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Riflessione
di rav Scialom Bahbout, Rabbino capo di Napoli e del Meridione, sulla parashah
del prossimo shabbat
Quando Mosè si avvicinò
all'accampamento, vide il vitello e le danze. L'ira di Mosè si accese, lanciò
via dalle sue mani le tavole e le frantumò ai piedi del monte
(Esodo 32: 19)
"A cosa assomiglia la cosa? A quel
principe che inviò un intermediario per sposare una donna; questi andò, ma lei
si era corrotta andando con un altro uomo. Cosa fece? Prese il contratto
matrimoniale che gli aveva dato il principe per sposarla e lo strappò. Disse:
"E' preferibile che venga giudicata come donna libera, piuttosto che come
donna sposata!". Così fece Mosè: quando Israele fece il vitello d'oro,
prese le tavole e le ruppe. Mosè disse: "E' preferibile che vengano
giudicati per aver commesso una trasgressione involontariamente, piuttosto che
volontariamente: infatti se avessero conosciuto la pena che sarebbe toccata
loro, non avrebbero peccato".
Shemoth rabbà 43: 1
"Vidi ed ecco che avevate peccato verso il
Signore Dio vostro": vide che Israele non aveva possibilità di sopravvivere
dopo ciò che aveva fatto, congiunse a esso la propria persona e ruppe le
tavole. Egli disse al Signore: "Loro hanno peccato, ma anche io ho peccato
perché ho rotto le tavole; se tu perdonerai il loro peccato, perdonerai anche
il mio, com'è detto: (Esodo 32: 32) Ora se sopporterai il loro peccato, allora
perdonerai anche il mio peccato; ma se tu non perdonerai il loro peccato, non
perdonerai il mio: allora, cancellami dal tuo libro che tu hai scritto".
Shemoth rabbà 46: 1
La
rottura delle tavole della legge da parte di Mosè è uno degli episodi più
drammatici della sua vita e del suo rapporto con il popolo. Il verso dell'Esodo
che narra il momento clou in cui ciò avvenne può essere diviso in due parti:
nella prima, la Torà descrive il progressivo avvicinamento di Mosè
all'accampamento e l'istante in cui poté rendersi conto de visu di quanto Dio
stesso gli aveva detto; nella seconda, la reazione di Mosè.
Di
fronte all'informazione datagli da Dio stesso, Mosè avrebbe potuto decidere di
rompere subito le tavole oppure di lasciarle sul monte. Egli decise invece di
portarle con sé fino all'accampamento, sperando, forse, che nel frattempo il
popolo si fosse ravveduto o che la colpa non fosse così grave. Lo spettacolo
che gli si parò davanti fu peggiore di quanto si aspettasse. Il popolo aveva
fatto un vitello di metallo fuso, ma lungi dall'avere rimorso per l'azione
idolatrica compiuta, in aperto contrasto con il comandamento appena ricevuto,
danzava e cantava con gioia. Riportarlo alla ragione con mezzi normali sarebbe
stato difficile, se non impossibile: era necessaria una reazione forte. Forse
ci saremmo aspettati che Mosè – il
massimo profeta – assumesse un atteggiamento più riflessivo e meno emotivo: la Torà insegna invece che anche Mosè,
per quanto dotato di alta spiritualità, è un essere umano che, in circostanze
particolari, può essere travolto dai propri sensi. D'altra parte,
l'informazione, quasi asettica, che aveva ricevuto da Dio, non poteva avere lo
stesso effetto che ebbe invece quando vide il popolo che trasgrediva un
comandamento così rilevante in quanto espressione proprio del patto che lega
Israele al Signore.
Nella
seconda parte del verso viene narrata la rottura delle tavole. I commentatori
si chiedono perché mai Mosè le ruppe: infatti l'uomo non deve farsi trascinare
dall'ira e non deve distruggere neanche l'oggetto più semplice e tanto più un
oggetto così sacro come erano le tavole che avevano una santità particolare,
secondo quanto dice il testo, "le tavole erano opera del Signore e la
scrittura era la scrittura del Signore, incisa sulle tavole" (32: 16).
Il
primo midrash paragona il rapporto tra Dio e Israele a una relazione tra marito
e moglie e l'idolatria all'adulterio: dato che una pena può essere comminata
solo nel caso in cui chi compie un azione proibita ne conosca anche le
conseguenze legali, Mosè ruppe le tavole per far sì che la colpa commessa dal
popolo potesse essere considerata involontaria e quindi non punibile con la
pena di morte.
Il
secondo midrash afferma che Mosè volle condividere la stessa sorte che sarebbe
toccata a Israele: quando Dio gli propose di distruggere il popolo per crearne
uno nuovo che avesse lui come capostipite, Mosè preferì rompere le tavole e
stracciare il contratto che unisce Israele a Dio, compiendo così una colpa
grave che lo avrebbe accomunato al popolo: o con Israele o la morte.
Rashbam,
le cui interpretazioni sono note per essere spesso vicine al significato
letterale del testo, sostiene che, quando vide il vitello, Mosè perse le sue
forze e gettò le tavole a una breve distanza per non farsi male ai piedi.
Questa opinione contrasta con quanto narrato da Mosè stesso in Deuternomio (9:
17): "afferrai con forza le due tavole, le gettai dalle mie mani e le
ruppi davanti ai vostri occhi".
Secondo
Rashi, con la rottura delle tavole Mosè voleva punire il popolo, dimostrando
che non era degno di ricevere la Torà: infatti gli ebrei avevano di fatto già
rotto le tavole, trasgredendo il comandamento fondamentale che simboleggia
l'unione tra Israele e Dio.
A
questa opinione, Abarbanel aggiunge che Mosè ruppe le tavole nell'accampamento
e non quando era sul monte, perché solo vedendo frantumare quella grandiosa
opera divina che erano le tavole, gli ebrei sarebbero rimasti profondamente
colpiti.
Rabbi
Izhak Aramà sostiene che, oltre allo scopo di punire il popolo, la rottura
delle tavole vuole avere anche una funzione educativa: lasciarsi trascinare
dall'ira è considerata cosa assai grave, paragonabile all'idolatria, ma può
essere giustificabile quando serve a shoccare coloro che osservano un'azione
generata dall'ira: quindi Mosè ruppe le tavole non perché fosse uscito di
senno, ma perché intendeva sollecitare il popolo a capire quale azione
terribile avessero compiuto: per spezzare, assieme alle tavole, anche il loro
cuore (per usare l'espressione del Natziv).
Più
vicino al significato letterale del testo è il Ramban: non ci fu nessuna
intenzione educativa o punitiva o partecipativa nell'azione di Mosè: egli, di
fronte alla visione del vitello e degli ebrei che vi danzavano intorno al suono
dei tamburi e dei flauti, non riuscì a trattenersi: non ci fu
"premeditazione" nella rottura delle tavole, ma solo il dolore nel vedere
la caduta del popolo dalle vette raggiunte nella rivelazione del Monte Sinai
("faremo e ascolteremo") allo stato di degrado in cui erano scesi
creando il vitello d'oro.
Un'interpretazione
originale esprime rabbi Meir Simcha Dvinsk nel suo commento (Meshech chochmà):
assieme all'ira e al dolore, Mosè volle dare un grande insegnamento per tutte
le generazioni. Il popolo ebraico poteva credere che le tavole avessero una
santità intrinseca, mentre la vera santità non è nei luoghi, negli oggetti,
nelle case e neanche in un uomo dalla più grande personalità: Mosè in fondo era
soltanto una "mediatore" che aveva il compito di trasferire la Torà
per portarla dal cielo alla terra. Rompendo le tavole, Mosè dimostrò che esse
non possedevano alcuna santità: la santità stava (e sta) nelle parole e
nell'osservanza della legge cui l'uomo è tenuto.
Secondo
i Maestri, questa fu una delle tre azioni per le quali Mosè ricevette la piena
approvazione da parte di Dio, ed è interessante notare che Rashi chiude il
proprio commento citando l'interpretazione che forniscono i Maestri alle ultime
parole della Torà ("Per la notevole forza e per le cose grandi e potenti
che Mosè aveva operato agli occhi di tutto Israele"). La grandezza di Mosè
non fu quella di aver portato la Torà al popolo, ma piuttosto di aver insegnato
che ci sono momenti in cui è preferibile romperla, per poter poi riprenderla al
momento opportuno, piuttosto che vederne il messaggio umiliato e travisato
nelle azioni dell'uomo. Infatti, la santità divina risiede solo nella Torà e
nell'uomo che la applica nella sua vita.
E'
scritto (Berakhot 8b) che "nell'arca c'erano i frammenti delle prime
tavole e le seconde tavole": il paradosso è che le prime - che erano opera
divina - erano rotte, mentre le seconde - che erano opera umana - erano
integre: la santità non risiede negli oggetti, ma nell'osservanza delle leggi
che sono incise nelle tavole del cuore dell'uomo.