Parashat veZot: Devarim (Deuteronomio) 33,1-34,12
Haftarah: Ezechiele 38,118-39,16
Da Torah.it
di Rav Riccardo Pacifici
Anticipo da oggi
l'illustrazione all'ultima Parashà della Torà che leggeremo Martedì
prossimo (14 ottobre 1941), quest'ultima Parashà che
è la degna chiusura di tutto il Pentateuco, oltre che del quinto libro di Mosè.
La Parashà ci
presenta gli ultimi istanti della vita di Mosè sulla terra: dopo gli
avvertimenti solenni a più riprese enunciati e che io vi ho illustrato nelle Parashoth precedenti, dopo gli ammonimenti
solenni, l'estremo saluto, l'estremo augurio. Come un padre prima di morire benedice i suoi figli, così
Mosè, padre spirituale di tutto Israele, impartisce ad ogni tribù la sua
benedizione; così aveva fatto anche il terzo patriarca, Giacobbe, quando in
terra d'Egitto aveva benedetto i suoi figli: con quella benedizione si chiude
il primo libro della Torà, con questa benedizione si chiude l'ultimo. Là erano
presenti i 12 figli d'Israele Giacobbe, qui i 12 figli sono diventati le 12
tribù di un grande popolo. Anche lì, però, come qui,
il padre nella sua benedizione presagisce con occhio profetico l'avvenire dei
dodici figli, annuncia in breve sintesi quali saranno
i futuri destini, le future attività, le funzioni e i compiti di ogni prosapia
d'Israele. Anche qui l'animo del profeta detta i suoi sentimenti alla bocca del
poeta, che con accenti sublimi ci delinea le
caratteristiche salienti di ogni tribù e quasi ci fa passare dinanzi allo
sguardo la visione del futuro Israele, dell'Israele ormai stabilito nella sua
terra. Ma di questa magnifica pagina io non posso tracciarvi tutte le bellezze,
tutti i riposti pensieri, tutte le piccole e grandi sfumature, non posso
guidarvi attraverso queste fervide parole augurali, sino all'invocazione
massima che tutte le supera e le corona, sino all'invocazione che esalta la beatitudine
unica di Israele: popolo unico di Dio. Io mi limiterò
soltanto a dirvi che qui, proprio in queste ultime
righe della nostra Torà, la personalità eccelsa di Mosè si stacca in tutta la
sua divina grandezza, proprio nel momento in cui egli contempla e benedice il
suo popolo, contempla e ammira la terra. Proprio in queste pagine c'è la
sintesi di Mosè uomo, di Mosè profeta. Qui egli si innalza
al di sopra degli uomini, qui egli è più che altrove, nelle pagine del suo
libro, "uomo di Dio". Non a lui l'ingresso
in quella terra che era stata il suo sogno, non a lui i trionfi delle conquiste
terrene, non a lui gli onori del regno e del trono. Mosè è superiore
alle conquiste, agli onori, ai troni e ai regni di tutta la terra. La sua
titanica figura si può dire si dilegua insensibilmente dallo sguardo del
popolo, che ne sa imminente la dipartita estrema, la sua figura che ammira
dalle alture del monte Nebo la terra d'Israele, non
discende più da quelle alture, ma sparisce di là nella purezza dei cieli e nell'amplesso
di Dio. La sua morte non conosce l'esaurimento e l'agonia del corpo, non
conosce neppure la diminuita vitalità della mente e dello spirito. Mosè è
vegeto e forte nel corpo e nello spirito e la morte non è il segno della fine,
ma quasi l'annuncio della sua esaltazione, del suo
trasumanarsi, del suo passaggio naturale e insensibile dalla sfera dell'umano a
quella del divino.
La morte di Mosè
è come dicono i nostri maestri, la morte nel bacio di Dio, sublime
immagine poetica che solo gli ardimenti poetici del Midrash
potevano creare, sublime immagine nella quale si compendia il significato
di una vita così alta che culmina nell'unione dolce e nell'amplesso di Dio.
Mosè si allontana da questa terra e nel momento del suo distacco, nessuno gli è
vicino, nessuno né dei familiari, né dei discepoli, né del popolo; egli è solo
come tutti i grandi spiriti, egli è solo al cospetto di Dio. Egli si diparte,
ma i resti mortali del suo corpo, non sono raccolti e composti nella pace del
sepolcro: non una tomba, non un mausoleo, perché nessun
monumento terreno sarebbe stato degno di lui. Solo Iddio assiste al suo
trapasso, solo Iddio si interessa della sepoltura di
Mosè, nessuno sarebbe stato degno di tanto ufficio, ed ecco quindi che il monte
e la valle sono la sua sepoltura, ecco quindi che nel teatro grandioso di
questo spettacolo naturale, lì alle pendici del monte Nebo,
all'ultimo corso della valle del Giordano, là dinanzi agli estremi limiti della
terra d'Israele, là in quel quadro si chiude la vita terrena del grande
condottiero: "Velò qam navi 'od be-Israel" (Deut.,
XXXIV, 10).
E non sorse più profeta pari a Mosè, che potesse conoscere
il Signore faccia a faccia. Queste parole che con poche altre chiudono il testo
della Torà, sono l'elogio più alto di lui. "Non sorse più"
ma lo spirito ebraico, che legge, intende anche: non sorge e non sorgerà
più. Mosè uomo di Dio, profeta sommo, ha realizzato sulla terra l'ideale
dell'uomo vicino a Dio. Egli è stato l'uomo, l'uomo e
il maestro, il condottiero, il supremo moderatore, e il più profondo
conoscitore dell'anima della sua gente, colui che ha
avvicinato questa gente a Dio, colui che ha portato a questa gente la legge e
l'insegnamento di Dio. Questo è l'uomo Mosè che non ha lasciato monumenti di
marmo o di bronzo, questo è l'uomo di cui Israele non conobbe la sepoltura,
perché egli non è morto, ma è vivo in mezzo al suo popolo, attraverso la sua parola, il suo insegnamento eterno di verità, attraverso
la sua legge che non sul marmo o sul bronzo, ma sui cuori nostri sta scritta e
non è destinata a scomparire, come i monumenti terreni, perché questa è la
Torà, che a noi ha comandato Mosè, eredità di tutta la progenie di Giacobbe: "Torà
tzivvà lànu Moshè morashav qehilath Ja'aqov" (Deut. XXXIII,
4).
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