio cammino e
l’onestà verso le proprie origini permeano profondamente l’apertura della
parashà di Ki Tavo.
La cerimonia dell’offerta delle primizie,
bikkurim, che si portavano al Tempio e si consegnavano al cohen era
accompagnata da una dichiarazione che era allo stesso tempo un preghiera di
ringraziamento, un momento di onestà identitaria e la presa di coscienza dei
propri limiti umani.
Deuteronomio 26, 4:
“Allora
il sacerdote prenderà il paniere dalle tue mani e lo deporrà davanti all’altare
dell’Eterno, il tuo DIO; e tu rispondendo dirai davanti all’Eterno, il tuo DIO:
“Mio padre era un Arameo sul punto di morire; egli scese in Egitto e vi dimorò
come straniero con poca gente, e là diventò una nazione grande, potente e
numerosa.
Ma gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero e ci imposero una
dura schiavitú.
Allora gridammo all’Eterno, il DIO dei nostri padri, e l’Eterno
udì la nostra voce, vide la nostra afflizione, il nostro duro lavoro e la
nostra oppressione. Così l’Eterno ci fece uscire dall’Egitto con potente mano e
con braccio steso, con cose spaventose e con prodigi e segni; ci ha poi
condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorre latte e
miele.
Ed ora, ecco, io ho portato le primizie dei frutti del suolo che tu, o
Eterno, mi hai dato!”.
Il percorso che porta al ringraziamento
per i frutti raccolti inizia con una dichiarazione di onestà verso le proprie
origini: “ Mio padre era un arameo…”. Non c’è epica, non c’è mito in una sana
memoria ebraica, non c’è il racconto di una lupa che allatta due gemelli o di
divinità che partoriscono figli semidei: mio padre era un arameo, un nomade,
una persona in pericolo di vita. Non era un nobile, non era un banchiere, non
era un possidente.
Una volta stabilito un equilibrio sano
verso il ricordo di ciò che eravamo, entra il gioco il ricordo di ciò che è
accaduto, della persecuzione: l’Egitto.
Nel tragico momento della schiavitù e
della persecuzione il nostro grido è stato ascoltato ed arrivata la libertà per
mezzo dell’intervento divino ed a Lui che va il nostro ringraziamento e la
nostra gratitudine che diviene quindi un elemento identitario che accompagna
l’offerta del nostro lavoro.
L’ebreo nel Tempio, nel momento esatto in
cui offriva le primizie all’Eterno, idealmente ripercorreva le tappe della
propria storia, in maniera trasparente ed onesta, così come onestamente
ringraziava Dio per il prodotto del lavoro dei campi, che pur passando per le
mani umane, restava e resta un dono di Dio.
La parte essenziale della Parashà odierna è occupata dall'ampia e solenne
esposizione fatta da Mosè al popolo circa le conseguenze che saranno per
derivare ad Israele dall'osservanza o meno ai comandi della Torà. Questa Parashà, come già l'ultima del Levitico, di cui
echeggia i motivi amplificandoli, è chiamata popolarmente la Parashà delle
Tokhechoth, cioè degli ammonimenti ed è infatti una pagina che per tre
quarti è dedicata ai solenni avvertimenti, e ai chiari e gravi presagi su ciò
che attenderà Israele se non saprà essere fedele alla parola di Dio. È una
pagina biblica che non si può leggere senza rimanere fortemente impressionati,
tanto severa si fa la predizione dei castighi in certi passi, da sembrare quasi
eccessiva. Ma appunto in tale severità, sta anche la
veridicità di quanto la Torà proclama. A nessuno può sfuggire l'importanza
enorme di questo poderoso discorso di Mosè, specialmente quando si pensi che in
sostanza anche la seconda parte del nostro Shemàespone in brevissima sintesi e accenna ai
motivi che qui sono invece più ampliamente e dettagliatamente sviluppati. Non
certo senza un profondo significato quella seconda parte dello Shemà è stata scelta dai nostri maestri per la
nostra lettura giornaliera e non certo senza un alto fine. Mosè ha riservato proprio ad
uno dei suoi ultimi discorsi questo
grave e solenne annuncio. Oramai l'esposizione delle Mizvoth è finita, ormai il popolo è giunto
al termine del suo lungo viaggio, ormai anche il sommo legislatore è giunto al
termine del suo lungo magistero e sente tutta l'enorme responsabilità che grava
su di lui in questo momento
mentre egli sta per distaccarsi
per sempre dal suo popolo. È appunto nella coscienza di questa responsabilità
che egli dedica quest'ultima
pagina del suo grande libro a una serie di discorsi ammonitori,
uno più sublime dell'altro e che culmineranno nel discorso poetico della Parashà di Haazìnu. Il
primo di questi solenni discorsi è appunto quello odierno, nel quale ancora una
volta vengono prospettati al popolo gli elementi del
patto di fedeltà a Dio che Israele ha concluso. Ma a questi elementi si
aggiunge anche il preannunzio della benedizione e della maledizione, in caso di obbedienza o di ribellione al patto divino.
Due vie sono innanzi ad Israele, due vie sono a lui chiaramente
tracciate: la via del bene e del male, della benedizione e della maledizione,
della vita e della morte. Israele è libero di scegliere, ma sappia fin da ora che cosa l'attende nel futuro.
Ciò che egli ha impegnato in questo patto non è cosa
che si riferisce alla vita di ogni giorno, è cosa che trascende il mondo e
investe l'avvenire dell'umanità. Israele ha impegnato sé stesso per essere popolo sacerdote, popolo
profeta per le genti: "E il Signore t'ha fatto oggi dichiarare che gli
sarai un popolo possesso speciale" (Deut. XXVI, 18). Israele ha impegnato se stesso per essere
- ad ogni costo - paladino del verbo di Dio in mezzo ai popoli. Se egli verrà
meno a questo suo compito, la sua esistenza terrena quasi non ha più valore,
perché viene a mancare il motivo per la vita di questo popolo e quindi le più
gravi sciagure si abbatteranno su questo popolo ribelle, recalcitrante ad adempiere la volontà del Signore. Queste sciagure, qui
contenute in forma di profezia, comprendono il popolo e la terra, come i due
elementi per la realizzazione dell'Idea Divina:
queste sciagure si abbatteranno sulla gente
ebraica a gradi, ma con un inesorabile crescendo, finché il popolo sarà colpito
dalla suprema punizione:
l'esilio, l'allontanamento dalla terra di Dio.
"E ti disperderà il
Signore fra tutte le genti, da un estremo all'altro della terra... e in mezzo a
quelle genti non avrai requie, e non avrà riposo la pianta del tuo piede e là
il Signore ti darà cuore tremante, struggimento d'occhi e languore d'anima
ecc..." (Deut.
XXIX, 24 e segg.).
Viene da piangere, cari
fratelli, a rileggere queste parole, viene da
piangere quando si pensa alla realtà della vita di Israele
e che è in così impressionante coincidenza con la parola biblica. Quasi una superiore prova di questa divina verità della Torà,
che resta incisa, oltre che sulle pagine, sui cuori e sulle carni doloranti del
popolo. Viene da piangere, dicevo, e da meditare e forse perciò la Torà ha
voluto preannunciare tutto quello che poi si sarebbe avverato, perché, dalla
più dura verità della vita e dal pianto di essa, Israele potesse risorgere all'altra verità più alta e
sublime, a quella nuova vita che ogni giorno, ogni ora egli può instaurare nel
mondo.
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