Visto il tema di
quest’anno della Giornata europea della cultura ebraica, voglio offrire un mio
modesto contributo all’argomento, sintesi di una sintesi di un lavoro più ampio
che avevo, ed ho, intenzione di compilare al più presto, con l’aiuto di Dio.
Nonostante
molte ricerche, più o meno serie, non ci sono, a mio parere, riscontri
convincenti di presenza di termini ebraici nelle parlate della Calabria, fatta eccezione
di alcune parole liturgiche, entrate però nell’uso tramite i riti cristiani: Alleluja,
Ammènn(e),
Osanna.
Oreste
Dito, nel suo La storia calabrese e la dimora degli Ebrei in Calabria dal sec. V
alla seconda metà del sec. XVI, riporta per la frazione Vaccarizzo di Montalto
Uffugo (CS), il termine "mortafà", originariamente una tassa
pagata dagli ebrei, usato per indicare il pagamento dovuto all’arciprete per la
celebrazione dei funerali; mi è stato oralmente comunicato che tale termine è
presente in altre parlate cosentine. Probabilmente l’adozione di questo termine
è stata facilitata dall’assonanza di mort(afà) con l’occasione funebre.
Altri
due termini di possibile origine ebraica mi sono stati segnalati come presenti
nella lingua dei calderai di Dipignano, l’ammascante: togu (che significa bello,
dall’ebraico tov, che significa buono)
e zaccagnu (coltello, forse dall’ebraico sikan,
che significa aguzzo). Ma avrei
qualche dubbio, in quanto tali termini sono presenti in vari gerghi e dialetti
in tutta Italia, e soprattutto per il secondo (presente altrove come siccagnu)
propenderei più per la radice latina sica;
in qualunque caso non sarebbero termini esclusivi della Calabria.
Di
un’ampia presenza di termini ebraici in un’area particolare della Calabria tra
le province di Vibo e Reggio, tra i comuni di Arena, Galatro e Laureana di
Borrello, parla invece il professor Ariel Shalomo.
Onestamente, nella mia ignoranza, trovo però poco convincenti molte delle sue
tesi, che a mio parere trovano una migliore e più coerente spiegazione in un’origine
latina o greca di alcune etimologie, o in fenomeni fonetici propri del
calabrese, che nulla hanno a che vedere con l’ebraico. Ho cercato di mettermi
anche in contatto con lui per avere dei chiarimenti, ma purtroppo non ci sono
riuscito.
Trovo
però abbastanza credibile la sua tesi secondo la quale molte delle parole
di origine araba (e sono tante!) presenti nelle nostre parlate possano essere giunte
a noi attraverso la mediazione di ebrei di lingua araba provenienti dalla
Sicilia e stanziatisi in Calabria, o che con la Calabria commerciavano. Questo
perché non risultano presso di noi stanziamenti consistenti e prolungati di
popolazioni arabe, se si escludono i musulmani di Lucera portati da Federico II
di Svevia, presto assimilati, ed alcuni emirati come quelli di Squillace, Santa
Severina, Amantea, Catanzaro, ecc. ecc.; ma furono di breve durata e il loro
carattere di occupazione militare difficilmente può spiegare la mole di
terminologia araba impostasi da noi.
Non
dimentichiamo però che due paesi uno nel Reggino (Bagaladi) e uno nel Cosentino
(Brahalla, poi divenuta Altomonte) prendono nome da termini arabi e anche nella
Cattolica di Stilo sono presenti iscrizioni in arabo.
Resta
quindi un interessante campo di ricerca ancora ai suoi inizi.
Abbiamo
invece qualche esempio accertato (ma sicuramente più numerosi sono quelli che
nel corso dei secoli si sono persi) di fenomeni inversi, e cioè di parole
calabresi presenti nell’ebraico parlato in Calabria. Questo fenomeno è molto
interessante perché ci mostra sia la possibile formazione (iniziale?) di una
lingua calabrogiudaica, sia la profonda radicazione degli ebrei nella nostra
regione, nella quale evidentemente non erano ormai più stranieri.
1)
Nel libro di Ron Barkai, A
History of Jewish Gynaecological Texts, viene citato un manoscritto
ebraico, custodito nella Biblioteca Palatina di Parma, traduzione di testi
medici latini, che riporta in ebraico l’annotazione “ed è chiamata in lingua calabrese
nakn
(cioè nnaca = culla)”. Vediamo quindi
che per spiegare un termine ebraico si ricorre ad uno calabrese, ritenuto più
comprensibile dai suoi lettori.
2)
Un testo molto interessante sono "I patti
prematrimoniali di Simeri", del professor Giancarlo Lacerenza, in Sefer Yuhasin -
Nuova serie, n. 1.
Qui
abbiamo, tra i vari accordi che precedono il matrimonio, anche l’elenco del
corredo che la sposa porterà in dote, e praticamente tutti i nomi di tutto il
corredo sono in calabrese (scritto con caratteri ebraici): cuscinu, matarazzu,
cutra, guardanappi…
Al
di là di questi pochi esempi (ed eventuali probabilità) mi sembra che più che
di prestiti o influenze ebraiche nelle nostre parlate, si possa parlare di
parallelismi, che però non riguardano solo calabrese ed ebraico, ma aree più o
meno ampie del Mediterraneo, e non solo. Tali paralleli coprono tutti i vari
aspetti delle due lingue: fonetica, grammatica, sintassi ed espressioni
idiomatiche.
1) Fonetica. Sia nell’ebraico
che nel calabrese (almeno in quello parlato dalle mie parti) si ha una grande
mobilità ed alternanza dei suoni B/V e P/F.
Il suono V
diventa spesso B in calabrese: “Vegnu” (vengo),
ma “on Begnu” (non vengo) e “vaju e’
Begnu” (vado e vengo); abbiamo però
un’inversione rispetto all’ebraico, in cui la bet iniziale suona (generalmente) B, al contrario che da noi.
Concordano però le due lingue nel caso della B/bet raddoppiata: “e’ Begnu”, analogamente alla bet con il dagesh.
2) Grammatica: Analoga è la funzione
nelle due lingue del raddoppiamento di una parola, sebbene in calabrese abbia
un valore semantico più ampio (“casa casa”
= in giro per tutta la casa; “casi
casi” = di casa in casa; ed altro
ancora). Così abbiamo l’ebraico “nekavim nekavim”, analogo al calabrese “tripa
tripa” (pieno di fori); oppure il
valore accrescitivo: “meod meod” = “assà assai” (moltissimo) o “gadol gadol” = “randa randa” (grandissimo). Altro modo di rendere il superlativo in ebraico e
calabrese è l’uso del termine molto,
per cui grandissimo può anche dirsi “gadol
meod” = “rand’assai”: in tutte e due le lingue l’avverbio molto segue l’aggettivo, a differenza dell’italiano, in cui lo
precede (molto grande).
Altra analogia è
la quasi inesistenza dell’avverbio di modo, che è sostituito dall’aggettivo
corrispondente. Così, mentre in italiano avremo l’aggettivo buono e l’avverbio bene (è buono/sta bene), nelle nostre due lingue
abbiamo un termine unico, “tov” per l’ebraico, “bonu” per il calabrese.
Infine, analogo,
ma presente in tutta l’Italia meridionale, in Grecia ed in altre lingue dell’area
balcanica, è l’uso del possessivo con i nomi di parentela (comune nel
calabrese, onnipresente nell’ebraico antico, più sporadico in quello moderno),
che non è, come nell’italiano, un aggettivo separato, ma un suffisso: mio padre, contro “avì” = “pàtrama”.
3) Sintassi. Un solo
esempio di sintassi mi viene in mente, e cioè l’uso del pronome relativo che/cui.
Questa doppia forma non esiste né in ebraico né in calabrese, in cui esiste un
solo termine, rispettivamente “ashèr” e “chi’”. Abbiamo quindi che in italiano
si dirà il ragazzo di cui ti parlavo,
la donna a cui ho dato il mio libro,
mentre sia in ebraico che in calabrese si useranno formule come il ragazzo che ti parlavo di lui, la donna che le ho dato il mio libro.
4)
Idiomatismi. Molte sono le analogie a livello
idiomatico, ma anche qui riguardano termini ed espressioni che sono comuni ad
altre parlate italiane ed a varie lingue, tra cui anche l’arabo.
Abbiamo l’espressione
ebraica “Kadosh Baruch Hu”, tradotta quasi perfettamente con “Santu Benadittu!”,
usato come invocazione; simile il caso “Baruch HaShen” (“Dio sia benedetto”,
che trova analogia nell’esclamazione benaugurale (o di sorpresa) “Benadica!”.
In tutte e due
le lingue, quando si nomina un defunto non se ne dice soltanto il nome, ma si
aggiunge sempre un’espressione laudativa “Zichronò (Zichronah, se si tratta di
una donna) livrachah (letteralmente la
sua memoria sia di benedizione) per l’ebraico, un più sintetico “Bonànima”
per il calabrese.
Ugualmente una
formula deprecativa si usa (si usava) parlando di eventi nefasti, augurandosi
che non avvengano “Chas veShalom” (Pietà
e pace) o analoghi per l’ebraico “N sia mai!” (Non sia mai) o più raramente in determinati contesti “Fora gabbu” o
“Fora maloccju/Formaloccju” (Via dall’invidia/dal
malocchio).
Infine, quando
si parla del futuro l’ebreo osservante non è mai assertivo, ma sempre mette il
futuro nelle mani di Dio, dicendo “beEzrat haShem” (con l’aiuto di Dio), come fa il devoto cattolico calabrese, dicendo
“Si’ Ddiu vola”, “Comu vola Ddiu” (se Dio
vuole, come vuole Dio) o il buon musulmano con il suo “inshAllah”.
Concludo
questa mia prima parte con una radice e tre parole, che potrebbero avere un’origine
ebraica, ma anche araba, e ritorniamo al discorso che ho fatto più su:
servirebbe che di questo si occupasse qualcuno che conosce tutte e due le
lingue abbastanza bene, io posso solo annaspare e proporre dei temi.
La
radice è la semitica B-T-L, molto presente nell’ebraico nella forma “vatalah”
(dicevo su che la bet iniziale in
ebraico ha quasi sempre il suono V), ma conosciuta anche nell’arabo.
Nelle
nostre parole questa radice ha dato origine almeno a tre parole ed espressioni:
“n-vàtula” (invano), perfettamente
corrispondente all’ebraico “levatalah”, spesso usata nell’espressione “berachah
levatalah”, parlando di una benedizione che viene detta priva di un proprio
oggetto (sono concetti che richiederebbero una spiegazione più o meno
complessa, che in questo contesto non interessa); abbiamo poi il nome “vatalaru”,
per definire uno sciocco, una persona che parla a vuoto, senza dire nulla, o di
cose superficiali e vane; infine il verbo “vatalijara”, che esprime il
comportamento del “vatalaru”.
Per
la relativa frequenza di questo termine nella lingua ebraica, io sarei portato
a pensare che questi termini siano giunti alle nostre parlate proprio grazie
agli ebrei e non agli arabi, ma, come dicevo prima, per chiarire la questione
se ne dovrebbe occupare qualcuno esperto delle due lingue, e non solo a livello
strettamente linguistico, ma anche storico.
Per
ora mi fermo qui, spero in un futuro non troppo lontano (beEzrat H”, si’ Ddiu
vola!) di poter affrontare altri temi, sempre relativi ai paralleli tra ebraico
e calabrese.
Uno
di carattere linguistico (La ienti de Sionne).
Uno
storico, su cui però ho poco da aggiungere, ed è la filastrocca di "Pesach Unochi sa?".
Di
un parallelismo biblico, Pana e mantu/Il viaggio di Yaakov, mi sono già occupato precedentemente, e qui non ho molto da aggiungere.
Qualcosa
di più potrò scrivere invece su un altro parallello biblico, il celebre "Faremo
e ascolteremo".
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