Calabria judaica - Sud ebraico

Calabria judaica ~ Sud ebraico
Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria
con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione

Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé.
La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu.
Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta.
Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne).
Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; a
ttraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.

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mercoledì 28 settembre 2016

Lessemi semitici in un'area della Calabria

In un recente post (Ebraico e calabrese: analogie e paralleli linguistici) citavo l’articolo del professor Ariel Shalomo, sulla presenza di termini ebraici in un’area della Calabria tra le province di Vibo e Reggio. Affermavo di trovare poco convincenti alcune sue ipotesi, che a mio parere trovano una migliore e più coerente spiegazione in un’origine latina o greca di alcune etimologie, o in fenomeni fonetici propri del calabrese. Vi propongo qui l’articolo integrale (che a sua volta è però l'estratto di una ricerca molto più ampia e articolata), tratto dal sito Judeche.org, con alcune aggiunte e integrazioni (evidenziate dal colore blu) dall’articolo pubblicato dallo stesso professor Shalomo in Yamim Acherim.


L’area in esame si trova a cavallo tra le province di Vibo e Reggio, grosso modo un triangolo con i vertici formati dai comuni di Arena, Galatro e Laureana di Borrello. La cartina attuale non inganni.
Un tempo questi tre universitas erano finitime: tutti gli altri paesi erano solo dei casali di loro pertinenza. La presenza ebraica è attestata in tutti e tre sia dai documenti governativi che dagli atti notarili, per non parlare della toponomastica che attesta la presenza di Giudecche ecc.
La presenza araba invece non viene mai menzionata eppure i lessemi arabi sono frequenti quasi quanto quelli ebraici. Questa, che all’apparenza potrebbe sembrare una contraddizione, in realtà è una risorsa importante nella definizione di una risposta.
Per ora limitiamoci a segnalarla. I lessemi ebraici ed arabi diffusi nell’area presentano un aspetto significativo in comune: la perfetta aderenza tra il significato ed il significante sia nel dialetto che nella lingua di partenza.
Con una leggera sbavatura talvolta nella forma per quella differenza di pronuncia che è tipica di tutte le lingue, oppure di una lingua usata da popolo altro! Ma analizziamo da vicino questi lessemi, ricordandoci di scomodare alfine il grande Primo Levi che ci darà una mano, tranne che in un punto significativo.
Nel suo racconto “Argento” tratto da “Il sistema periodico” egli fa una rassegna importante delle parole in uso tra gli Ebrei torinesi. Segnalava come buona parte di esse fossero in realtà dei dispregiativi in specie quelli riferiti alle persone. E valga il vero, perché anche tra i nostri lessemi gli spregiativi sono la maggioranza.
1) Primo Levi: Il sistema periodico. Incominciamo con l’esame di un lessema presente in tutte due, praticamente uguale nel significante e assolutamente identico nel significato: Shavérta in A. M. e Havertà in Levi che sottolinea “è voce ebraica storpiata, sia nella forma sia nel significato, un’arbitraria forma femminile di Havér = compagno, e vale domestica, ma contiene l’idea accessoria della donna di bassa estrazione, e di credenze e costumi diversi, che si è costretti ad albergare sotto il nostro tetto. La Havertà è malevolmente curiosa delle usanze e dei discorsi dei padroni di casa, tanto da obbligare questi a servirsi in sua presenza di un gergo particolare, di cui evidentemente fa parte il termine havertà medesimo.
Lo stesso lessema Attilio Milano lo ritrova nel giudaico-romanesco e a tal proposito scrive “ricalcando le numerose parole italiane che al femminile hanno una terminazione in tà, gli ebrei romani erano soliti prendere delle parole ebraiche maschili e - noncuranti di come fosse formato il femminile nella lingua di origine - ne creavano una speciale nella loro parlata, aggiungendovi la finale tà; così come da chaver hanno fatto chavertà (invece di chaverà)”.
Prima di passare in rassegna una parte di questo gergo particolare in uso nell’Alto Mesima, una domanda sorge spontanea: chi è questa “donna di bassa estrazione, e di credenze e costumi diversi, malevolmente curiosa ecc.”?
2) Sarà per caso una “guya”, lessema che riporta anche Levi e che conserva la stessa valenza negativa sia in ebraico che nel dialetto dell’A. M dove spesso viene associato ad un aggettivo irripetibile. Non è raro assuma il valore di persona che vive alle spalle degli altri.
Da qui, con l’aggiunta del prefisso in, deriva nguyare, nel senso di rovinare, perdere una persona.
Altro lessema interessante è Sharamideu: è un composto nel senso che è formato dal verbo ebraico Shar (Cantare) e Amidà, una preghiera che nel rito ortodosso è prima recitata dai fedeli in silenzio e poi ripetuta ad alta voce dallo chazzan. Il significato che ne deriva è quello di una persona sciocca, che compie cose prive di senso, che urtano il buon gusto e sono controproducenti. Ricorda un po’ quel modo dire yiddish per definire una persona senza sale nella zucca:”è uno che cade di schiena e si graffia il naso”.
2) Ibid. Mesciumiayu da mesciumad o mesummad che nel dialetto indica la persona che fa le cose di nascosto, il falso sembiante, che “nasconde la coda tra le gambe” non molto diverso quindi dall’uso nelle comunità ebraiche italiane per indicare i rinnegati.
Talonihu da talonud nel senso di sparlare di una persona, per sminuirne il prestigio o infangarne la memoria. Karavèja da Karavà persona insipida, di poco conto ecc.
Nzaccanutu da zhaqèn nel senso di invecchiato, simile quindi al zachenne del giudaico-romanesco.
Ciote da shoteh, nel senso di semplicione, scemo, che il Calorni attesta con identifico significato e nella forma sciotè tra gli ebrei mantovani.
Malamaziaju, sventura, parola composta dall’aggettivo italiano male e dal sostantivo ebraico mazal (fortuna). È presente anche nel bagitto livornese, così come za’arearlo (nel senso di angustiare) a cui corrisponde nell’A. M. zahariari.
Majishah, parola composta dal possessivo italiano sincopato ma e dal sostantivo ebraico isha (donna). È presente anche nel bagitto livornese tra le parole tabù per indicare la Madonna, seppur nella forma aissa. È un dispregiativo.
Rurù, rurà (bastardo, maledetto) dall’ebraico aruràh con identico significato.
Quasi tutti i lessemi che presentano una matrice ebraica hanno una valenza negativa e giustamente il Milano annota che queste parole “non vi sono introdotte a capriccio, ma per corrispondere a una necessità o a una opportunità. Necessità di prendere a prestito delle parole che non hanno il loro equivalente nella lingua del luogo, ed opportunità di servirsi di termini di gergo per velare il proprio pensiero in presenza di speciali ascoltatori”.
Anche la sintassi presenta i suoi riscontri ed i prestiti dall’ebraico. Mi limiterò qui a segnalarne solo alcuni. L’aggettivo in funzione di attributo spesso segue il nome a cui si riferisce. Se il nome ha l’articolo anche l’aggettivo presenta l’articolo. Es. A. M. ”Prendimi la sedia la piccola”.
Nel passaggio dal singolare al plurale spesso cambia la forma del nome, aggiungendo una vocale nella prima sillaba o sostituendola. Non è raro la parola cambi anche di genere. Ebr. laila - leilot / A. M. notta-nuattiIl possessivo posto come suffisso al sostantivo. Ebr. Avinu-Padre nostro/ A:M. Zianu-nostro zio.
Ho lasciato per ultimo gli arabismi perché suffragano in buona parte quella che è la mia tesi di fondo: le parole arabe vennero portate qui dagli Ebrei in fuga dal Nord Africa. Alcuni di essi magari prima si fermarono in Sicilia e poi passarono sul Continente dopo l’espulsione del 1492 o magari vi giunsero direttamente attratti dalle lusinghe del regno di Federico. Il richiamo era in realtà irresistibile qualora si pensi che durante il califfato almohade si “osteggiava apertamente la presenza di non-musulmani nel dar al-Islam, e talvolta prospettava loro la scelta tra la conversione e la morte, s’intende per coloro che avessero continuato a vivere nei territori almohadi e non avessero tentato la fuga”.
5) Di conseguenza, son molti quelli che scappano nel XIII secolo, anche perché l’area del Garbum(il Maghreb) in quel periodo era stato investito da una carestia devastante, dovuta alla siccità. Le conversioni comunque pare siano state numerose. Teniamola a mente questa situazione di terrore e di esodo perché ci tornerà utile nell’esame di alcuni arabismi.
Infatti, accanto ai numerosi lessemi che spesso conservano la purezza semantica originaria (basta citare quello più tristemente famoso di Mafia nel senso di bellezza, eleganza, prestanza fisica) altri ve ne sono che , storpiati, esprimono disprezzo. Magari proprio nei confronti di quel popolo (caso francamente singolare) e di quella lingua di cui sono dei calchi. Ne citerò solo alcuni
Caiccu probabilmente da Caid: Approfittatore;uno a cui piace sfruttare il prossimo.
Mahammetta (per la traduzione fate voi!) invece è l’essere del quale si ha una paura terribile. È quello che complica la vita degli uomini, anzi che spesso rende loro la vita impossibile. Un vero e proprio diavolo!
Arabbuni o meglio “fare le cose all’arabbuni”: in questa espressione si registra sia il raddoppio della lettera b (tipico del dialetto calabrese) che l’accrescitivo uni presente anche nel giudeo-arabo (sebbene nella forma un). La connotazione semantica comunque resta fortemente negativa, perché allude a cose fatte di fretta, con irruenza, senza la necessaria ponderazione. Praticamente a casaccio.
Un’altra parola dalla forte pregnanza semantica è Shesha. È presente sia nell’ebraico che nell’arabo. Nella prima lingua può avere diverse sfumature semantiche (diavolo-serpe;il numero sei, ecc. ). Tuttavia è l’arabo che suggerisce la traduzione più convincente: il copricapo in uso presso i musulmani del Nord Africa. Ancora una volta un rimando preciso a questa terra ed una connotazione negativa. Per cui “Fare le cose a shesha” significa “fare le cose a cappello” cioè a casaccio proprio come l’etimo “arabbuni”. ecc.
Anche l’onomastica presenta le sue lusinghe, ma bisogna procedere cauti perché il terreno è malfermo e “Il piede messo in fallo diventa caduta e la caduta precipizio” avvertiva Gongora.
La trascrizione dei nomi infatti spesso non era sicura.
“In altre parole qual’era la lingua, quali le assonanze o le comodità linguistiche, e a volte il capriccio dell’ufficiale, del notaio, che in quel momento decidevano come mettere sulle carte un suono diverso, un’aspirazione non conosciuta nella lingua latina o nel volgare”.
6) Molti lavoravano di fantasia, per cui poteva capitare che allo stesso nome ebraico corrispondessero più nomi in italiano e all’opposto un nome italiano traducesse diversi nomi ebraici. L’infaticabile (e compianto) Umberto Cassuto riportava il seguente esempio: Simone traduce sia Shemuel che Shim’on;mentre Mosè veniva reso Musà, Muscato, Moscato ecc.
7) Gli Ebrei erano soliti poi nei rapporti interni usare nomi appartenenti alla loro tradizione biblica o postbiblica e comunque ad essa assimilati;nei rapporti verso l’esterno invece solitamente scelgono un nome locale che corrisponde in qualche modo al nome ebraico.
8) Questa doppia nominazione si trova spesso trascritta nei documenti con il nome ebraico separato da quello latino o greco dall’espressione ha-nikrà oppure ha-mechunè.
Ma vediamo un attimo questi cognomi. Sono abbastanza diffusi sia quelli di diretta ascendenza biblica che quelli portati notoriamente da Ebrei.
Tra i primi riportiamo: David, Raffaele, Emanuele, Daniele, Simone, Gesuele, ecc. Tra i secondi Montagnese, Ciancio, Arieti, Tedesco, Lo Presti, ecc.
Quello che sorprende però (e conferma!) è la presenza di cognomi e soprattutto soprannomi che alludono direttamente al mondo ebraico, ma pur sempre attraverso la mediazione della lingua araba.
Tra i cognomi ne segnaliamo alcuni alquanto anomali e presenti in quest’area: il rarissimo Talomo, praticamente un hapax. L’orientalista Bruno Chiesa in un interessante saggio sul giudeo-arabo riporta: “Quanto alla lettera s, s, sono sostituite dalla t (=t), per cui si avrà talom per salom ”. Allo stesso modo Brahò presente come nome anche nella Genizah per Abramo. Altri invece lo fanno derivare da Baruch. Altro cognome interessante che rimanda al giudeo-arabo è Gioghà. Nel Maghreb si scrive djehà, ma si pronuncia giuhà. Lo stesso vale per l’altra versione araba di questo nome khojà, ma la pronuncia è sempre la stessa. Ciò che colpisce di questa parola è il significato in arabo:”deviare dalla retta via”. Esiste anche la maschera di juhà nel dialetto , ma questo esula per ora dal nostro lavoro.
I soprannomi poi sono ancora più numerosi dei cognomi ed occorre fare delle precisazioni importanti. Pur essendoci un chiaro rimando al giudeo-arabo di alcuni di essi, i fruitori ne ignorano ormai il significato originario, quello per cui magari son stati creati. È chiaro comunque che un tempo essi erano molto più importanti degli stessi cognomi, non foss’altro che per il fatto di non essere imposti dall’alto e dall’esterno, ma nascevano e morivano dentro la comunità di appartenenza;quindi erano molto sentiti e sovente di forte pregnanza semantica. Solitamente si tramandavano per diverse generazioni per via matrilineare.
Vediamone qualcuno:
Bushaccu: è un composto perché è formato dalla Kunya, cioè il prefisso arabo d’onore per indicare la paternità di qualcuno (in questo caso Abu) più la forma islamizzata per isaac
Tzera da zera: seme
Zizzu da aziza aziz: è di origine berbera ed indica il colore blu;ma è anche il nome di un luogo e di una tribù. Inoltre, di blu erano costretti a vestirsi gli Ebrei in alcune aree del Nord Africa. Questo colore verrà poi sostituito dal giallo.
Tzotta da zot: donna in senso spregiativo
Cariyyotto da cariot: cuscini
È probabile che gli Ebrei non conoscessero al-arabiyya ossia il corretto ed alto arabo, ma avessero una conoscenza limitata dell’arabo, una specie di dialetto locale. Attenzione! Conoscere però non vuol dire parlare, bensì usare. In questo senso ha ragione Benedetto Rocco, quando scrive che la maggior parte degli Ebrei avevano una conoscenza limitata alle parole più importanti. Il moresco parlato dagli Ebrei, influì sul dialetto lasciando alcuni arabismi.
9) La lingua è quindi una testimonianza irrinunciabile per una ricostruzione attenta ed attendibile delle comunità ebraiche del Sud Italia. Perché essa “ha rappresentato il mezzo fondamentale della conservazione della propria identità religiosa-culturale nel corso dei secoli per l’ebraismo”.
10) Ed il giudeo-arabo in tal senso gioca un ruolo fondamentale. A tal proposito Bruno Chiesa scrive: “l’impressione è che ci si trovi dinnanzi a un campo di ricerca pieno di promesse e pressoché sconfinato”. Anche se qualcuno accusò a suo tempo Joshua Blau (uno dei pionieri in questi studi) di “sionismo linguistico”. E ti pareva!
11) Non ci resta che chiudere con Primo Levi e con quel punto significativo che avevamo lasciato in sospeso. Nel suo racconto giustamente sottolineava che il gergo degli Ebrei torinesi era “un linguaggio di confine e di transizione” ma non gli affidava nessuna valenza storica.
12) Non sono d’accordo su questo ultimo aspetto, perché le parole spesso hanno una valenza storica più pregante di qualsiasi altra cosa. Per intendersi, la cultura materiale non ha lasciato nulla di importante sulla presenza degli Ebrei in quest’area remota della Calabria (o magari –lo spero- non è stata cercata bene) tranne che i soliti impolverati documenti spesso intraducibili e redatti da qualche avido ufficiale o distratto notaio. Tutto il resto magari è stato distrutto dalla violenza cieca e dal fanatismo degli uomini. Prima e soprattutto dopo l’espulsione.
Le parole no! Restano. E diventano pane di tutti, anche quando non ci son più quelli che le han lievitate nella gioia come nella sofferenza. E sono testimoni ben più attendibili e duraturi di tutte le altre fonti storiche. “Io sono infatti convinto che, se si può riuscir a seguire attraverso un lungo numero di secoli la sorte delle singole parole ebraiche introdottesi nella parlata dei vari gruppi di ebrei italiani, si può contemporaneamente giungere a provare che esse hanno avuto una eccezionale resistenza, nel senso che quelle che si rinvengono oggi sono le stesse che erano in uso nei secoli più lontani di cui si ha o si vorrebbe avere notizia”.
13) E magari mutano di senso ed esprimono disprezzo proprio nei confronti di quel popolo che le ha inventate. È il caso di Hodìu, che il Beccani ritrova anche nel Bagitto livornese per indicare l’ebreo;da Iehudi: un apporto linguistico secondo lui degli ebrei in fuga dal Portogallo.
14) Ma ormai il senso è ben altro: chiamare ad alta voce, gridare. Giustamente Umberto Fortis scrive che “solo quella parlata così ricca di allusioni e di sfumature particolari, avrebbe potuto dar accesso, al di là di ogni documento storico, ad un vero recupero del ‘volto’ minore, per così dire, della ‘piccola storia’del ghetto italiano, quasi un ritorno alle proprie più profonde origini”.
15) Fermo restando che a causa della sua povertà lessicale, della sua fragilità sintattica, del suo essere circoscritta a pochi campi semantici (quello del disprezzo per lo più e della chiusura verso l’esterno), questa parlata non fu mai “lo specchio di una civiltà completamente articolata, ma soltanto la faccia familiare e tradizionale di una vita orientata per il resto sui dialetti circostanti”.

16) Le parole restano quindi anche quando si è costretti al silenzio, come accadde ai marrani. In quel posto remoto dove la mano del tiranno non potrà mai giungere senza il nostro consenso: la memoria. “Memoriam quoque ipsam cum voce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset oblivisci quam tacere” scrive Tacito nell’ Agricola: “La memoria stessa, perfino, avremmo perso se fosse stato in nostro potere tacere come dimenticare”. Ma i marrani non dimenticarono.

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