foto da UniversoCedro
Fra tutti i prodotti tipici italiani, il cedro è fra i più importanti. E dire cedro significa Riviera dei Cedri. Perché tutta, o quasi tutta, la produzione nazionale proviene dalla piccola fascia di costa calabrese compresa fra Tortora e Cetraro che proprio da questo agrume ha preso il suo nome. È una pianta antichissima, conosciuta già al tempo degli Egiziani, quattromila anni fa, che da lì si è sparsa nel mondo legandosi strettamente alle tradizioni e alle emigrazioni ebraiche.
Furono, infatti, gli Ebrei che ne diffusero la coltivazione prima in Palestina e poi in tutte le altre regioni dove furono costretti ad emigrare per sfuggire alle deportazioni; a cominciare da quelle in Babilonia, settecento anni prima di Cristo, fino alla persecuzione di Nabucondosor un centinaio di anni dopo e alla più tarda disseminazione conosciuta col nome di Diaspora. Dio aveva detto a Mosè: “Prenderete i frutti dell’albero più bello, dei rami di palma e dell’albero più frondoso, dei salici del torrente e vi rallegrerete dinnanzi al Signore Dio vostro”. Per gli ebrei, i frutti dell’albero più bello sono i cedri. Senza di questi la festa delle capanne non si poteva fare e perciò se ne portarono dietro i segreti della coltivazione, dovunque andassero. Così il cedro è arrivato in Grecia intorno al VI secolo A. C. insieme ai profughi provenienti dalle regioni assire e da lì è passato in Turchia, in Albania ed a Corfù.
In Italia ha fatto la sua apparizione due o trecento anni prima di Cristo per opera di quegli Ebrei ellenizzati che sicuramente avevano seguito gli Achei fondatori delle colonie agricole di Metaponto, Sibari e Crotone sullo Ionio e di Laos e Posidonia sul Tirreno. Di secolo in secolo poi, questo legame fra cedro e religione ebraica non è venuto più meno e, ancora oggi, ogni estate, i rabbini vengono in Calabria per scegliere e raccogliere con le loro mani i frutti più belli, indispensabili alla festa.
Il cedro del Sukkòt
Il cedro (in ebraico etrog; plurale etrogim) destinato al rito del Sukkòt non è un frutto qualunque. Sia il frutto, sia l’albero da cui esso proviene devono rispondere a determinate caratteristiche che rendano l’agrume sacro kasher o kosher cioè buono, adatto alla cerimonia.
E per essere adatto alla cerimonia del Sukkòt, il cedro che compone il lulàv deve possedere diverse caratteristiche che, sommate tra loro, rendano il frutto perfetto.
Il cedro, dunque, deve presentarsi senza rugosità e senza macchie sulla buccia, non provenire da alberi cresciuti da talea innestata, e che siano almeno al quarto anno di età, avere una forma conica perfetta ed un peduncolo accentuato.
È, invece, inadatto ed inservibile, secondo i precetti della Torah (letteralmente: legge, insegnamento. Nello specifico della religione ebraica si indicano, con questo nome, i primi cinque libri della Bibbia o libri di Mosé, ossia ancora il Pentateuco) un cedro secco o rubato, o ancora proveniente da una pianta adorata o coltivata in una città scomunicata; è inservibile un frutto di offerta impura o di pianta nuova o di dubbia provenienza.
Molti rabbini considerano inservibile anche il cedro verde come l’aglio ed ancora, molti di loro hanno idee diverse sulle dimensioni che deve avere il cedro del Sukkòt; in ogni caso, si va dalle dimensioni di una noce, a quella di un uovo, fino ad arrivare a dimensioni tali da afferrare due cedri con una mano o uno con entrambe le mani.
La festa del Sukkòt
Sukkòt, la “Festa delle Capanne” o “Festa dei Tabernacoli” si festeggia il 15 di Tishrì - che vuol dire principio - ed è il mese con cui inizia il calendario ebraico, tra settembre ed ottobre.
La festa delle Capanne rievoca l’uscita dall’Egitto ed il quarantennio in cui il popolo di Israele visse nel deserto, prima dell’ingresso nella Terra Promessa.
La stagione coincide con il periodo dell’ultimo raccolto prima dell’inverno, ed è per questo motivo che la ricorrenza è identificata anche come “Festa del Raccolto”.
Per questa ragione, durante Sukkòt, si mangia e si trascorre buona parte della giornata in una capanna (sukkà) di rami, adorna di fiori, frutta e disegni e che abbia il tetto costituito da frasche rade in modo tale da poter consentire ai suoi occupanti, nella sera e durante la notte, di poter osservare le stelle
Il significato delle specie floreali
L’utilizzo rituale delle diverse specie vegetali si presta a varie interpretazioni.
Una prima riconduce alla diversità delle specie vegetali usate: la palma non ha profumo ma i suoi frutti hanno sapore; il salice non possiede né sapore né profumo; il mirto è profumato ma non saporito; il cedro possiede entrambe le qualità.
La loro presenza congiunta simboleggia quattro tipi di persone che miscelano tra loro l’assenza e la presenza di sapienza e generosità e come le specie vegetali, anche i quattro tipi di uomo devono essere vicini per aiutarsi e volersi bene reciprocamente.
Secondo un’altra interpretazione simbolica, il lulàv rappresenta quattro periodi storici ed il cedro, in particolare, simboleggia la speranza per il futuro.
“Perì ‘etz adar,” il frutto dell’albero più bello, è così che nella Bibbia viene chiamato il frutto del cedro.
“... prenderete i frutti dell'albero più bello, dei rami di palma e dell'albero più frondoso, dei salici del torrente e vi rallegrerete dinnanzi al Signore Dio vostro” (Lev. 23,40)
Fu il Santo ad indicare a Mosè il frutto dell’albero più bello, frutto che secondo le tradizioni ebraiche divenne fondante della “Festa delle Capanne” (Sukkoth). Gli ebrei lo conobbero durante il lungo soggiorno in Egitto, di circa quattrocento anni. Poi, durante l’Esodo, al tempo di Mosè divenne il Perì ‘etz adar. La diffusione nel Mediterraneo del cedro è probabilmente opera loro: ne sono prova diverse tracce archeologiche. Da documenti posteriori al Pentateuco si apprende che fino all’epoca del II Tempio, dopo la liberazione dalla cattività babilonese, ad opera di Ciro il Grande (550 a.C.), non tutti gli ebrei fecero ritorno in Palestina e molti di essi si spostarono in diversi paesi, come prova il Tempio del 525 a.C. nell’isola di Elefantina. Questi ebrei conservarono, ovviamente, le loro abitudini e i loro riti religiosi. Tali fenomeni di migrazione, soprattutto, verso i territori siriaci, dell’Asia Minore ellenizzata e della Grecia, divennero maggiormante intensi nel corso del III sec. a.C. quando la lingua ebraica sparì per lasciare spazio all’imponete greco. Queste migrazioni, dalla Grecia, portarono gli ebrei a toccare la Turchia, l’Albania e la corinzia Corfù, dove le tracce archeologiche risultano essere abbondanti. L’ipotesi di questa diffusione, ad opera degli ebrei del cedro, è anche ampiamente confutata da Flavio Giuseppe, il più autorevole scrittore di cose ebraiche, il quale sostiene che nel III sec a.C. in tutto il bacino del Mediterraneo era abbondante la presenza ebraica. Inoltre, verso il III, II a.C., secondo il rabbino Toaff, Rabbino capo della Comunità Israelitica di Roma, gli ebrei, seguendo le rotte achee arrivarono nella penisola italica, presso le colonie di Metaponto, Sibari e Crotone sullo Jonio e Laos e Posidonia sul Tirreno. Tale remota presenza in Italia, in Italia degli ebrei, è, inoltre, testimoniata sia dal viaggio nel 164 a.C., di Eupolemo e Giasone, ambasciatori dei Giudei, i quali furono ricevuti da una nutrita colonia di giudei elleni della capitale; sia dai ritrovamenti del Prof. Casella a Pompei ed Ercolano di pitture murali e mosaici raffiguranti il cedro e gli elementi sacri che servivano a celebrare la Festa delle Capanne. Insieme con questi ritrovamenti ricordiamo anche le scoperte nelle catacombe ebraiche di via Nomentana e dell’Appia nonché quelle nella sinagoga di Ostia Antica (I-IV sec. d.C.) di questi simboli del Sukkoth, a riprova di una importante e duratura presenza in Italia di comunità ebraiche. Per meglio comprendere, il ruolo del cedro nelle tradizioni ebraiche, è il caso di fare un po’ di luce su questo popolo.
Presso gli ebrei tre sono le grandi feste religiose di pellegrinaggio: quella della Pasqua ebraica (Pesach), quella della Pentecoste (Shavuot), e quella delle Capanne, detta anche dei Tabernacoli (Sukkoth). Tutte e tre le feste hanno una dimensione storica di commemorazione dell’Esodo, ma celebrano altrettanto le tre stagioni del raccolto agricolo nella terra d’Israele. La Pesach è, così, la festa della libertà, che ricorda la liberazione degli israeliti dalla schiavitù dell’Egitto e si proietta verso la redenzione finale del mondo nell’epoca messianica. È anche, però, il tempo della raccolta dell’orzo (omer) e la fine della stagione delle piogge. Essa,dato il suo significato, cade sempre in Primavera. Per tutta la durata della festa è proibito mangiare pane lievitato e un giorno prima che la festa inizi tutto il lievito viene eliminato dalle case, dopo un ricerca minuziosa di ogni singola briciola nascosta, come ricorda Unterman, in ogni singola fessura. La festa dura sette giorni (otto nella diaspora) e comincia la sera del quindici di nisan (fine marzo, inizi di aprile), la notte dell’esodo, con un seder (cena familiare) accompagnata dal racconto dell’Esodo. La fine di Pesach ricorda il momento in cui gli israeliti attraversarono il Mar Rosso, e poiché la loro salvezza comportò l’annegamento degli egizi, i salmi dell’hallel vengono recitati in forma abbreviata.
Sette settimane più tardi viene celebrata Shavuot (Pentecoste). È la festa del raccolto del grano. Viene letto il decalogo nella sinagoga, decorata con piante e fiori, per ricordare che il Monte Sinai, una montagna secca ed arida, si riempì di fiori in occasione della Rivelazione, mentre l’intera congregazione sta impiedi. A Shavout c’è la diffusa celebrazione dell’hallel (salmi).
La festa di Sukkoth (Festa delle capanne) , celebrata intorno alla prima quindicina di ottobre, è, invece, nel suo originario carattere agricolo, la festa di fine raccolto, della gioia per il lavoro compiuto e per i frutti raccolti. Per una settimana gli ebrei, costruitasi una Capanna (sukkah) all’aperto, con materiali vegetali, non fissata al suolo e con un tetto che permetta loro di vedere il cielo, a ricordo dell’Esodo dall’Egitto, durante il passaggio nell’inospitale deserto, a memoria della protezione che Dio concesse al suo Popolo, devono abitarla.
Durante questi sette giorni, ad eccezione del sabato, devono agitare in ogni direzione un mazzetto, che tengono nella destra, composto da un ramo di palma dattifera (lulàv), due rami di salice di fiume (aravà) e tre rami di mirto (hadas), mentre recano, nella sinistra, un frutto di cedro (etrog). Tutto ciò secondo quanto prescritto nel Levitico “ora il quindici del settimo mese, quando avrete raccolto i frutti della terra, celebrerete una festa al Signore per sette giorni… il primo giorno prenderete frutti dagli alberi migliori: rami di palma, rami con dense foglie e salici di torrente e gioirete davanti al Signore vostro Dio per sette giorni…Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che Io ho fatto dimorare gli Israeliti in capanne, quando li ho condotti fuori dal paese d’Egitto…”.
Secondo una tradizione allegorica ogni elemento indicato per la festa, rappresenterebbe un peccato da cui fuggire: la palma, eretta e diritta, paragonabile alla colonna vertebrale umana rappresenterebbe il peccato dell’orgoglio che fa sollevare la testa; il mirto, le cui foglie ricordano l’occhio, simboleggerebbe quello della curiosità di chi si guarda attorno con invidia; il salice, la cui foglia, invece, ricorda una bocca, quello della maldicenza; mentre il cedro, con la sua forma che ricorderebbe un cuore, dovrebbe indurre a confessare i peccati compiuti. Al contrario, secondo una interpretazione del Talmùd i quattro elementi indicherebbero ciascuno una qualità di quattro diversi tipi umani: la palma , con il dattero che ha sapore, ma non odore, ricorderebbe chi alla saggezza non fa seguire le opere; il mirto, dal buon profumo, ma senza sapore, indicherebbe gli uomini che agiscono, ma senza saggezza; il salice, privo del profumo e del sapore, rappresenterebbe chi è privo sia di saggezza che di opere; ed infine, il nostro etrog, frutto dal buon odore e dal buon sapore, chi alla saggezza fa seguire opere altrettanto sagge. Inoltre, la conoscenza del cedro presso il mondo greco, data dalle testimonianze prima dette, e cioè, dall’arrivo di alcuni ebrei nel mondo ellenico già a partire dal VI a.C., ma, più tardi, soprattutto, da Teofrasto, ci permettono di fare un’ulteriore considerazione: la conoscenza di un frutto, considerato, dallo stesso Teofrasto, non commestibile, in una epoca così antica, in cui le fonti di sostentamento erano essenziali e primarie, la conoscenza precisa dei metodi di coltivazione di quest’agrume, ci inducono a sostenere che essa dovesse essere importante per altre ragioni. E quali ragioni potrebbero esser più valide se non quelle di un uso sacro di tale frutto? Vasto è inoltre l’uso letterario di questa pianta: sacra, esoterica, di un profumo ineffabile, struggente ed ammaliante. E’ citata settantadue volte nelle Sacre Scritture simbolo di alleanza. Tanto è preziosa questa pianta, agli occhi degli ebrei, da essere magnifica, da dover essere custodita gelosamente perché vicina a Dio per le sue altezze, per le sue imponenti e forti fronde, per i sui fusti che si innalzano al cielo liberi. Simbolo di un ricordo che dura tutta la storia di un popolo, quello d’Israele. Ogni estate, i rabbini di moltissime comunità israelitiche, da Londra a New York vengono sulla Riviera per raccogliere i frutti più belli, indispensabili alla loro festa. La raccolta è meticolosa e la scelta viene compiuta tenendo presenti le prescrizioni della tradizione: il frutto deve essere di una pianta non innestata al quarto anno di produzione; deve essere sano, di buona forma conica, di colore verde, con l’apice sano, che conservi la vestigia del fiore e deve recare un pezzo di peduncolo.
IL CEDRO “MADE IN CALABRIA”
Testi: E. Monaco, P.Basile
Quasi tutta la produzione italiana di cedro proviene dalla Riviera dei Cedri. Molti autori, fra i quali il Milone, sostengono che il cedro è presente sulla costa calabrese per motivi naturali e climatici; la pianta ha bisogno di un clima stabile senza sbalzi di temperatura, di acqua abbondante e soprattutto di crescere al riparo dei venti. Per questo i contadini che la coltivano le dedicano lavoro e sacrifici. D'inverno la coprono con canne che vengono tolte in primavera e per rimuovere periodicamente il terreno devono stare inginocchiati per terra.
Certo la coltura è molto antica ed è strettamente legata all'immigrazione ebraica dei primi secoli dell'era cristiana e alla successiva occupazione bizantina. Il cedro è richiesto dagli Israeliti per la festa dei Tabernacoli e per le celebrazioni religiose della sukkoth; si può quindi ipotizzare un legame con questi motivi religiosi. Bisogna tener presente dall'altra parte anche l'influenza della Scuola Medica Salernitana che prescriveva l'uso medico del cedro.
Nel sedicesimo secolo la cedricoltura calabrese aveva grosso sviluppo per la presenza di folte colonie ebraiche in Calabria calcolabili intorno a 50.000 persone, quasi il 10% della popolazione residente.
Si coltivavano i cedri anche in Puglia, in Campania e in Sicilia ma l'intolleranza religiosa dei dominatori spagnoli li ha fatti scomparire. Qualche sporadica presenza rimane solo in Sicilia.
Fino agli anni sessanta il prodotto veniva commercializzato da pochi incettatori; poi i contadini si sono organizzati in cooperative e consorzi ponendo termine alla speculazione.
Il cedro raccolto viene "salamoiato" in zona e poi viene venduto per la metà all'estero (Germania, Paesi Bassi e il resto nell'Italia centro settentrionale per la canditura e l'uso dolciario.
Una parte del prodotto viene esportato per motivi religiosi.
I CEDRI E I SACERDOTI EBRAICI
Sono riconoscibili dal piccolo copricapo che immancabilmente portano in testa. Sono rabbini, sacerdoti di comunità ebraiche. Vengono ogni anno sulla riviera, nel mese di luglio e agosto per raccogliere e controllare di persona i piccoli cedri, indispensabili per la "festa delle capanne", la sukkoth che cade nel mese di settembre e che è per gli Ebrei di tutto il mondo l'avvenimento religioso più importante dell'anno.
Si alzano di mattina alla cinque e vanno nelle cedriere con i contadini: Nei fondi arrivano presto e presto cominciano a lavorare.
Un rabbino e un contadino. Il rabbino va avanti lentamente. Guarda a destra e a sinistra nella cedriera; dietro di lui il contadino con una cassetta di legno e una forbice nelle mani. Il sacerdote si ferma, guarda la pianta alla base proprio nel punto in cui il tronco spunta dalla terra: se è liscio se senza "vozze" vuol dire che non c'è stato innesto e si possono raccogliere i frutti. I rami sono bassi e pieni di spine pericolose.
Il rabbino si corica per terra e scruta tra le foglie. Trova il frutto buono, lo esamina più attentamente, poi se decide di prenderlo lo indica al contadino che lo taglia dalla pianta lasciando un pezzettino del peduncolo.
Con estrema attenzione il sacerdote esamina ancora la buccia, il colore e la forma. Se tutto va bene il piccolo frutto, avvolto nella stoppa, viene riposto nella cassetta. Il contadino guarda attentamente perché per ogni cedro alla fine avrà la somma pattuita. Quando tutto è pronto le cassette prendono il volo all'aeroporto di Lametia. Rivedranno la luce per la festa.
Tutto secondo quanto Dio prescrisse a Mosé: "Prenderete i frutti dell'albero più bello, dei rami di palma e dall'albero più frondoso dei salici del torrente e vi rallegrerete dinnanzi a Dio, Signore Dio vostro". E' qualcosa di mistico e di fanatico insieme. Non esistono esempi di confronto con le nostre tradizioni religiose e non. Il cedro per gli Ebrei è molto di più della palma per noi e anche di più del capitone per i Napoletani a Natale. Senza il cedro la festa non si può fare. E nessuno ne vuole rimanere sprovvisto.
Nessun commento:
Posta un commento