Calabria judaica - Sud ebraico

Calabria judaica ~ Sud ebraico
Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria
con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione

Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé.
La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu.
Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta.
Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne).
Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; a
ttraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.

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giovedì 21 febbraio 2013

Isabella di Castiglia, sei stata sconfitta!



Riproduco l'articolo di rav Pierpaolo Pinchas Punturello, pubblicato su Roma Ebraica,
il sito della Comunità ebraica di Roma: emozionanti testimonianze di anusim, che attraverso il tempo, le generazioni e le migrazioni hanno ricevuto e conservato la fede che i padri hanno loro trasmesso, fino al ritorno a casa, in senso geografico e spirituale.

La testimonianza di tanti tornati all’Ebraismo, sotto la guida di rav Birnbaum e di Michael Freund di Shavè Israel
“Isabella di Castiglia sei stata sconfitta”. Questo pensiero mi è tornato più volta in mente mentre incontravo, nei corridoi dell’Ulpan ghiur per gli studenti di lingua spagnola, alcune delle persone che ho intervistato.
I protagonisti di queste interviste sono i discendenti dell’Ebraismo sefardita: 600 anni di fughe, di nascondigli, di tradizioni sussurrate di generazione in generazione.
Sono i nipoti degli anusim, i “costretti”, che sono tornati all’Ebraismo in Israele. Non ho fatto domande, mi sono seduto ad ascoltare, come fossi in uno dei porti del mediterraneo che, dopo il luglio del 1492, ha accolto i profughi ebrei spagnoli in fuga dalla reyna Isabella.
La prima a parlare è Batya. “Sono nata a Valencia, ho sempre cercato la spiritualità e venendo da una famiglia non cristiana dove non si andava mai in Chiesa, cercando Dio, ho cominciato ad andarci io da sola all’età di sette anni. A diciotto anni ho incontrato mio marito Yosef ed abbiamo cominciato a studiare insieme attraverso Internet che ha aperto per noi una finestra sul mondo ebraico. L’ebraismo era per noi il luogo dell’essenza di tutto e studiando ho cominciato a comprendere tutte le tradizioni della mia famiglia: le candele di shabbat, la separazione dei cibi a base di carne e latte, la famiglia che si riuniva il Sabato e non la Domenica e mia nonna con le sue manie di pulizie della casa di Venerdì! A Valencia esiste una comunità ed è ortodossa ma non era pronta a comprendere nè i gherim né la nostra osservanza, mentre la nostra famiglia di origine ci ha molto aiutato. Ad un certo punto abbiamo deciso di partire per Israele e di vivere in Gerusalemme: i primi tempi abbiamo abitato in una casa di 20 metri quadrati in quattro, con il permesso turistico. Abbiamo cominciato a chiedere alle persone di lingua spagnola che incontravamo a chi rivolgerci per il ghiur e tutti ci indirizzavano dalla rabbanit Renana Birnbaum, a Shavè Israel, le organizzazioni ortodosse che si occupano del ritorno degli ebrei lontani e dei discendenti di anusim in qualunque parte del mondo: dal Sud America all’India. I primi tempi sono stati difficili ma anche pieni di miracoli quotidiani come quella volta che un meccanico di origine turca che parlava ladino ci ha aiutato ad iscrivere i ragazzi a scuola senza nemmeno chiedere se eravamo ebrei ! Siamo arrivati da Renana, ma non avevamo un rabbino di origine e quindi era difficile entrare nel programma di studio e conversione. Nonostante tutto questo Renana ci ha aiutato: abbiamo iniziato a studiare nel novembre 2008 e ci aspettavano in teoria solo tre mesi di studio per poter anche risolvere la nostra situazione con il visto turistico: eravamo illegali nel paese e quindi senza lavoro e copertura sanitaria. Solo dopo nove mesi ricevemmo una autorizzazione dalla Rabbanut a studiare e che quindi tutto l’anno di studio già trascorso era nullo Renana ci disse: “Mi imbarazzo ma devo dirti che dovrete studiare ancora un anno. Sarà difficile ma ce la faremo.” Decidemmo di rimanere: non avevamo altra vita se non questa, anche se avevamo in Spagna casa, soldi e famiglia. Israele era la nostra realtà, l’ebraismo la nostra vita. Per mantenerci abbiamo fatto tanti lavori: pulizia nelle case, camerieri. Sono stata invitata anche a parlare davanti ad una commissione della Knesset che si occupa dei problemi burocratici degli anusim, ho recitato loro questa poesia: “Dicono che l’amore è forte ed anche molto paziente, io posso testimoniarlo. Hanno provato a cancellare il mio nome, mi hanno rubato molte cose, però quello che non sapevano e che l’anima ha memoria e non ha smesso di gridare dicendomi: “Tu sei ebrea e mai lo dimenticherai finchè sei in vita”. Senza paura e vergogna essere ebrea è la mia gioia, la gioia dei miei antenati senza nascondersi più, nè bugie. Nella mia terra mi sono ritrovata, mi sono connessa alla mia vita, al mio passato, al mio presente fino alla fine dei miei giorni.”
Ghila ed Ariel sono invece due distinti nonni colombiani di nipoti ebrei israeliani e la loro storia si perde nella memoria delle navi che scappando dopo Colombo hanno provato a portare gli anusim lontano dai roghi.

Dona Gracia Nasì, da un sito a lei dedicato
Sono nata in Colombia, a Chocontà, un villaggio non lontano da Bogotà, luogo di reale presenza di anusim. In casa si accendavano le candele al venerdì al tramonto, non si mischiava la carne con il latte ed io vivevo tutti questi rituali familiari come realtà quotidiana e non come elemento distintivo. Mia madre e mia nonna ci raccontavano da bambini le storie della Torà e le altre famiglie amiche della mia erano i Castro ed i Costa e con loro ci vedevamo per Shabbat. Da ragazza lasciai il mio villaggio per andare a studiare a Bogotà, lì incontrai mio marito e quando decisi di portarlo a casa per presentarlo ai miei genitori mio padre oppose un netto rifiuto. Non mi arresi, sapevo che a mio padre lui sarebbe piaciuto e quando finalmente andammo a pranzo dai miei, mio padre, osservando come lui si lavava le mani, come lui pregava prima di mangiare capì quello che io già sapevo e disse: “Credo proprio che con lui ci intenderemo”. Avevamo la stessa origine spagnola e marrana. Ci sposammo avemmo una figlia, Rosita, e lei da piccolissima cominciò ad interessarsi all’ebraismo e fare domande sugli usi di famiglia: perchè per il lutto siamo seduti su sgabelli bassi? Perchè le candele accese il venerdì sera? Quando era al liceo mia figlia scrisse un articolo di argomento ebraico sul giornale della scuola persino El Tiempo, il principale giornale di Bogotà ne parlò. Mio cognato, che era un magistrato chiamò Rosita nel suo ufficio e le disse: “Hai ragione, noi siamo ebrei.” Fu una conferma per la sua vita: tutti gli amici di Rosita erano ebrei ed allora lei decise di partire per Israele e di andare a vivere ad Efrat do ve fu accolta da molti rabbini di lingua spagnola. Mio figlio Itamar dopo un po’ ha raggiunto la sorella per seguire anche lui un percorso di ghiur ed ha anche servito l’esercito dell’Onu sul Sinai. Noi volevamo raggiungere presto i nostri figli ma non sapevamo come: mia madre sapeva che lei non sarebbe mai potuta venire in Israele però pregava che qualcuno di noi potesse farlo ed io sono stata la fortunata che ha compiuto questo passo. La mia famiglia prima di arrivare in Colombia ha viaggiato tanto cercando un rifugio: siamo originari di Avila, in Spagna, siamo scappati ovunque, anche a Venezia come Dona GraciaNasi, ma solo in Israele sono davvero a casa.”
“Anche io sono di origine spagnola”, mi dice Ariel. “Mi chiamo Ardilla, noi siamo della regione occidentale della Spagna di un villaggio che si chiama Badajos al confine con il Portogallo dove si trova un fiume che si Ardilla ed un altro villaggio di Ardilla. In Colombia siamo andati a vivere in un posto di montagna che si chiama Sapatoca, poi ci siamo avvicinati con i secoli alla capitale, Bogotà: ai tempi della Inqusizione per quelli come noi era più sicuro vivere lontani dalle città. Siamo sempre stati contadini: in casa nostra eravamo nove figli e tutti i maschi hanno avuto il brit milà. Le nostre terre riposavano ogni sette anni, non mietevamo l’angolo del campo e toglievamo la decima dai prodotti della terra. Da bambino ho imparato a suonare lo shofar che usavamo come richiamo tra i campi. Tutto questo per me era normale, come i matrimoni tra cugini, tra parenti: mio padre e suo fratello avevano, infatti, sposato due sorelle di una famiglia con usi uguali ai nostri. La mia famiglia ha sempre abitato in villaggi che avevano il giorno di mercato la Domenica o il Lunedì, mai ovviamente di Sabato. Quando mia figlia ha aperto gli occhi con consapevolezza sul mondo ebraico per me è stata una gioia: finalmente sapevamo chi eravamo e cosa volevamo essere in futuro e studiando di fatto ci connettiamo alla ragione del nostro essere. Qui stiamo ritrovando la nostra identità piena, in casa nostra infatti le feste sopravvissute erano solo Shabbat, Shavuot e Pesach, quando preparavamo il pane solo con il mais e senza lievito. Riuscivamo a calcolare anche il giorno di Kippur guardando la luna: essendo contadini conoscevamo tutte le sue fasi.”
Batya ha aggiunto un racconto finale che esprime al meglio la forza identitaria degli anusim:
“Un’aquila depone uova in molti posti del mondo lasciandoli abbandonati. Altre aquile li prendono e decidono che sono le loro uova. I pulcini crescono nell’uovo come figli delle aquile adottive, solo dopo che hanno rotto il guscio si rendono conto di essere figli di un’altra aquila ed in quel momento quella stessa aquila vola sopra di loro e loro la riconoscono. A qual punto la scelta dei pulcini è di abbandonare il nido sicuro per seguire il nido insicuro della propria vera identità. Non è stato facile, ma lo abbiamo fatto abbiamo seguito: le ali della aquila madre e siamo tornati a casa.” E vi ho portato su ali d’aquile. (Shemot 19,4).
Questo versetto mai prima del racconto di Batya mi è sembrato così vero.

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