Calabria judaica - Sud ebraico

Calabria judaica ~ Sud ebraico
Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria
con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione

Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé.
La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu.
Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta.
Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne).
Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; a
ttraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.

IN PRIMO PIANO: eventi e appuntamenti

27 gennaio 2019: Giorno della memoria

c

c

giovedì 15 settembre 2016

Ebraico e calabrese: analogie e paralleli linguistici



Visto il tema di quest’anno della Giornata europea della cultura ebraica, voglio offrire un mio modesto contributo all’argomento, sintesi di una sintesi di un lavoro più ampio che avevo, ed ho, intenzione di compilare al più presto, con l’aiuto di Dio.

Nonostante molte ricerche, più o meno serie, non ci sono, a mio parere, riscontri convincenti di presenza di termini ebraici nelle parlate della Calabria, fatta eccezione di alcune parole liturgiche, entrate però nell’uso tramite i riti cristiani: Alleluja, Ammènn(e), Osanna.
Oreste Dito, nel suo La storia calabrese e la dimora degli Ebrei in Calabria dal sec. V alla seconda metà del sec. XVI, riporta per la frazione Vaccarizzo di Montalto Uffugo (CS), il termine "mortafà", originariamente una tassa pagata dagli ebrei, usato per indicare il pagamento dovuto all’arciprete per la celebrazione dei funerali; mi è stato oralmente comunicato che tale termine è presente in altre parlate cosentine. Probabilmente l’adozione di questo termine è stata facilitata dall’assonanza di mort(afà) con l’occasione funebre.
Altri due termini di possibile origine ebraica mi sono stati segnalati come presenti nella lingua dei calderai di Dipignano, l’ammascante: togu (che significa bello, dall’ebraico tov, che significa buono) e zaccagnu (coltello, forse dall’ebraico sikan, che significa aguzzo). Ma avrei qualche dubbio, in quanto tali termini sono presenti in vari gerghi e dialetti in tutta Italia, e soprattutto per il secondo (presente altrove come siccagnu) propenderei più per la radice latina sica; in qualunque caso non sarebbero termini esclusivi della Calabria.

Di un’ampia presenza di termini ebraici in un’area particolare della Calabria tra le province di Vibo e Reggio, tra i comuni di Arena, Galatro e Laureana di Borrello, parla invece il professor Ariel Shalomo. Onestamente, nella mia ignoranza, trovo però poco convincenti molte delle sue tesi, che a mio parere trovano una migliore e più coerente spiegazione in un’origine latina o greca di alcune etimologie, o in fenomeni fonetici propri del calabrese, che nulla hanno a che vedere con l’ebraico. Ho cercato di mettermi anche in contatto con lui per avere dei chiarimenti, ma purtroppo non ci sono riuscito.
Trovo però abbastanza credibile la sua tesi secondo la quale molte delle parole di origine araba (e sono tante!) presenti nelle nostre parlate possano essere giunte a noi attraverso la mediazione di ebrei di lingua araba provenienti dalla Sicilia e stanziatisi in Calabria, o che con la Calabria commerciavano. Questo perché non risultano presso di noi stanziamenti consistenti e prolungati di popolazioni arabe, se si escludono i musulmani di Lucera portati da Federico II di Svevia, presto assimilati, ed alcuni emirati come quelli di Squillace, Santa Severina, Amantea, Catanzaro, ecc. ecc.; ma furono di breve durata e il loro carattere di occupazione militare difficilmente può spiegare la mole di terminologia araba impostasi da noi.
Non dimentichiamo però che due paesi uno nel Reggino (Bagaladi) e uno nel Cosentino (Brahalla, poi divenuta Altomonte) prendono nome da termini arabi e anche nella Cattolica di Stilo sono presenti iscrizioni in arabo.
Resta quindi un interessante campo di ricerca ancora ai suoi inizi.

Abbiamo invece qualche esempio accertato (ma sicuramente più numerosi sono quelli che nel corso dei secoli si sono persi) di fenomeni inversi, e cioè di parole calabresi presenti nell’ebraico parlato in Calabria. Questo fenomeno è molto interessante perché ci mostra sia la possibile formazione (iniziale?) di una lingua calabrogiudaica, sia la profonda radicazione degli ebrei nella nostra regione, nella quale evidentemente non erano ormai più stranieri.
1) Nel libro di Ron Barkai, A History of Jewish Gynaecological Texts, viene citato un manoscritto ebraico, custodito nella Biblioteca Palatina di Parma, traduzione di testi medici latini, che riporta in ebraico l’annotazione “ed è chiamata in lingua calabrese nakn (cioè nnaca = culla)”. Vediamo quindi che per spiegare un termine ebraico si ricorre ad uno calabrese, ritenuto più comprensibile dai suoi lettori.
2) Un testo molto interessante sono "I patti prematrimoniali di Simeri", del professor Giancarlo Lacerenza, in Sefer Yuhasin - Nuova serie, n. 1.
Qui abbiamo, tra i vari accordi che precedono il matrimonio, anche l’elenco del corredo che la sposa porterà in dote, e praticamente tutti i nomi di tutto il corredo sono in calabrese (scritto con caratteri ebraici): cuscinu, matarazzu, cutra, guardanappi…

Al di là di questi pochi esempi (ed eventuali probabilità) mi sembra che più che di prestiti o influenze ebraiche nelle nostre parlate, si possa parlare di parallelismi, che però non riguardano solo calabrese ed ebraico, ma aree più o meno ampie del Mediterraneo, e non solo. Tali paralleli coprono tutti i vari aspetti delle due lingue: fonetica, grammatica, sintassi ed espressioni idiomatiche.
1) Fonetica. Sia nell’ebraico che nel calabrese (almeno in quello parlato dalle mie parti) si ha una grande mobilità ed alternanza dei suoni B/V e P/F.
Il suono V diventa spesso B in calabrese: “Vegnu” (vengo), ma “on Begnu” (non vengo) e “vaju e’ Begnu” (vado e vengo); abbiamo però un’inversione rispetto all’ebraico, in cui la bet iniziale suona (generalmente) B, al contrario che da noi. Concordano però le due lingue nel caso della B/bet raddoppiata: “e’ Begnu”, analogamente alla bet con il dagesh.
2) Grammatica: Analoga è la funzione nelle due lingue del raddoppiamento di una parola, sebbene in calabrese abbia un valore semantico più ampio (“casa casa = in giro per tutta la casa; “casi casi” = di casa in casa; ed altro ancora). Così abbiamo l’ebraico “nekavim nekavim”, analogo al calabrese “tripa tripa” (pieno di fori); oppure il valore accrescitivo: “meod meod” = “assà assai” (moltissimo) o “gadol gadol” = “randa randa” (grandissimo). Altro modo di rendere il superlativo in ebraico e calabrese è l’uso del termine molto, per cui grandissimo può anche dirsi “gadol meod” = “rand’assai”: in tutte e due le lingue l’avverbio molto segue l’aggettivo, a differenza dell’italiano, in cui lo precede (molto grande).
Altra analogia è la quasi inesistenza dell’avverbio di modo, che è sostituito dall’aggettivo corrispondente. Così, mentre in italiano avremo l’aggettivo buono e l’avverbio bene (è buono/sta bene), nelle nostre due lingue abbiamo un termine unico, “tov” per l’ebraico, “bonu” per il calabrese.
Infine, analogo, ma presente in tutta l’Italia meridionale, in Grecia ed in altre lingue dell’area balcanica, è l’uso del possessivo con i nomi di parentela (comune nel calabrese, onnipresente nell’ebraico antico, più sporadico in quello moderno), che non è, come nell’italiano, un aggettivo separato, ma un suffisso: mio padre, contro “avì” = “pàtrama”.
3) Sintassi. Un solo esempio di sintassi mi viene in mente, e cioè l’uso del pronome relativo che/cui. Questa doppia forma non esiste né in ebraico né in calabrese, in cui esiste un solo termine, rispettivamente “ashèr” e “chi’”. Abbiamo quindi che in italiano si dirà il ragazzo di cui ti parlavo, la donna a cui ho dato il mio libro, mentre sia in ebraico che in calabrese si useranno formule come il ragazzo che ti parlavo di lui, la donna che le ho dato il mio libro.
4) Idiomatismi. Molte sono le analogie a livello idiomatico, ma anche qui riguardano termini ed espressioni che sono comuni ad altre parlate italiane ed a varie lingue, tra cui anche l’arabo.
Abbiamo l’espressione ebraica “Kadosh Baruch Hu”, tradotta quasi perfettamente con “Santu Benadittu!”, usato come invocazione; simile il caso “Baruch HaShen” (“Dio sia benedetto”, che trova analogia nell’esclamazione benaugurale (o di sorpresa) “Benadica!”.
In tutte e due le lingue, quando si nomina un defunto non se ne dice soltanto il nome, ma si aggiunge sempre un’espressione laudativa “Zichronò (Zichronah, se si tratta di una donna) livrachah (letteralmente la sua memoria sia di benedizione) per l’ebraico, un più sintetico “Bonànima” per il calabrese.
Ugualmente una formula deprecativa si usa (si usava) parlando di eventi nefasti, augurandosi che non avvengano “Chas veShalom” (Pietà e pace) o analoghi per l’ebraico “N sia mai!” (Non sia mai) o più raramente in determinati contesti “Fora gabbu” o “Fora maloccju/Formaloccju” (Via dall’invidia/dal malocchio).
Infine, quando si parla del futuro l’ebreo osservante non è mai assertivo, ma sempre mette il futuro nelle mani di Dio, dicendo “beEzrat haShem” (con l’aiuto di Dio), come fa il devoto cattolico calabrese, dicendo “Si’ Ddiu vola”, “Comu vola Ddiu” (se Dio vuole, come vuole Dio) o il buon musulmano con il suo “inshAllah”.

Concludo questa mia prima parte con una radice e tre parole, che potrebbero avere un’origine ebraica, ma anche araba, e ritorniamo al discorso che ho fatto più su: servirebbe che di questo si occupasse qualcuno che conosce tutte e due le lingue abbastanza bene, io posso solo annaspare e proporre dei temi.
La radice è la semitica B-T-L, molto presente nell’ebraico nella forma “vatalah” (dicevo su che la bet iniziale in ebraico ha quasi sempre il suono V), ma conosciuta anche nell’arabo.
Nelle nostre parole questa radice ha dato origine almeno a tre parole ed espressioni: “n-vàtula” (invano), perfettamente corrispondente all’ebraico “levatalah”, spesso usata nell’espressione “berachah levatalah”, parlando di una benedizione che viene detta priva di un proprio oggetto (sono concetti che richiederebbero una spiegazione più o meno complessa, che in questo contesto non interessa); abbiamo poi il nome “vatalaru”, per definire uno sciocco, una persona che parla a vuoto, senza dire nulla, o di cose superficiali e vane; infine il verbo “vatalijara”, che esprime il comportamento del “vatalaru”.
Per la relativa frequenza di questo termine nella lingua ebraica, io sarei portato a pensare che questi termini siano giunti alle nostre parlate proprio grazie agli ebrei e non agli arabi, ma, come dicevo prima, per chiarire la questione se ne dovrebbe occupare qualcuno esperto delle due lingue, e non solo a livello strettamente linguistico, ma anche storico.

Per ora mi fermo qui, spero in un futuro non troppo lontano (beEzrat H”, si’ Ddiu vola!) di poter affrontare altri temi, sempre relativi ai paralleli tra ebraico e calabrese.
Uno di carattere linguistico (La ienti de Sionne).
Uno storico, su cui però ho poco da aggiungere, ed è la filastrocca di "Pesach Unochi sa?".
Di un parallelismo biblico, Pana e mantu/Il viaggio di Yaakov, mi sono già occupato precedentemente, e qui non ho molto da aggiungere.
Qualcosa di più potrò scrivere invece su un altro parallello biblico, il celebre "Faremo e ascolteremo".

Nessun commento: